La Merla, il rito che caccia Gennaio. Propiziazioni canore in dialetto
“Se vùm mìia a cantàa la Mèerla, fùm mìia bèl de galéte” “Se non andiamo a cantare la Merla, non facciamo un buon raccolto di bozzoli”, si diceva con sentita convinzione nelle campagne della Bassa Padana. E tutti facevano del loro meglio perché questa tradizione riuscisse alla perfezione ed ottenesse gli auspicati effetti nella corale partecipazione ad un rito folklorico in cui il dialetto era (ed è) linguaggio elettivo, portatore ed evocatore di un’aurea dalla forte connotazione identitaria.
Oltre ad essere cantato, quello ‘Merla’ è un dialetto narrato attraverso la poesia, presente nel filone lirico di Melchiorre Bellini e nella produzione di Alfredo Pernice, il quale dedicò al nero e mitico pennuto un’intera composizione, pubblicata sulla rivista “Cremona”, nel gennaio-febbraio 1941. In questi versi il poeta ci parla di un generale chiamato Merlo, e di un Gennaio che non si decideva mai a por fine ai rigori stagionali, così come di una Merla bianca avente tale colore non per caratteristiche albine d’origine, ma a causa dello spavento procuratole dal primo mese dell’anno. Questi versi sono la testimonianza della pluralità creativa del folklore, che si propone e si manifesta in un modellamento ininterrotto di varianti nel ricordo e nella qualità di alcuni giorni ‘canonizzati’ in chiave popolare dall’immaginario collettivo.
La leggenda narrata dal poeta Alfredo Pernice
Il generale Merlo, il Po gelato e la Merla bianca dallo spavento
La Merla
29-30-31 genàar
El generàal Mèerlo l’àa traversàat
el Pòo, zelàat (da pasàagh sö i canòon)
cun néef e frèt, da spacàa fìn le piàante:
e, per trìi dé, gh’è pasàat sö suldàat.
…A töti ghe zelàava fin el nàas.
…Insóma, i sìiva pö da che pàart tràas.
Il generale Merlo ha attraversato
il Po gelato (da fargli passare sopra i cannoni)
con neve e freddo, da spaccare fino le piante:
e, per tre giorni, ci sono passati sopra i soldati.
…A tutti si congelava addirittura il naso.
…Insomma, non sapevano più da che parte sbattere la testa.
Che frèt, che zéel, che néef, e che rüìna!
Invèerno de danàat. E cu’l Genàar
che finìs màai. Sèemper calìif e brìna.
El Pòo töt biàanch, e i nìigoi serenéi.
Sóolo fümàava (in més a i ciaruléen)
Le bùche di cavàj…e d’ì caméen.
Che freddo, che gelo, che neve; e che rovina!
Inverno da dannati. E con il Gennaio
che non finisce mai. Sempre brina e brina.
Il Po tutto bianco, e le nuvole cinerine.
Soltanto fumavano (in mezzo ai lumicini)
le bocche dei cavalli e dei camini.
Na bèla mèerla (biàanca da’l spavèent)
ciapàada in més a la turmèenta e a’l vèent,
sperdìida in töt chèl frèt e che ‘l infèerno,
la s’è salvàada dèent in de ‘n caméen
de na caséta pèersa in rìiva al Pòo:
e…la s’è mìsa a’l cùbi töt l’invèerno.
Una bella merla (bianca per lo spavento)
presa in mezzo alla tormenta e al vento,
sperduta in tutto quel freddo e quell’inferno,
si è salvata in un camino
di una casetta sperduta sulla riva del Po:
e …si è messa al riparo tutto l’inverno.
Sóola, afamàada, alméen la se scaldàava.
Per la gràan séet, la becugnàava néef;
e per mangiàa, la biasügàava biöm.
Óo quàanti dé, l’éera stàta al scüüri e al föm
sèen da per lée! Che vìta pòoch aléegra.
…Quàan’ l’è vegnìida fóora, l’éera néegra.
Sola, affamata, almeno si scaldava.
Per la gran sete, beccava la neve;
e, per nutrirsi, mangiucchiava polvere di legno, la tarlatura.
