28 novembre 2022

La nostalgia del paesaggio padano con un monumento alle donne

Le stagioni non sono più quelle di una volta, si sa! Ma anche i campi, il paesaggio padano, gli scenari che attorniano la vita di noi abitatori delle pianure. Per questo ad ogni cambio di stagione, soprattutto in autunno, siamo presi dalla nostalgia di un mito. I luoghi da sempre sono investiti della capacità simbolica dell’animale-uomo, che fa risuonare di continuo gli ambienti di vita. La storia umana, come scrive spesso Anna Lazzarini dell’Università di Bergamo, vede da millenni donne e uomini proiettare sullo spazio la loro creatività, la sete di senso e di potere, visioni sociali, ideologie, credenze, valori. La spazialità non è mai stata pura estensione, pura funzionalità: ma ambiente significativo dove si rappresenta la capacità creatrice, trasformatrice, delle donne e degli uomini, frutto dell’agire, dei sogni e delle memorie di singoli e di comunità, di relazioni significative. Di tale trasformazione va narrata la storia, fissato il ricordo.

Il nostro paesaggio agrario, a partire dagli anni 50-60 del ‘900, ha visto scomparire i gelsi, che servivano per la stagione del baco da seta, i cavaléer, così utili per impinguare il magro bilancio della famiglia contadina e il profitto delle aziende agrarie; i campi sono ora molto più estesi, dove si possono muovere i grandi mezzi meccanici utilizzati di oggi, e non necessitano più di una irrigazione tradizionale, tramite fossi e fossati, in una rete sempre più fitta, protetta e sostenuta da platani, salici, ontani, querce, roveri e olmi, pioppi. La vegetazione ora è molto più rada, la varietà delle essenze assai minore. Ora ci si muove in un paesaggio agrario che non comunica più un senso di appartenenza, non attiva più ricordi e racconti alle persone, non è più riconoscibile. Un paesaggio estraneo. Solo i camminatori delle pianure, gli appassionati di turismo ciclistico e qualche nostalgico sanno ancora immedesimarsi in questa atmosfera. Sanno abbinare al presente la dolcezza del ricordo.

Sono mutati i colori della pianura. D’estate allora la campagna si esponeva alla vista attraverso colori diversi da quelli di oggi: le distese del giallo punteggiato del rosso dei papaveri degli onnipresenti campi di grano, ma c’erano ancora, nel dopoguerra, le grandi chiazze di verde, picchiettate di azzurro-cielo, dei campi di lino, che poi a fine stagione si trasformavano in macchie giallo-marrone, pronte per il taglio, la raccolta dei semi, l’essicazione delle piante, per poi passarle alla macerazione, nelle vasche scavate nel terreno (mujòon). 

A caratterizzare il paesaggio padano, sono cambiati molto i rumori, l’alternarsi tra suoni e silenzi. nella campagna si poteva sentire più nitidamente il canto degli uccelli, i passeri onnipresenti, le tortore, il cuculo d’estate, il passaggio velocissimo delle rondini con i loro stridii, i fischi dei merli. Ogni tanto un muggito, un raglio, un nitrito, il richiamo di un gallo o delle galline, con intorno i loro pulcini, lo strano singulto del tacchino, e il chiacchiericcio delle anatre che andavano e venivano dai fossi. E naturalmente il suono delle campane, richiamo religioso che scandiva accanto al tempo della preghiera, quello del lavoro e del riposo.

Tra i rumori costanti, dopo scuola, o d’estate, le grida dei moltissimi bambini e ragazzi che giocavano, si rincorrevano e si inventavano avventure dalla mattina alla sera. Chi non ha mai giocato nascosto tra le balle di paglia, che spostate consentivano di costruire fortificazioni e castelli, chi non si è mai scavato un tunnel nel fieno, per rintanarsi fino a raggiungere un profondo nascondiglio al di fuori degli sguardi e dei rumori, chi non si è mai arrampicato sugli alberi o non si è costruito da solo un arco con un ramo di salice, chi non ha provato a fare il bagno nelle nostre rogge, nei canali, non sa che cosa veramente si è perso della felicità piena e totale dell’infanzia. E come scordare le avventure nelle aree più interne e recondite delle case e delle cascine, i vastissimi granai, le soffitte, le cantine, dove i rumori dell’esterno erano attutiti e quasi lontani, e dove ci si rifugiava in un’atmosfera di fantasia e di mistero?  

Sono anche cambiati, a caratterizzare il paesaggio, gli odori della campagna, delle cascine, dei campi, odori e profumi assai più intensi e pregnanti. Tutte le diverse stagioni, e i diversi lavori, portavano il loro messaggio all’olfatto: l’odore del fieno si trascinava per tutto l’inverno. L’odore della stalla dove si andava per scaldarsi, per giocare e alla sera per recitare il rosario, era uno degli odori più intensi che rimaneva impregnato negli abiti, quasi come un marchio, a causa del quale i giovani bergamini tardavano a trovare una ragazza che li accettasse. 

