21 novembre 2022

Storie di gente e case tra via Manini e via 11 febbraio

Erano gli anni di fine Ottocento quando si cominciò a discutere di dotare la città di un impianto per la distribuzione dell’acqua potabile.  Si confrontarono opinioni diverse: c’era che sosteneva il progetto di un acquedotto che attingesse l’acqua da fonti prealpine e che con un sistema di condotte venisse portata fino in città. C’era chi sosteneva la convenienza di un approvvigionamento locale mediante la terebrazione di pozzi.

Prevalse la seconda ipotesi e, per facilitare il raggiungimento della falda sottostante, si scelse il posto altimetricamente più basso della città dove istallare gli impianti. La grande casa  che ospita parte dell’acquedotto cittadino è ancora lì dove venne eretta nei primi anni del secolo scorso ed è lì che vi ho lavorato per quaranta anni. La grande casa, incastrata fra la chiesa di Santa Maria Maddalena, la casetta prepositurale e le vecchie case appoggiate alla chiesa di sant’ Imerio,  tronca una ideale continuità, non solo visiva, fra l'una e l’altra chiesa. E’ il destino di quella strada che, aperta nel 1878 per ospitarvi il grande complesso scolastico, interruppe l’ordito di quel quartiere che era sorto lungo le strade che da via Plàtina discendono a raggiera divergente  all’unico punto di contatto fra di loro e che poteva essere la prima strada di circonvallazione (le attuali via Gaspare Pedone e santa Maria in Betlem) all’interno delle Mura medioevali. Ancora negli anni settanta del secolo scorso contro quell’ordito si accanivano costruttori e proprietari di quei terreni di mezzo, desiderosi di poterli edificare.  Vennero posti vincoli e divieti che non riuscirono ad  impedire l’apertura  del varco, viabilisticamente inutile ma utilissimo per la edificazione laterale, fra la via Bonomelli e il corso Pietro Vacchelli.  Poi costruttori, proprietari trovarono altre soluzioni per accedere a quei terreni nascosti e quel che rimaneva dell’ordito fu salvo. Non così si può dire di prati e giardini. 

Sono note le divergenze fra gli urbanisti  ed i geologi e gli storici, però è bello pensare  che, in epoca andata, il Po lambisse il costolone sul quale è appoggiata via Plàtina e che dal suo continuo meandreggiare e muoversi verso est  emergessero, acquitrinosi e selvaggi, solcati da rami relitti del fiume, i terreni che dalla cerchia delle antiche mura romane andavano in declivio verso la campagna e che, per vicende storiche, appartennero alla chiesa ed al comune.

La costruzione delle mura medioevali determinarono l’inurbamento di quei terreni, estranei al perimetro della città romana, non più esclusivamente campagna e non ancora città,  ed il conseguente accrescersi del loro valore commerciale. SI dovette  mettere mano anche alla regolamentazione del deflusso delle  acque di colo che dilagavano per la campagna, ed accompagnarle oltre le mura. Forse utilizzando tracciati  di antichi rivoli relitti del PO vennero scavati canali e, per il fatto che il costo di tali opere fossero sostenute dal clero, vennero chiamate “Fosse dei preti". L’acqua portata probabilmente ad impinguare la fossa civica od evacuata oltre le mura attraverso il colatore “Morta” che esiste ancora.  

L’emergere di ampi  spazi  verdi forse determinò il ritornato toponimo di via Prato del Vescovo. 

Lungo i primitivi tracciati di quelle strade che divergevano dalla antica città romana, si insediarono ceti urbanizzati che provenivano dalle campagne. Vi costruirono le loro case di prevalente tipologia  conosciuta come del “lotto gotico”, l’impianto delle quali è ancora rintracciabile lungo il tracciato dell’antica via Gonzaga e dell’ultimo tratto della via Manini. Qui in via Manini, in una di queste casette acquistata da un gruppo di compagni, nella seconda metà del secolo scorso ebbe sede la sezione territoriale del Partito Comunista Italiano. La sezione ricordava nel nome il partigiano cremonese Bruno Ghidetti ucciso, nei giorni della liberazione, in via san Rocco  poco oltre il ponte sul cavo Cerca. In prossimità del luogo dove venne ucciso il partigiano un cippo, incastrato in una bassa siepe costeggiata da un muretto e da una pista per sole biciclette,  lo ricorda ai passanti. 

