Ippolito Nievo e il cremonese Romeo Bozzetti in Sicilia. Due garibaldini alla “scoperta” della Sicilia
Seguire la vicenda di Ippolito Nievo, veneto-mantovano, e del cremonese Romeo Bozzetti, amici e colleghi nell’impresa garibaldina in Sicilia, componenti autorevoli dell’Intendenza Meridionale durante e dopo la spedizione dei Mille, fa emergere alcuni elementi inaspettati, lontani dalla “vulgata” risorgimentale e dal “politicamente corretto”. Entrambi disposti a morire anche per il Meridione d’Italia, ma non a chiudere gli occhi di fronte a realtà a dir poco inquietanti, per loro convinti patrioti, assai dolorose: sguardi che non risparmiano nemmeno i garibaldini. Lo scrittore ci ha lasciato un breve diario della spedizione dei Mille e un ricco epistolario (Diario della spedizione dei Mille, 2010). Bozzetti invece, vicino ai 70 anni, soleva narrare i suoi ricordi al figlio Stefano, che li trascrisse con fedeltà e quasi religioso rispetto (Carla Moruzzi Bolloli, Generale Romeo Bozzetti. Uno dei Mille, 2008).
Annota Nievo nel suo Diario il 12/5/1860, tre giorni prima di Calatafimi: “Aspetto africano di questa parte della Sicilia. Donne velate come le saracene. Un barone di Marsala (il primo) ci tien dietro a cavallo di un asino… Solitudine e grandezza del paesaggio: il vero paesaggio di Teocrito. Garibaldi che precede a piedi la colonna in mezzo al suo stato maggiore mi sembra uno dei primi conquistatori dell’America. I pastori dei contorni vengono sul sentiero ad inchinarlo: aspetto strano di questi semi-selvaggi vestiti di pelli di capra”. Aggiunge lo scrittore che là una “rivoluzione” non era mai esistita: “solo qualche banda di semibriganti, che qui chiamano squadre”. Su questo punto, come su altri, il racconto di Bozzetti conferma e amplia le note dell’amico: a Marsala “non vidi anima vivente: si erano tappati in casa, anzi avevano persino murato gli usci. Non era l’accoglienza da rivolgere ai liberatori”. Ma non doveva la Sicilia sollevarsi e correre incontro ai patrioti? Raramente là realtà corrisponde alle attese!
Questa visione per molti aspetti sconsolata rafforzava un pessimismo di fondo. Pensavano infatti di morire. Bozzetti redasse alla partenza due lettere, da recapitare al padre e alla madre come ultimo saluto in caso di morte. Nievo parla esplicitamente alla cugina Bice del ripetuto pericolo di finire tra i pesci affondati dalla flotta borbonica, o di cadere trucidati, come era capitato nel 1857 ai 300 di Pisacane. Timori nient’affatto infondati. Francesco II di Napoli disponeva della più potente flotta del Mediterraneo (23 navi da guerra a vapore, oltre molti velieri da combattimento) e di un esercito assai ben organizzato, di 93.000 uomini. Di questi, 25.000 erano dislocati in Sicilia all’arrivo di Garibaldi. Quasi impossibile la vittoria, dunque, senza la silenziosa presenza degli Inglesi, decisiva in alcuni momenti cruciali, che difendevano i loro interessi in Sicilia e nel “mare nostrum”.
Si erano incrociati, Nievo e Bozzetti, all’università di Padova, ferventi patrioti, sospetti alla polizia austriaca, giornalisti, garibaldini sia nella II guerra d’Indipendenza che nella Spedizione dei Mille, entrambi incaricati presso l’Intendenza dell’Esercito. Un reparto decisivo per la spedizione, quello dell’Intendenza, con la funzione di vettovagliamento, vestiario, armamento, finanziamento della truppa. E che dovette rendere conto, fino all’ultima moneta, delle entrate e delle spese dell’intera avventura garibaldina. Cosa che Nievo fece puntualmente in una nota al giornale “Perseveranza” per respingere accuse infamanti.
Bozzetti fu in prima linea a Calatafimi e alla presa di Palermo, meritando la medaglia d’argento. Il 2 novembre 1860 ebbe la promozione a maggiore. Nel marzo 1861 ricevette notizia della morte di Ippolito dal Console di Amburgo Hennequin, suo amico. In seguito a tale tragedia il compito di rendere conto della gestione della cassa dell’Intendenza dei Mille fu affidata da Giovanni Acerbi, comandante dell’Intendenza, a lui.
