30 aprile 2023

Quarant'anni all'acquedotto di via Realdo Colombo (1)

Apro il giornale e leggo il titolo:”L’acquedotto di Cremona ha cento anni”. Sento le rotelle del cervello girare velocemente, tanto velocemente che mi sembra facciano anche un rumore. L’impressione è che stiano girando all’indietro, s’arrestino  e dopo un poco ripartano in avanti, ritornino un tantino indietro e fermarsi lì. Quasi mi viene un colpo! C’è da non credere: di quei cento anni del titolo ben quaranta sono anche anni della mia vita. In altre parole; io ho passato quarant’anni della mia vita fra quelle sale e quegli aggeggi che l’articolista descrive ed illustra nel servizio fotografico. Insomma io ho lavorato per quarant’anni all’acquedotto di Cremona. Penso a quante storie avrei potuto scrivere se, a suo tempo,  avessi vinto la pigrizia  e di quante persone  avrei  potuto parlare senza dovere andare a cercarle in qualche meandro della memoria. Faccio un rapido conto e, salvo errori od omissioni, posso dire di avere visto passare non meno di otto  presidenti, almeno  sei direttori generali, certamente più di venticinque capi dei vari servizi, fra ottanta e cento membri di consiglio di amministrazione e un numero che non so calcolare di quelli come  me, quelli che  passano, non lasciano opere da ricordare, e che si pensa non facciano storia.  Il giornale scrive di storia e degli impianti, non è il caso di ritornarci sopra se non per accenni rapidi a parti di questi che non vengono mai citate nelle ricorrenze. E’ la sorte delle cose che non possono essere ascritte a merito di qualcuno.  Devo avere letto da qualche parte che la storia non è altro che il racconto di quello che gli uomini hanno fatto, io non riesco a separare l’una dagli altri che poi sono quelli che più mi interessano.

Certo dirò qualche cosa anche di me, e di quell’anomalo giorno di assunzione che coincise con una giornata festiva e come, di festa in festa, si arrivò che varcai quel cancello di lavoro con   alcuni giorni di ritardo.  Ma il merito fu solo del calendario: “si presenti al capo servizio signor Guareschi alle ore otto del 1 gennaio 1960 in via Realdo Colombo 2” recitava la lettera. Suonai il campanello ed il signore che venne ad aprirmi  sembrò cadere dalle nuvole. “oggi è festa , non c’è nessuno, torni domani”. Ma l’indomani era sabato, il giorno successivo sarebbe stata domenica così cominciai a lavorare il lunedì 4 gennaio con tre giorni di ritardo.

     Passo spesso da via XI febbraio perché accompagno un amico che abita da quelle parti. Ho notato che alla casa che ancora ospita le pompe sono in corso dei lavori edili. Il muro che chiudeva la trifora che sovrasta la porta di ingresso è stato demolito ed è rimasta la ringhiera che, adesso,  sembra volere proteggere da accidentali cadute chi, dall’interno, incautamente si avvicinasse a quel varco. Ma non questi proteggeva quella ringhiera, ma quelli che l’artista immaginava al di qua di una veranda o porticato di riviera e che il granito sporgente di archi e colonne fantasticamente simulano. Oltre quei ferri lo sguardo era portato a perdersi nelle dipinte sfumature di verde e di azzurro di un ideale orizzonte e di un immaginario lago a simboleggiare che quello era il posto dell’acqua.  Al di là di quel muro dipinto d’acqua e di cielo, vi era una delle camere di deferizzazione. Se la prospettiva non mi inganna proprio quella che illustra l’articolo. Nonostante la indubbia abilità del fotografo l’immagine risulta una tantino anonima, forse un po’ fredda. Niente se paragonata al fascino che sprigionava quando la camera era in funzione. Era possibile guardare  al suo interno attraverso un'ampia vetrina collocata in uno dei corridoi del primo piano. L’acqua fuoriusciva violenta dagli ugelli che si intravedono anche nella foto, spinta in alto dalla forza che le imprimevano le sottostanti pompe di secondo salto (quelle nell’articolo chiamate di aspirazione dai pozzi, ma il peccato è veniale) per poi ricadere fragorosa come cascata di montagna. Sotto il pelo dell’acqua,  che si accumulava al piano per un altezza di circa cinquanta centimetri oltre i quali sarebbe uscita per il tubo di  “troppo pieno” ed andata sprecata, erano collocati alcuni fari rivolti verso l’alto. Accesi, la luce calda della incandescenza quasi colorava di sole l’acqua che nel suo  ininterrotto salire e scendere, cangiava, Era bello guardare oltre quella vetrina che stupiva ed affascinava non solo me. In quegli anni, prima che tutto cessasse di essere, ad un certo momento dell’anno accademico venivano in visita aspiranti assistenti sanitarie e crocerossine. Noi le facevamo entrare al buio e sistemare davanti a quella vetrina, immerse nel fragore della cascata. Poi, quando le voci  zittivano, prima che l’attesa diventasse insofferenza,  colpivamo con il nostro colpo di teatro e la voce dello stupore  era corale.