Poi,  per volontà di alcuni, il Partito Comunista Italiano venne sciolto e la casetta, che esiste ancora, tornata ad usi abitativi. 

Erano case costruite su lotti di terreno stretti e lunghi, con un limitato fronte verso strada con al piano terreno una o due stanze adibite a laboratorio o a bottega. L’abitazione era al piano superiore. Lo spazio si prolungava  con un cortiletto ed un più interno corpo di fabbrica adibito a rustico,  poi si estendeva uno spazio verde che consentiva di coltivare ortaggi, frutta ed allevare animali da cortile. Centralmente, al confine interno scorreva il canale di bonifica che forniva l’acqua e permetteva di portare via i rifiuti, al di là del quale cominciava l’orto della casa che si affacciava sull’altra strada. L’insieme costituiva un piccolo sistema autarchico di sopravvivenza che allargava alle nuove terre cittadine l’uso contadino di coltivare e di allevare in proprio i beni di prima necessità. Poi le superfici messe a coltura si estesero, “l’orto” divenne “ortaglia” in grado di produrre non solo per  una famiglia  ma anche per altri. Sul muro più alto di una casa in via Manini  la scritta, “all’Ortaglia vendita di vino” che sopravvive all’osteria stessa,  ci rende la sua testimonianza. Le eccedenze i bisogni familiari,  ancora nella prima metà del secolo scorso, venivano portate al mercato cittadino. L’uva “moscato” ("el mouscàat del pràat") era venduta per le strade mentre l’"uva americana", chiamata anche "mèerda de galìna" per i suoi acini piccoli, se la contendevano gli osti per la pigiatura. Ne ricavavano il “Clinto”, un vinello leggermente denso e profumato, a bassa gradazione alcolica non adatto all’invecchiamento. Veniva consumato subito e, rigorosamente, in piccole scodelle smaltate che  sembra ne sublimassero la gustosità e l’aroma. 

La tombinatura dei canali  interni cominciò nel 1900.

Uno di questi scorreva sotto il cortile dell’acquedotto, vi si accedeva passando da una botola quadrata del cortile e servendosi di una scala a pioli. AD esso erano allacciati gli scarichi di fondo e di troppo pieno dei serbatoi. Noi, più giovani, chiamavamo quel canale  sotterraneo “fognatura”, ma   Giuseppe Gaudenzi, già avanti con gli anni, ed in procinto d’ andare in pensione e che da sempre aveva abitato in via XI febbraio chiamava “ il fosso”,   trasmettendoci una sua memoria antica di quando quell’acqua scorreva in superficie. 

Io ho un ricordo abbastanza preciso di quelle case costruite su lotti gotici che pur tra rimaneggiamenti secolari, aggiunte e parziali o  totali rifacimenti  avevano mantenuto il loro impianto originario. In via 11 Febbraio sul fronte ora occupato dalla casa contrassegnata con il numero 38, in quello stesso spazio, insistevano ben tre di quelle casette. Sulle strette facciate la sferza della pioggia e dell'età aveva certamente diluito le diverse antiche  tinteggiature dai forti colori: scolorite, delicate e gentili come in   voluto aquarello quel che ne restava ancora coloravano lievi quel tratto di strada.   Due di quelle case dalle belle tinte pastello avevano laboratorio o botteghe al piano terra verso strada, in una  vi esercitava la sua attività il barbiere Sauro Cetracchi. Nell'altra, superata la stretta porta di accesso al cortile, il tabaccaio Ronchini vendeva chewing gum e dentifrici. Nei pomeriggi d'estate Sauro difendeva il suo antro dall'invadenza del sole,  srotolava  la tenda di un marroncino tenue  che faceva tutt'uno con  i muri della dirimpettaia chiesa ed i colori  delle case,  l'ombra  di quel modesto cortinaggio  si proiettava ampia al di là della larghezza del marciapiede. Da Sauro , erede degenere di un antico anarco-repubblicanesimo romagnolo, abbandonati Costa e Malatesta ed approdato a Karl Marx, o si parlava di politica o si ascoltava musica classica senza disdegnare il piacere di un sorso di vino buono. Per scambiar parola e prendere fiato anche Martino vi si rifugiava interrompendo il perenne andare e venire .