Un odore quasi scomparso accompagnava la preparazione domestica del vino. In molte case, non solo nelle osterie, il vino non si comprava: dopo l’acquisto delle casse piene d’uva, si cominciava la pigiatura (schisàa l’üa) nella grande tinozza, dove due o tre uomini, a piedi nudi, con i calzoni rotolati in su, davano inizio alla vera e propria maratona. In tutto questo coadiuvati da qualche donna, che in quella circostanza alzava la gonna, per non macchiarsi, ma con un poco di malizia. In uscita uno zampillo di mosto (mùst), dolce, profumato, che via via veniva versato nel tino, dove rimaneva a fermentare, spesso in un cantinetto apposito. Il mosto serviva anche per fare il sugo d’uva (el süüch). Le raspe venivano poi pressate nel tòorc, per spremerne fino all’ultima goccia. I bambini vicino alle tinozze della fermentazione andavano di nascosto, spaventati dai grandi per il pericolo dell’anidride carbonica, che poteva soffocare in un ambiente chiuso (molti ricordano che ci si avvicinava con una candela accesa: se si spegneva c’era pericolo). La cantina nella penombra era sempre impregnata di odori allusivi. E là, appesi, si vedevano i salami, i cotechini, i prosciutti appesi, a stagionare. Ma solo le famiglie più benestanti godevano di tale abbondanza.

Poi c’erano gli odori che accompagnavano le trebbiature, quelli del grano steso nell’aia a seccare, e quello della terribile fatica dell’insaccatura: Ricordo la fatica di mio padre, quando faceva le parti, una volta che il grano sull’aia era essiccato, con in mano le misure: el minìin, la mìna, el düpi. Si metteva seduto di fianco ai grandi mucchi e riempiva la misura, la metteva a raso e poi insaccava: ön, dùu, trìi, quàter, cìnq, sàc. I sacchi erano da portare a spalla sul solaio, divisi poi per quarti o per quinti (uno al lavoratore). Così per tutto il giorno. A poco a poco la polvere del grano lo copriva, si appiccicava alla pelle sudata, diventava come una maschera bianca. Se si pensa che el düpi misurava dodici chili di grano, si può capire la fatica immensa di qual compito.

Terribile era, rispetto ad ora, la condizione femminile. Tutti gli uomini, che ci hanno rievocato la vita di un tempo, quando pensano all’immane volume di lavoro delle donne d’allora, rimangono ancora stupefatti. “Bisögnarès fàa en momumèent à le nòostre dóne”. Per quante ore lavorava una donna? Dalla mattina alla sera, sempre, spesso anche di notte. La vita delle donne era scandita ancor prima dell’alba, quando si alzavano per preparare la colazione al marito, ai figli, magari all’anziano non più autosufficiente. Poi seguivano tutte le incombenze, della casa, della famiglia, della cascina. Cucinare per tutti, rimediando qualche cosa anche quando non c’era più niente; lavare, stirare, cucire, rattoppare e rammendare, perché nulla doveva essere buttato, tutto usato e riadattato, passato da generazione in generazione, dai figli grandi ai nuovi nati, fino all’estrema usura; pulire pentole, piatti e stoviglie, spazzare la casa, rifare i letti, vuotare i vasi da notte.

L’assistenza al parto in famiglia o tra vicine, curare chi stava male, fare la veglia ai morti erano collegati in una catena di solidarietà tra donne, tra famiglie, che si trasmetteva di generazione in generazione, anche perché gli eventi più gioiosi o dolorosi erano ripresi, narrati e rinarrati nelle occasioni delle feste. Andare in chiesa a pregare anche per il marito (gli uomini vanno all’osteria, si sa) e i defunti, per i quali si teneva il lutto per anni; e infine nei momenti di “riposo”, mentre si faceva filòs, fare la calza o qualche maglia. I bambini erano immersi in tutto ciò: dormire con la nonna ammalata, vedere il nonno o lo zio morire era normale. Adesso le tappe dell’esistenza vita, la sofferenza, la morte sono lontane, all’ospedale o all’ospizio, espulse dalla quotidianità. Per le nuove generazioni un danno emotivo irreparabile.

Legata a questo andamento della casa, c’era la cura degli animali che rifornivano di cibo pregiato la famiglia: galìne, nadròt, òche, cunìc (dunéi), pòol e pòole. Se poi si aveva la fortuna di un orto, e magari un posto per il maiale, la famiglia era già fortunata: una fortuna pagata da un sovrappiù di impegno e di cura per le donne. I ragazzi fin da bambini andavano a rane, a manàa, a bòss e zèerle, a pescare, poi a fóons o a lumàaghe. Questo era il lavoro domestico, a cui si aggiungevano moltissimi lavori stagionali della campagna. Poi arrivava la stagione micidiale dei cavaléer, i bachi da seta, che richiedevano, oltre la pulizia continua dè le aréle a ripiani sovrapposti, un rifornimento crescente di foglie di gelso, cambiando continuamente i ripiani a seconda della crescita (méter i cavaléer sö j aréle). Qui le donne erano aiutate anche da bambine e bambini, che si arrampicavano sui gelsi, dove gli adulti facevano fatica ad arrivare e andavano avanti e indietro dai campi alla cascina e viceversa. I bachi, da tenere bene al caldo e in ambiente a temperatura costante, andavano crescendo all’inizio a poco a poco, attraverso cinque mute, poi sempre più velocemente, quando invadevano addirittura la casa: bisognava far loro spazio, fino ad arrivare a trasferirsi a dormire sul fienile. E il brucare ossessionante e divoratore riempiva le stanze di un crepitio inarrestabile. Quando il rumore dei piccoli divoratori diminuiva, si formava il bozzolo, che poi in sacchi veniva venduto (per metà al contadino, per metà al padrone, ma poteva variare il rapporto a seconda del tipo di contratto). 