  La vasca era anche fisicamente centrale del sottosistema ozono-aerazione-filtrazione. Il gas veniva prodotto da uno dei  due appositi impianti  alloggiati in locali adiacenti. Immesso in un condotto, miscelato ad aria veniva spinto da un ventilatore di grande diametro  all’interno della vasca ad insufflare l’acqua in ogni sua parte. Per caduta, l’acqua che si raccoglieva sul fondo della vasca arrivava ai sottostanti filtri Bolmann dove, ad una capacità-velocità nominale di venti litri al secondo cadauno filtrava, depositando sul letto di sottile ghiaia i fiocchi di ferro e manganese che nel trattamento si erano formati. Uscita dai filtri l’acqua continuava la sua corsa ormai lenta  andando ad accumularsi nei due serbatoi, quello “piccolo” e quello “grande”, seminterrati fra le piante del cortile. 

   Per prima cosa venne praticato lo sbrego nel muro di cinta, non centralmente ma d’angolo in modo da facilitare l’entrata degli autocarri provenienti da via XI Febbraio. SI portò via il bel cancello originale  in ferro e ghisa.  Spogliati dai rami  i  primi a cadere furono i due pini giganti che in altezza  eguagliavano il pinnacolo del timpano. Poi fu la volta del pruno bianco e del pruno rosso, del fico, dell’albicocco e della siepe  martello che divideva in due il cortile. La vigna di uva “clinto”, che si estendeva a tettuccio sorretta da mensole piantate nel muro del vecchio serbatoio piccolo, non venne neanche tagliata ma abbattuta, travolta, messa a terra e sommersa dai detriti della demolizione. Per un certo tempo sopravvissero la rose attanagliate al muro della vecchia cabina di trasformazione “Santa Maddalena” che forniva l’energia all’acquedotto ed al quartiere. Spento lo zampillo della fontana, i pesci rossi  portati nella palude del  cavo “Morta”  anche questa ormai scomparsa sommersa da una discarica,  distrutta la vaschetta  circolare attorno alla quale si affollavano, all’ora della uscita i bambini della scuola  Realdo Colombo, tutto divenne deserto. 

  Oggi chi sbirciasse  all’interno di quell’area vedrebbe, là in fondo dove una volta erano gli interni di casa Manini, un parallelepipedo di cemento armato  tamponato con mattoni rossi. E’ il grande serbatoio pensile: due vasche comunicanti di duecentocinquanta metri di superficie per un volume utile di duemila metri cubi. Doveva essere parte integrante di un impianto di  potabilizzazione  progettato sul finire degli anni cinquanta e messo in cantiere nella prima metà degli anni sessanta. Era previsto che l’erigendo impianto funzionasse  a regime costante perciò abbisognava di una grande vasca di accumulo dove riversare l’acqua trattata durante il periodo di bassa erogazione e dove prelevarla nei momenti di maggior bisogno. Per ragioni che non sto a dire quell’impianto non venne fatto ed il direttore del tempo, progettista dell’impianto, andò via da Cremona diventando direttore dell’acquedotto di Bologna.  Il nuovo serbatoio venne inserito nel preesistente sistema in sostituzione dei vecchi serbatoi seminterrati. Fu cosa utile perché venne eliminato il ricorrente svuotamento delle pompe di rete che molto spesso venivano a trovarsi ad un livello superiore  di quello dell’acqua nei serbatoi. In questi casi l’acqua aspirata tendeva a girare attorno alla bocca di aspirazione  dando vita ad un vortice. Attraverso la canna del vortice l’aria finiva nelle pompe provocandone lo svuotamento e quindi la loro inefficacia. Ma per questo unico scopo utile sarebbe stato sufficiente qualche cosa di meno ingombrante e si sarebbero salvate le belle piante e la fontana del cortile. (1-continua)

Ennio Serventi


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commenti


claudio

30 aprile 2023 17:45

"... e i bambini della scuola Realdo Colombo..." o di Sant'Imerio partecipanti in maggio, la sera, al mese mariano presso la chiesa di santa Maria Maddalena, rigorosamente divisi tra maschi e femmine, si arrampicavano sul muro dell'acquedotto per scrutare dalle finestre la "fabbrica dell'acqua" dalla quale proveniva un rumore assordante....