  In alto, nei locali ricavati da una sopraelevazione dell’ottocento, vi abitavano due sorelle che facevano le stiratrici. Dalle finestre,  perennemente spalancate in cerca di refrigerio, riuscivo a vedere, stando nel cortile dell’acquedotto, l’andirivieni di un avambraccio ed il ferro da stiro che strisciava su di un panno bianco. Poi, in quelle stanze, venne ad abitarci una signora con un bambino. Era molto più giovane di me, ci conoscevamo, insieme avevamo militato in un gruppo sessantottino. A volte alla sera, mentre il bambino dormiva, veniva a scambiare parola. 

Gli originari piani abitativi di mezzo erano occupati da gente che da sempre abitava nel quartiere. Ricordo la famiglia dell’idraulico Galletti, la famiglia Manzi. 

Erano persone che nelle sere d’estate, portandosi uno sgabello o una sedia con le gambe segate, veniva a cercare il fresco ed a far passare parola sul piccolo sagrato della chiesa di santa Maddalena.  L’area del sagrato era più piccola dell’insieme delle due parti della attuale aiuola,  chiusa su due lati  sembrava più un piccolo cortile che una piazzetta e l’AEM tentò di terebrarvi un pozzo.  I lavori di percussione, appaltati alla ditta Massarenti di Piacenza storica impresa di perforazioni, erano già cominciati quando qualcuno arrivò allarmatissimo. Parlò di vibrazioni e di pericolo di crollo della facciata e l’opera definitivamente accantonata. IL muro di cinta che delimita il cortile dell’acquedotto era, a quel tempo, appoggiato alla colonna che fa da spigolo destro della chiesa. Venne demolito quando si mise mano al restauro della facciata ed il nuovo muro arretrato in modo da ottenere l’isolamento della chiesetta. Per farne maggiormente risaltare la verticalità della facciata il muro venne ricostruito notevolmente più basso e non  fu possibile  ricollocare  il grande cancello originale. A lato del cancello che, come detto non era più quello del tempo,quando morì Enrico Berlinguer noi esponemmo la nostra bandiera rossa abbrunata. Il cancello  antico,  costruito nella fonderia dei fratelli Baltieri che aveva sede in una laterale di via Dante dietro alla Carbonifera, aveva lo stemma del comune fuso nella ghisa dei sostegni laterali.  Venne portato a chiudere un varco nel muro del giardino del vecchio ospedale ed è ancora lì, nel lato in fregio al viale Trento Trieste.  Fra quelli che venivano a prendere il fresco in quel piccolo sagrato, c'era anche una donnina che abitava nel mezzanino del palazzotto degli Zanotti, alla quale facevo piccoli favori  come cambiarle le lampadine bruciate e toglierle, dalle finestre, le tendine quando  dovevano essere lavate.

Ad un’altra, che abitava più avanti dove la strada cambia direzione, poco oltre la cooperativa “Martiri della Libertà” da tanti anni colpevolmente sparita, portavo il legno per il fuoco.  La cooperativa “Martiri”, come era comunemente chiamata, tutti gli anni nell’anniversario della liberazione dal fascismo organizzava un ambito torneo di bocce ad essi intitolato ed i giocatori arrivati da tutta l’alta Italia popolavano la strada. Il legno che portavo alla donnina   era quello degli imballaggi usati, destinato alla discarica. Lo tagliavo a misura e con la bicicletta glielo portavo a casa là in fondo, oltre il gomito, dove sembra che la strada voglia cambiare direzione   e lei lo bruciava nella stufa. Quando passava metteva dentro la testa e mi diceva: “giuinoòt…. te  racumàandi!” e quel raccomandarsi valeva di più di un qualsiasi ringraziamento. 

Poi , in quelle casette, arrivarono i primi immigrati dal meridione che avevano bisogno di tutto, ed il rapporto solidale  e di buon vicinato non si interruppe.

