Il poeta di Borgo San Pietro: Ottomano Miglioli
Oggi, fra le molte posizioni che hanno attivato il dialogo-scontro negli anni Ottanta, sembra superata quella più rigida espressa da Silvio Ramat che nella sua Storia della poesia del Novecento, confermando una linea petrarchista della lirica italiana contemporanea, escludeva tout court i poeti dialettali di primo e secondo Novecento, ritenendoli addirittura in-appartenenti a una linea di poesia italiana. Sembra. Perché in realtà molti anche oggi con un giudizio un po’ sbrigativo chiedono al poeta dialettale: “Perché usi il dialetto? Così ti capiscono in pochi! Potresti avere più lettori…”.
L’intralcio era, ed è, rappresentato dall’assunto miope e anacronistico, secondo cui la scrittura della poesia in dialetto altro non era, e non è, che la scorciatoia per un abbandono sentimentale. Che rivela secondo me, l’incompetenza del fenomeno nelle sue articolazioni. Dopo aver sgomberato il campo da ipotetici pregiudizi, può prendere avvio una proficua disamina della cosiddetta neo-dialettalità, delle sue caratteristiche e dei suoi orientamenti operativi utilizzando, come anticipato nella presentazione pubblicata precedentemente su queste pagine, gli appunti di un competente ed appassionato cultore del dialetto cremasco, Carlo Alberto Sacchi. Gli appunti sono stati da lui preparati in occasione delle presentazioni delle edizioni della Collana Poeti dialettali cremaschi iniziata ventisette anni fa e chiusa con la pubblicazione del 2013.
Partiamo dall’assunto che la poesia dialettale è un tesoro che va preservato perché rappresenta un legame vivente con le radici e l’essenza di una comunità che ha condiviso nel tempo lo stesso territorio. Chi concorda su questo input potrebbe non essere d’accordo invece sulle motivazioni di fondo: perché proprio la poesia deve farsi carico di questa incombenza?
Ritengo che la poesia dialettale sia uno strumento speciale per:
- Autenticità Culturale in quanto riflette le tradizioni, la storia e l’identità di una specifica regione o comunità.
- Ricchezza Linguistica, perché conserva parole e modi di dire che spesso non trovano corrispondenza nella lingua standard, arricchendo il patrimonio linguistico.
- Diversità e Unicità, in quanto ogni dialetto ha le sue peculiarità fonetiche, grammaticali e lessicali che creano una varietà di suoni e ritmi unici nella poesia.
- Legame con il Territorio, perché la poesia dialettale spesso descrive paesaggi, usanze e storie locali, fungendo da ponte tra il territorio e la lingua.
- Espressione Emotiva, dato che il dialetto, essendo la lingua parlata, appresa per empatia più che per convenzione, permette un’espressione più diretta e profonda delle emozioni.
Uno dei poeti dialettali cremaschi della prima metà del ’900 Ottomano Miglioli rispecchia in gran parte della sua produzione queste peculiarità: le riconosceremo parlando della sua poetica.
Carlo Aberto Sacchi che nel suo volume: Profilo della produzione poetica contemporanea in dialetto cremasco, dal Pesadori ai giorni nostri, (Leva Artigrafiche in Crema, 2013). raccoglie documenti dialettali prodotti dai poeti cremaschi dalla seconda metà del secolo scorso, diceva di lui:
"è uno dei non moltissimi poeti nostrani che pensano e che vivono in dialetto, che non scrivono traducendo i loro pensieri, i loro sentimenti e le loro emozioni dall’italiano. Non ci sono termini astratti nelle sue composizioni; l’aggettivazione è sapida, vivace, incisiva, mai letteraria, mai sovrabbondante; il gergo poi è quello tipicamente cittadino, usato in modo scarno e tuttavia gentile, mai lezioso.
La scelta di Sacchi di aprire la sopra-citata collana dei Poeti cremaschi (oggi sono volumetti ormai introvabili) era giustificata dall’autore-poeta a testimonianza del valore di Ottomano Miglioli che a lungo la comunità aveva indebitamente trascurato e rendere voce ad una delle personali e sincere espressioni della poesia dialettale cremasca.
Una breve biografia del poeta. Nato a Crema nel 1919, in tempo per non dover essere presente alle vicissitudini della Grande Guerra, frequentò il Ginnasio e l'Istituto Magistrale e nel 1934 vinse il concorso nazionale di poesia, a tema obbligato come imponeva il periodo politico del tempo: Saluto alla terra rifiorente. A causa dell’improvvisa partenza per il servizio militare e dell’imminenza della guerra, non gli fu possibile concludere regolarmente gli studi. Nel 1973 fu costretto, non certo per motivi politici, ma per lui ritenuti altrettanto funesti, all’esilio che durò per tutta la vita. Dovette infatti lasciare la sua abitazione di Borgo S. Pietro, la sua vera patria, perché la sua casa, in un cortile di via Ponte della Crema, era pericolante e in quegli anni venne decisa la ristrutturazione di tutta quella zona del Borgo. Non si darà mai pace di questo, anche perché in quel quartiere non vi farà mai più ritorno. È ricordato come il “poeta di Borgo San Pietro”. Nel 1978 fu uno dei tre vincitori del Premio Edallo del Comune di Castelleone.
Edizioni che riportano le poesie di Miglioli:
Poesie in dialetto cremasco- Le me stüpidade, O. Miglioli, Arti Grafiche Cremasche, Crema, 1978. (su iniziativa di alcuni amici sanpietrini e del parroco di Borgo San Pietro dell’epoca).
Poeti dialettali cremaschi di ieri e di oggi, V. Groppelli. Arti Grafiche Cremasche, Crema, 1980.