Oh quanti giorni è rimasta al buoio e al fumo
Sempre da sola! Che vita poco allegra,
…Quando è uscita, era nera.
La versione di Pernice inserisce una circostanza militaresca alla leggenda del contrasto fra l’impertinente pennuto che si prese gioco di un mese ormai giunto agli ultimi sgoccioli, ed un Gennaio permaloso e vendicativo che punì le smancerie della Merla facendosi prestare alcuni giorni dal dirimpettaio Febbraio. Così esso venne a costringere il pennuto, allora bianco, a rifugiarsi in un camino, dal quale sarebbe uscito, dopo tre giorni, nero come la notte. Nella tradizione cremonese, insieme a questa leggenda, ve sono altre tre, che vengono riportate da Giampaolo Dossena nella sua <<Guida a una Cremona leggendaria misteriosa insolita fantastica>>.
Nella prima, si racconta che la Merla fosse una vecchia che voleva sposare un giovanotto; per meritarselo essa stette nuda quei tre giorni sul tetto; al terzo giorno il giovane corse da lei e la trovò stecchita.
Nella seconda, si dice che il Merlo e la Merla fossero due sposi novelli, che volevano tornare a Cremona; essi dovevano attraversare il Po in barca; ma il grande fiume era gelato. Gli sposi aspettano il 29, aspettano il 30, aspettano il 31; per l’impazienza provano ad attraversare il fiume con un ninsòt, una slitta; la crosta cede, i due muoiono annegati.
L’ultimo riferimento al nome fascinoso ed inquietante della Merla riguarda la storia di un cannone provvisto della stessa denominazione ornitologica, che i francesi fecero transitare, nel 1510, sul Po ghiacciato e che pare si fosse poi inabissato.
Va precisato che i temi delle leggende riguardanti la Merla del mito non sono presenti nei testi delle canzoni tradizionali che verranno cantate nei classici trìi dì de la Mèerla, il 29-30-31 gennaio o il 30-31 ed il 1° di febbraio, in molti paesi del Cremonese. In queste canzoni vi sono incisivi riferimenti al rinnovo della natura, che rimandano in modo manifesto, o attraverso metafore, all’approccio amoroso fra giovani maschi e giovani femmine, e che confermano tenere promesse nella linfa perpetua della vita.
Interessanti sono i prestiti e i contagi avvenuti fra melodie presenti in un areale italiano molto vasto; melodie che sono state come selezionate dal piacere canoro popolare per entrare a far parte della tradizione locale della Merla.
I brani ‘cristallizzati’ dal folklore in territorio cremonese sono:
1) Trà la rùca in més a l’èera (‘Butta la rocca in mezzo all’aia’);
2) La culumbìna biàanca (‘La colombina bianca’);
3) Bèl uzelìn de’l bòsch (‘Bell’uccellino del bosco’);
4) Chèl uzelìn che càanta in turezéla (‘Quell’uccellino che canta in torricella’);
5) L’àaqua de’l Travacòn ( l’acqua del Travacòn ).
Il rito viene concluso dalla mascherata del “contrasto fra Martino e Marianna”, un brano ‘a dispetto’ che un tempo ragazzi e ragazze dentro e fuori le stalle si rimandavano a vicenda, e che nel mantovano e sull’Appennino bolognese veniva cantato per san Martino, l’11 di novembre.
La Merla dai multiformi accenti
Ogni campanile suona le proprie varianti
Va detto che l’ordine di presentazione delle canzoni della Merla non è identico nei vari luoghi, e che non tutte le stesse lezioni vengono eseguite insieme, così come i testi non sono mai perfettamente identici passando da una località all’altra. Noi abbiamo cercato di creare una sorta di sincretismo letterario fra le varianti di Soresina e di Crotta d’Adda, privilegiando della prima versione le componenti strutturali e della seconda le assonanze dialettali.
Il testo della prima canzone, dal titolo ‘la Mèerla’, nome eponimo dell’intero rito, lo abbiamo trascritto così:
La Mèerla
Trà la rùca en méza a l’èera
se gh’è nìigul s’enserèna
Volilela volilela
Volilela volilà.