Insomma, oltre a lavorarvi,per quasi quarant’anni io sono stato uno del quartiere.

Il posto dell’acquedotto ha mantenuto l’ampio fronte stradale ma ha perso  la grande allegoria affrescata del lunotto sopra l’ingresso. Ha  perso  buona  parte di quei cortili rustici e campetti  che si prolungavano all’interno, fra le case di via 11 febbraio e di via Manini, oltre la piccola canonica ed i campi  per il gioco delle bocce dell’osteria dirimpettaia di quella “dell’ortaglia”. 

Ma era ancora bello, quando vi entrai per la prima volta, quello spazio che mi trasmetteva il fascino confuso dei cortili, dei muri scrostati, degli orti,  dei giardini e mi diceva di storie e cose antiche.

Ennio Serventi


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commenti


Enzo

21 novembre 2022 15:55

Caro Ennio, il tuo splendido pendolo di memorialista oscilla implacabile fra la Porta Po della tua infanzia e la via Gonzaga/porta Mosa del cuore della tua operosità all'Azienda (a Cremona basta quel nome a identificarla per quelli della nostra età...) Ogni volta che ti leggo mi inietti una potente dose di rimpianto per il tempo che ci è scivolato fra le dita : da quanti anni non c'è piu il coetaneo Orlando anfitrione della sacca finale di Gonzaga? A privarci della signora Zanotti è bastata la folata iniziale del covid; tre giorni fa, a toglierci il finissimo spirito della signora Roberta, è stato il tocco finale di una malattia che ignoravo nonostante a mezza mattina ci si scambiasse un saluto col profumo a Lei tanto caro dell'aneddoto kantiano.

Antonio

22 novembre 2022 18:15

Purtroppo anche la scritta “all’Ortaglia vendita di vino" è scomparsa pochi giorni fa, forse per colpa del bonus 110 % che tramite un cantiere l'ha coperta con pannelli di plastica isolante.

Jeppetto

25 novembre 2022 19:01

Purtroppo si perdono pagine suggestive ed interessanti della storia di Cremona, se penso a cosa è stato distrutto in nome dello "sviluppo della città"!... ☹️ 

Augusto

22 novembre 2022 19:02

Abito qui da quasi quarant'anni, ma fra queste strade si è snodata la vita dei genitori/nonni/bisnonni di miei parenti, fra i quali i più "antichi" immigrarono dal Trentino, causa povertà e leva militare, sfamati da vicini solidali e - i bambini - dal refettorio della Scuola.
Mi ricordo che alla fine degli anni '70 nella via senza auto la sera si trovavano crocchi di anziane e anziani seduti sul bordo del marciapiede con la loro seggiolina personale, ma era una situazione in esurimento. Ancora la si trova nell'"Autobiografia della leggera" quando prima della guerra il tratto a valle della chiesa era "zona franca" riguardo gli inseguimenti della polizia, che lì si fermavano.
Grazie per il prezioso intervento.