Intorno a loro c’era un eccezionale entusiasmo suscitato dall’eroe, un’autentica fede. Molti ragazzi fuggiti da casa parteciparono alla Spedizione: 3 di quattordici anni, 3 di quindici, 17 di sedici, 32 di diciassette anni. Alla spedizione, prima della battaglia di Capua, che lo vide morire di tetano, si unì anche Antonio Riboldi, un sedicenne di S. Martino in Beliseto, come Bozzetti. Tra i Mille anche una donna vestita da uomo, Rosalìe Montmasson, collaboratrice di Mazzini che l’aveva inviata come postina clandestina in tutta Europa. Fu moglie per 25 anni di Francesco Crispi. Che, sposatosi con un’altra donna, da vero farabutto, la fece cancellare dai suoi scritti, dalla grande storia e da quella minore (Maria Attanasio, La ragazza di Marsiglia, 2018).
La Sicilia di Nievo appare una regione quasi africana, con tratti saraceni. Una regione ancora nei secoli bui, ferma alle superstizioni del ‘600, barocca e sporca. Scrive, con l’animo profondamente turbato: «si vive in pieno Seicento, col barocchismo, le raffinatezze e l'ignoranza di allora». Con tanta povertà e immense miserie umane. Annota il 13 maggio: “Salita faticosissima. Il volgo scambia Salemi con Gerusalemme e dice che Cristo vi fu crocefisso. E’ una vera città, anzi una topaia saracena. I soli conventi hanno l’aspetto di case… Banda musicale di Santa Ninfa che viene a festeggiare il generale. Un frate guerriero capita da Castelvetrano a cavallo col Cristo in una mano e la spada nell’altra… una donna ci viene incontro piangendo di liberare Trapani, ove suo marito è prigioniero politico da otto anni. Un vecchio soggiunge: “Ben faceste a venirci a consolare, perché gli è da quando siamo nati che noi piangiamo””. In Sicilia si ritrova coi vestiti estivi e sulle alture patisce il freddo: “Io era vestito come quando partii da Milano: mostrava fuori dei calzoni quello che comunemente non si osa mostrar mai al pubblico”. Requisiscono le tonache ai monaci: “Fatiche e patimenti orribili del bivacco. Requisizione di scapolari nei paesi vicini. Sembriamo un esercito di frati”.
Dopo la battaglia di Calatafimi descrive scene di barbarie e di ferocia, sui “Napoletani”, che vengono “squartati e feriti, poi “abbruciati e dati da magiare ai cani”: “non è sintomo di civiltà”. Nievo continua a non credere che i garibaldini possano vincere a Palermo, poi entrato in città, parla della nullità delle forze patriottiche: “dentro pareva una città di morti, non altra rivoluzione, che sul tardi qualche scampanio… E noi soli, ottocento al più, sparsi in uno spazio grande come Milano, occupati senz’ordine, senza direzione (come ordinare e dirigere il niente?)”. Anche Bozzetti presenta Palermo come una nuova Pompei: all’entrata “desolazione e silenzio sepolcrali”.
Più tardi con molta autoironia, dopo una promozione, lo scrittore si rappresenta più elegante, ma denuncia il “gattopardismo” dei nobili siciliani: “Sono diventato un uomo d’importanza… Tutti mi fanno la corte per suppliche raccomandazioni e impieghi – principi e principesse, Duchi e Duchesse a palate agognano 20 ducati al mese di salario… Ho una zimarra rossa che sembro un Generale di Napoleone il grande, e una spada coll’impugnatura d’oro (in confidenza è ottone indorato) che fa gola a tutti questi ladroncelli Siciliani, compresi i Principi e le Principesse”.
Rispetto all’amico, più dettagliata la descrizione di Bozzetti della battaglia di Calatafimi, in quanto si trovò accanto al Generale, quindi testimone oculare. Il racconto non ufficiale dello scontro sulle colline da lui compiuto fa risaltare scene molto sofferte, piene di sudore e di sangue, di grida dialettali, in un misto di fatalità e casualità. con tutta l’immane fatica delle corse e delle ritirate, per il caldo, la sete, la fame. L’eroismo insieme alla disperazione, e situazioni nelle quali si rischiava di morire non solo per le pallottole o le granate nemiche, ma per lo sfinimento. Descrive anche la ritirata dei Borbonici, disastrosa, coi villani che nascosti tra le siepi, prendevano a fucilati le truppe, che per risposta incendiano alcuni villaggi. “I morti giacevano nudi a terra, già spogliati dagli avvoltoi delle guerra che a stormo erano calati sul sanguinoso campo”.
Più avanti Bozzetti narra le cinque giornate di combattimenti per la presa della capitale siciliana, dall’esito sempre incerto, dove si lotta strada per strada, sotto il bombardamento borbonico dal mare e la fucileria dalla caserme. Assiste Enrico Cairoli , non ancora ventenne, ferito gravemente alla testa: uno dei martiri di Villa Glori nel 1867 per la liberazione di Roma. E ricorda la morte dell’amico dell’Intendenza Enrico Rechiedei, fatto seppellire in S. Maria dello Spasimo, a Palermo, ancora oggi un complesso monumentale e religioso di grande prestigio: Durante i combattimenti Bozzetti parla anche del suo svenimento per fatica, e degli aiuti inaspettati da alcune donne per strada, che lo portano al riparo e lo nutrono.