Getta la ròcca in mezzo all’aia
se c’è nuvolo si rasserenerà
La brügna l’è fiurìida
e tüti i la remìira
Volilela volilela
Volilela volilà.
La prugna è fiorita
e tutti la rimirano.
La brügna la fa el fióore
e tüti i fa l’amóore.
Volilela volilela
Volilela volilà.
La prugna fa il fiore
e tutti fanno l’amore.
La brügna la stà in bròca
e tüti i sé ripòoza.
Volilela volilela
Volilela volilà.
La prugna rimane vigile
mentre tutti si riposano.
La brügna l’è cascàada
e tüti i l’àa ütàada.
Volilela volilela
Volilela volilà.
La prugna è cascata
E tutti l’hanno aiutata.
Camìiza ricamàada
la metaròo in bügàada.
Volilela volilela
Volilela volilà.
Camicia ricamata
la metterò nel bucato.
Farùm na lisiàada
ma bèen insaunàada.
Volilela volilela
Volilela volilà.
Faremo una lisciviata
Ma ben insaponata.
‘Ndarùm a rezentàala
en de na funtàana ciàara.
Volilela volilela
Volilela volilà.
Andremo a risciacquarla
in una fontana chiara.
‘Ndarùm a slargàala
‘n de ‘n bèl giardìin de i fióori.
Volilela volilela
Volilela volilà.
Andremo a stenderla
in un bel giardin di fiori.
‘Ndarùm a ripiegàala
a l’óombra de l’amóore.
Volilela volilela
Volilela volilà.
Andremo a ripiegarla
all’ombra dell’amore.
‘Ndarùm a saràala
cu na ciavéta d’òora.
Volilela volilela
Volilela volilà.
Andremo a serrarla
con una chiavetta d’oro.
La seconda classica lezione è quella della Colombina bianca, il cui testo parla del progressivo avvicinamento del volatile ad una morte nell’acqua, in questo caso nell’Adda, in un volo verso una morte da considerare come metafora di una più ampia unione col Creato, verso un amore viscerale più ampio e assoluto, considerato come la risposta ad un amore materiale non ottenuto, di un amore e di una vita che verranno rimpianti da parte di tutti. E’ come il segnale di un contrappasso, l’avvertimento fatto proprio dal canto collettivo nei confronti del pericolo di un annientamento esistenziale. E’ come se venisse dichiarato pubblicamente che vi è solo la morte pari alla condizione di una vita privata di percorsi affettivi. Da qui la ricerca, il bisogno nella stagione veniente, nella primavera, di trovare, come nella canzone precedente della Merla, l’unione non con morte, ma con la vita, con l’amore.
La colombina bianca
La colombina bianca sa ben volar
volilela sa ben volar.
La vola in sö la bròca la donderà
volilela la donderà.
Vola sopra il ramo, dondolerà
volilela, dondolerà
La vola in mezzo al prato la becherà
volilela la becherà.
Vola in mezzo al prato, beccherà
volilela, beccherà.
La vola in riva all’Adda, la beverà.
Volilela la beverà.
Vola in riva all’Adda, berrà.
Volilela, berrà.
La beve alla fontana, la va pü jà.
Volilela la va pü jà.
Beve alla fontana, non va più via.
Volilela non va più via.
La vola sul palazzo la farà el gnàal.
Volilela la farà el gnàal.
Vola sul palazzo, farà il nido.
Volilela, farà il nido.
La rìiva sü la Torre la suonerà.
Volilela la suonerà din don dan.
Volilela riposerà.
Arriva sulla Torre, suonerà.
Volilela, suonerà din don dan.
Volilela, riposerà.
La vola in mezzo all’Adda la negherà
Volilela la negherà.
Vola in mezzo all’Adda, annegherà.
Volilela, annegherà.
La colombina è morta si piangerà.
Volilela si piangerà.
l terzo brano del rituale, Bèl uzelìn de’l bòsch, è certamente il testo che ha trovato più largo seguito e più intense tracce nella memoria collettiva. La dimostrazione più evidente è che lo si canti ovunque, con una trama dove l’italiano s’intreccia col dialetto creando come un rustico gramolot linguistico.