Claudio

22 novembre 2022 21:57

Lei, Signor Augusto sono quarant'anni che abita in questa zona, s'immagina che io sono nato in una delle case descritte di Via Manini e non in ospedale ed abito tuttora in zona? Potrei scrivere un libro di memorie... Ringrazio ancora una volta il Signor Serventi di avermi dato l'opportunità di "...aprire il baule dei ricordi...". (Si ricorda, Serventi, di Ginone Molinari, suo ex Collega?) Mi permetta una domanda: sicuro che la sezione del P.C.I. fosse dedicata a Bruno Ghidetti e non a Ferruccio Ghinaglia? Qui ho imparato da bambino durante le varie campagne elettorali Bandiera Rossa, O bella Ciao e l' Internazionale, dispensate per parecchie ore alla cittadinanza mediante quelle enormi trombe acustiche che ormai fanno solo parte dei ricordi...
S'immagina, Signor Augusto, in settant' anni come questa via è cambiata? C' erano tanti negozi, tre barbieri per uomo, diverse osterie, magazzini, artigiani e molta gente di modesta, se non povera, estrazione sociale, ma ricchissima di umanità e saggezza derivante proprio dal suo stato. Ora non conosciamo nemmeno i nostri dirimpettai...
Ricordo quando transitavano gli animali che dal Foro Boario venivano portati a Porta Po (volutamente tralascio di indicare il luogo preciso, ora Via del Vasto) e quando qualcuno di essi veniva legato per qualche ora alle inferriate dell'abitazione della fruttivendola Baruffini per essere mostrato come prodotto di "successivo pregio culinario" quale pubblicità per la macelleria Giussani, poi Santino Compiani, ora Mario e Carolina .
Poco distante sorgeva l' attività di trasporto con cavalli di Orsi Gabriele che abitava nell' enorme fatiscente caseggiato grigio, con annesse le stalle (...che puzza quando svuotava la concimaia...), ora in vendita....; l'attività di commerciante all'ingrosso di formaggi e derivati di Ceruti, all'incirca a metà della via, confinante con l'osteria e giochi di bocce della Elide Folcini, poi ceduta a William Cantarini, padre dell' attuale campionessa del mondo e C.T. di bocce, Germana, che ha visto quale culla delle sue performance sportive e palestra proprio questi campi. Tutto il complesso immobiliare, già di proprietà Tabusso. enorme..., ora è stato trasformato in un bellissimo complesso abitativo. Carlo Tabusso, meglio conosciuto come Carletto, aiutato dal nipote Ninetto Testi, era un valente commerciante di vini con magazzino in una casa semi adiacente, ora, anch'essa ristrutturata in maniera egregia, dal suo proprietario, noto architetto cremonese. E via dicendo...
E' vero, le vie descritte sono cambiate radicalmente con la ristrutturazione delle casette menzionate dal Signor Serventi. Ora, qualcuna di esse, ha anche la piscina annessa..., mentre allora la nostra piscina "...l'era la sciola de' legn o 'l bagnin dè zinco...", ma l'acqua era comunque calda perché stata al sole dal mattino!
Di fronte allo stabile di Tabusso, c'era proprio la casa di Bigio Guerrini, noto e convinto socialista, oste, con la menzionata scritta "all'ortaglia, vino e giochi di bocce". I vecchi proprietari tacitamente permettevano che le persone potessero transitare per il cortile, lasciando aperte le porte, e passare da Via Manini a Via Cadore senza andare al " forte dei marmi" (piazzetta di Porta Mosa) o in Largo Giacomo Pagliari. Poi l'osteria di Guerrini passò a Carlo Franzini che con la moglie Ines la gestirono per parecchi anni.
Mah... che bei tempi, almeno per me....
E fermiamoci qui, altrimenti dovremmo imboccare Via Fabbrica del Vetro Vecchia o sfociare nella Piazzetta di Porta Mosa, trovandoci cos' a Porta Ladra o Porta Pila, ricordando per lo meno Granelo e la sua compagna Catina, con Isacco!
Pazienza, questa è la vita!!!!!!!!!!!

ennio serventi

23 novembre 2022 09:36

Grazie signor Claudio per le parole gentili che, anche in precedente occasione, mi ha rivolto. Grazie anche per avermi dato l'occasione di rivedere il nome della sezione del PCI di via Manini. In effetti quella era intestata a Ferruccio Ghinaglia, il partigiano Bruno Ghidetti era ricordato da un'altra sezione del Partito, sempre in zona, con sede nel primo tratto di via Manini.
Certo che ricordo Ginetto Molinari (el Biolo) e la moglie Zore , mite e bonario con passione per la pesca, amava raccontare delle sue catture di anguille sempre grosse come il suo avambraccio ed il racconto mi lasciava un sapore di incredulità.
Con stima, Ennio

Claudio

23 novembre 2022 21:20

Sono io che ringrazio Lei, signor Serventi proprio per aver dato il la al mio innegabile "amore" per il mio rione con i ricordi, Sant' Imerio, purtroppo spesso bistrattato.

michele de crecchio

29 novembre 2022 21:43

Bravissimo l'Ennio Serventi che, in poche, ma efficaci righe, ha sintetizzato interi trattati di storia urbana e sociale, di scienza idraulica e geologica, senza neppure dimenticare nozioni di toponomastica e di enologia!