In estate c’era poi la stagione del frumento, del granoturco, della trebbiatura, della spigolatura, della spannocchiatura (scartusàa), dell’essicatura dei grani, dello “spazzare” l’aia, raccogliendo anche gli ultimi grani sparsi nella polvere: tutte operazioni a cui le donne davano un contributo fondamentale e in alcuni casi esclusivo. E in chiusura di stagione, e poi in apertura dopo l’inverno, il grande cerimoniale del bucato, con il suo significato purificatore, apportatore di odori tutti suoi. Fàa la bügààda, una o due volte all’anno, metteva in movimento le donne fin dalla mattina presto, lavoro complesso che richiedeva la preparazione della liscivia, con la cenere accumulata nella stufa e nel fugulèer, in cucina, dove ardeva perennemente un poco di legna, con qualche pentola appesa alla catena. La cenere veniva messa in grandi paioli in acqua fatta bollire, in de’l paróol, perché si sciogliesse e diventasse liscivia, con potere pulente e sbiancante. Quando i bambini si svegliavano alla mattina, nel letto, sentivamo le donne che da basso già da ore facevano bollire il bucato, e lo rimestavano al fuoco acceso sotto il portico. Le dita delle donne, molli, pallide, con la pelle a solchi, a contatto col lisiàs era resa quasi trasparente. Poi i vari indumenti, ma soprattutto le lenzuola, venivano stese sulle corde del bucato in cortile, sotto i portici, o portate in campagna, sostenute da pertiche ad intervalli regolari. 

La casa era naturalmente il centro della vita famigliare e delle donne in particolare: in casa si nasceva, si cresceva e si viveva dopo sposati, ci si ammalava, si moriva e si vegliava (fàa la vélia al mòort), assicurando la riproduzione della specie umana. Le case erano stipate di persone di diverse generazioni e non si sapeva dove mettere i nuovi venuti. Ci ha raccontato un’anziana: “Quando mi sono sposata, non avevamo i soldi per andare in appartamento nostro, nemmeno per avere una camera per me e per mio marito. Il letto matrimoniale era in una stanza di sopra con una tela tirata: dall’altra parte dormiva uno zio anziano. Appena ci si muoveva nel letto, cominciava a tossicchiare. E pensare poi che i materassi erano fatti cùi scartòs (foglie secche di granoturco), per cui bastava muovere una gamba che scricchiolavano. Si immagini che luna di miele!”. Poi con un sorriso d’intesa: “Però i figli li abbiamo fatti lo stesso…”. Insomma, “na vita da càan..: ma l’era bel, l’era bel”. 

La data fatidica dell’11-11, S. Martino, era vissuta come una sentenza di condanna o di assoluzione per i dipendenti delle cascine. Se il giudizio del padròon era negativo, si caricavano le masserizie e i pochi mobili sui carri del nuovo datore di lavoro e si lasciavano amicizie e amori, si cambiava cascina. Le piogge di fine autunno allagavano i campi appena seminati di frumento, e allora tutti fuori con le vanghe a fare quei piccoli solchi (sulchèer), per far defluire l’acqua e non far marcire le prime piantine che nel frattempo erano nate. Così il ciclo dei lavori e della vita ricominciava.

Si chiedeva in Libera nos a malo Luigi Meneghello: “Perché questo paese mi pare certe volte più vero di ogni altra parte del mondo che conosco? Il paese di una volta aveva un suo pregio: formava una comunità umana modesta ma organica. Ci conoscevamo tutti, il rapporto tra i vecchi e i giovani era più naturale, il rapporto tra gli uomini e le cose era stabile, ordinato, duraturo. Duravano le case, le piccole opere pubbliche, gli arredi, gli oggetti dell’uso: tutto era incrostato di esperienze e di ricordi ben sovrapposti gli uni agli altri. Gli utensili domestici avevano una personalità più spiccata, si sentiva la mano dell’artigiano che li aveva fatti; la parsimonia stessa del vivere li rendeva più importanti”.

Nonostante il ricordo di tanta fatica e di tanta povertà, ci assale la nostalgia. Abbiamo tutti bisogno di miti. 

Ritorno in cascina, foto di Luigi Briselli

Carmine Lazzarini


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