Nelle altre giornate, Bozzetti sottolinea come l’ascendente dei Mille eviti che l’odio popolare si riversi sui “sorci”, i soldati borbonici. “Nelle vie e nei vicoli il popolino dava una caccia spietata alle spie e alle guardie di P. S. borboniche. Il disgraziato, una volta scoperto, moriva di morte orribile. Eppure l’odio popolare, la furia della moltitudine si arrestava per incanto quando uno di noi si presentava e per umanità salvava il disgraziato”. Non nasconde, però, anche alcune scelleratezze compiute dai garibaldini, come quella di Paolo Bovi, bolognese, che fa fucilare senza ragione “una ventina di poveri sorci”, ormai prigionieri.
Nelle sue memorie compare anche l’ultimissimo ricordo dell’amico Ippolito, nel penultimo viaggio da Palermo a Napoli. “Nievo salì sul piroscafo “Elettrico” ed io stetti sul molo a vederne la partenza. Una grande tristezza inesplicabile mi teneva a causa dell’allontanamento dell’amico carissimo, quasi presagio che non l’avrei più rivisto. .. Nel marzo successivo Nievo partì da Palermo e, per l’impazienza del ritorno volle usare l’Ercole, con lui sparì nella tempesta”.
Ciò che colpisce in questi due uomini dell’Intendenza, pur così diversi per importanza nella storia e nella cultura italiana, è soprattutto la saldezza dei loro ideali patriottici, oltre alla loro assoluta integrità sul piano morale, civile, politico, che li portò a mettere la loro vita in modo totalmente disinteressato nelle mani di Garibaldi per la causa dell’Unità d’Italia. Nievo soprattutto, pur nutrendo in sé ideali latamente antimilitaristi, non esitò a prendere le armi, a rischiare la propria vita sul campo di battaglia, per fornire un contributo diretto alla propria patria, in cui si univano idealmente Roma e Venezia, ma anche Palermo e Napoli.
Ma lo scrittore guardava, oltre che al presente, anche avanti, al futuro della nazione italiana, per la nascita della quale riteneva pernicioso lo scollamento delle masse contadine, poverissime e sfruttate, senza diritti, dalle classi agiate della città. In Sicilia trovò una versione particolare di questa frattura tra masse rurali e istituzioni politiche, aggravato dalla ignoranza e arretratezza, oltre all’opportunismo, dei ceti nobiliari.
Certo Nievo, come Bozzetti del resto, che criticò più tardi la repressione dell’esercito regio contro il cosiddetto “brigantaggio”, non nutriva pregiudizi contro i Siciliani, auspicava una completa Unità nazionale, ma formula giudizi trancianti sulla situazione dell’isola. “bisognerebbe anche darti un’idea della melma in cui poltriscono tutti i funzionari e gli impiegati e gli eroi di questo paese”, fino a giungere, in un momento depressivo, al disprezzo: “i Siciliani sono tutti femmine; hanno la passione del tumulto e della comparsa: e i disagi e i pericoli li trovano assai meno pronti delle parate e delle feste”. Erano sorte evidentemente alcune discussioni tra i componenti dell’Intendenza, registrate da Bozzetti: “Dicono ingiusti i giudizi di Nievo sui picciotti nell’entrata in Palermo”. Secondo il suo parere si sbagliava ad attendere da loro un comportamento diverso: “si pretendeva nei picciotti una virtù che in sostanza in nessun luogo d’Italia si poteva trovare, salvo dietro ad un’educazione ed un esempio particolare”.
Ragionando però in maniera più pacata e meditata alcuni mesi dopo, al fratello Carlo, che si arruolerà nell’Esercito regolare sardo, Nievo fornirà un giudizio meno sconsolato, sostenendo che se lo Stato unitario avesse fatto il suo dovere, assumendo una funzione propulsiva, il Sud sarebbe rinato: “tu hai un po’ torto quando giudichi di tutte le provincie Napoletane da quei pochi contadini briganti che hai veduto – intelligenza ve n’ha – sobrietà non manca. Manca il lavoro e questo si insegnerà coll’assicurare il profitto e attivare l’industria – Rinnova le condizioni di questo paese dal lato comunicazioni e sicurezza e vedrai i miracoli”. Purtroppo la nuova Italia non fece molto per attivare “miracoli”, anzi adottò politiche che affossarono quanto di buono e vitale laggiù c’era, senza porre le basi di un nuovo sviluppo. Era già tutta presente, nella Sicilia descritta da Nievo e da Bozzetti, quella che sarebbe diventata la “questione meridionale”. E anche oggi, a che punto siamo?
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