Chèl uzelìin de’l bòosco, rataplàm (da ricantare tre volte)
dove sarà volato, rataplàm?
In bràacio a la mìia bella, rataplàm.
Che còoza il gh’àa portàato, rataplàm?
Na leterìna sigilàada, rataplàm.
Che còoza gh’éera scrìto, rataplàm?
Ma di sposar l’aibella, rataplàm.
Mì l’ò sposata ieri, rataplàm
ed ora son pentito, rataplàm.
Lo studioso Roberto Leydi ci segnala una versione ‘risorgimentale’ di questa canzone raccolta in provincia di Novara, ma che è presente e conosciuta in quasi tutta Italia. Anche qui vi è l’amorosa ‘lettera insigillata’ portata dall’uccellino del bosco a una ragazza, per comunicare alla stessa una richiesta di matrimonio. L’uccellino vola <<in braccio a Garibaldi>> ed inserisce l’Eroe dei due mondi nella canzone come a suggellare il patto d’amore che si apre con l’inizio della storia della nuova Italia.
A riportarci al clima tradizionale padano dei giorni della Merla, ai suoi riti e alla potenza evocativa delle sue canzoni rituali è un richiamo poetico: la lirica della poetessa Franca Piazzi Zelioli , dal titolo Falò de Genàar, ‘Falò di Gennaio’.
Falò de Genàar
Èeeh…vvvùm!
Cùma ‘n bìs che, spaürìs,
el se inturciùla ai bròch
sèch e pelàat de na piàanta,
el fóoch
‘l intòorcia i masóoi
de’l falò
e dèent in de l’èera
‘l è töt en lüzùur!...
Eeeh …Vvvum!
Come un serpente che, smarrito
s’avviluppa ai rami
secchi e nudi di un albero,
il fuoco, avvolge le fascine
del falò,
e nell’aia
è tutta una luce!…
S’ciòpule e stéle
Le se mèsc’cia in de ‘l céel
frèt e pulìit de genàar
intàant che le fiàme
le se svàalsa, le bàla,
le càanta le véce cansòon
de la mèerla:
antìighe paròole
per en ciòp de amìich.
Faville e stelle
si confondono nel cielo
gelido e terso di gennaio
mentre le fiamme
si alzano, danzano
cantano le vecchie canzoni
della merla:
antiche parole
per un gruppo di amici
Dèent a’l fugòon
Se ghe sbàt dulùur…paüüre…
delüziòon…cativéeria…
Là in àalt, la Vécia,
infilsàada in sö ‘l bròch püsèe drìt,
la bambàna,
bulseghèent la s’ciupega,
e la brüüza!!
Dentro il gran fuoco
si gettano dolori…paure
delusioni…cattiverie…
Là in alto, la Vecchia,
infilzata sul ramo più dritto
dondola
crepitando tossisce,
e brucia!
Brüüza o bröta veciàsa!
Brüüza o bröta pajàsa!
E dèent in de’l fóoch
Pòorta cun tè
Le ròbe bröte
de töti i nos’ dé!
Brucia, o brutta vecchiaccia!
Brucuia, o brutta pagliaccia!
E dentro il fuoco
porta con te
le brutture
di tutti i nostri giorni!
Brüüza!
Brüüza!
Brüüza!
Àan el vèent
el se mès’cia udulèent
a le lìingue de fóoch
che piàan piàan la se sbàsa,
le se scüürta,
le móor…
Anche il vento
si unisce ululando
alle lingue di fuoco
che pian piano s’abbassano,
s’accorciano
muiono…
Adès, intùurno a’l grazée
j óc i se incàanta;
a’l calùur se slóonga le màan…
Pàarla nisöön.
Se pèert ne la nòt mìla penséer:
Saràal püsèe bèl el dumàan?
o saràal cùma jéer? -
Adesso, intorno alle braci
gli occhi si incantano;
al calore si tendono le mani…
Nessuno parla.
Si perdono nella notte mille pensieri:
Sarà più bello il domani?
O sarà come ieri? -
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