Ciàcere fàte 'n casa, C. A. Sacchi, Arti Grafiche Cremasche, Crema, 1980.
Poeti cremaschi di ieri e di oggi, C. A. Sacchi; Ottomano Miglioli, a cura di Pro Loco, Crema, 2007.
Profilo della produzione poetica… , C. A. Sacchi, cit. , pp. 34, 91, 93, 103, 139, 174, 287.
Ottomano Miglioli morì a Milano nel 1986.
Nell’edizione del 1980 di V. Groppelli sono riportate alcune poesie dalle pubblicazioni: Le me stupidade e Quatre ciàcere, senza specificare a quale edizione si riferiscano, ma i titoli (che qui riporto in lingua italiana), sono ascrivibili in gran parte all’edizione del 1978: Nostalgia, Commiato dal Borgo, Mia moglie (che in dialetto ha una locuzione più intima: La me dona), Come siamo ridotti, In cascina.
Le due prime poesie riportano il suo cruccio esistenziale: l’abbandono della sua casa, della sua infanzia. dei suoi amici della famosa Naia da San Piero, conosciuta in città come gruppo intemperante e godereccio. In quattro quartine di endecasillabi, Miglioli ci presenta i due motivi sostanziali e ricorrenti della sua vena poetica. Sottolinea nella prima quartina la sua struggente nostalgia per il luogo in cui ha trascorso l’infanzia e poi lo confronta con la realtà che ora, al di là del Ponte sul Serio, ormai è costretto a vivere: lì dove al mattino lo sferragliare del treno e il veloce transito degli operai verso il posto di lavoro, fa nascere una malinconica nostalgia nella omonima composizione
Verificando la distanza tra Borgo San Pietro e la zona ferroviaria che il poeta vede dalla sua finestra, si scopre che è di qualche centinaio di metri. Ma dobbiamo riferirci alla periferia di Crema degli anni ’70 del secolo scorso quando la città non aveva ancora raggiunto le dimensioni di oggi: la campagna che circondava il centro, per un cittadino abituato ai quattro passi necessari per incontrare gli amici e i volti conosciuti del quartiere, era un confino coatto. Il Commiàto dal Burg è un addio alla città natale, agli amici, al Borgo, alla vita. Il componimento così si chiude:
Töt sa ricorda quand sa sent da mor,
ma me San Piero g’aró sempre ’n cor.
La me dóna è un affettuoso omaggio alla moglie in segno di sentito ringraziamento per tutto quanto ha saputo offrirgli in tutti i frangenti della vita. Con lei si sente di avere un debito che non potrà mai soddisfare. La risposta della donna alle sue esternazioni a tale riguardo lo rincuora: “Suègnet. A tò mot anche te ta ma oret be!” (Ma fammi il piacere. Anche tu a tuo modo mi vuoi bene!).
Sacchi nel suo Profilo classifica questa poesia tra le produzioni di poesie d’amore coniugale: caratteristica questa, forse sorprendente e certo del tutto peculiare, della nostra letteratura.
Secondo Ottomano il mondo sta cambiando e sempre in peggio, soprattutto il mondo giovanile, e al termine di questa amara constatazione, l’autore inserisce una riflessione pre-ecologica: la Natura offre attraverso l’armonioso canto degli uccellini un benessere importante, ma l’uomo del suo tempo li prende a mira del suo fucile.
A questo proposito, osserva Sacchi nella pubblicazione della Pro Loco, nei poeti cremaschi del ’900, l'amore per la natura si estende anche, e con spontaneità, agli animali che la popolano, agli uccelli soprattutto che la ingentiliscono con il loro canto, pur se a volte venato di mestizia.
Nella quarta poesia presentata da Groppelli, Ottomano rinnova la sua attenzione per la fatica delle donne, dedite ad alleviare il duro lavoro degli uomini nella campagna.
Nel volumetto della Pro Loco Sacchi riporta anche altre composizioni di Ottomano oltre a quelle proposte da Groppelli, registrando soprattutto “il male di vivere del poeta, sottolineando la sua prossimità al Borgo e lo spirito di fratellanza espresso dagli appartenenti alla Naia“.
Così commenta nella presentazione di due poesie di Miglioli: Quand vo al cimitere e Lé l’è morta, inserite anche nel Profilo del 2013.
Le lontananze che maggiormente feriscono le anime dei poeti, e non solo, sono senza dubbio quelle che derivano dalla morte, soprattutto da quella dei familiari. Nella letteratura nostrana molte sono le elegie ispirate a questo tema: elegie, perché in esse il rimpianto non si colora dei toni della disperazione e perché in esse la morte non nega un'intima vicinanza col defunto, una sua ancor viva presenza spirituale. Cadenze elegiache assumono anche le riflessioni sulla morte degli innocenti, nonché la prefigurazione che alcuni poeti fanno della propria dipartita.
Non rari sono componimenti (che pure si possono definire autobiografici) in cui il poeta racconta singole circostanze o momenti particolarmente significativi della propria vita, riferiti al padre.
Un esempio di questo tipo di componimenti si trova nella plaquette del 2007 a p. 39, nella poesia: Al me testament, di cui riporto la prima quartina e le ultime righe della chiusura:
Me l’ò det tante olte, o almeno spere,
cuma ore ès purtàt al cimitere:
passà l’ültima olta ’ntra la zent
’ndu gó pasàt i pusé bèi mument.
…………………………………
Vore che ma salüde la me zent
se ’l sarà issé me pusaró cuntent!
Io l’ho detto tante volte, o almeno spero/ come voglio essere portato al cimitero: / passare l’ultima volta tra la gente/ dove ho trascorso i più bei momenti. ………………………………
Voglio che mi saluti la mia gente: / se sarà così, io riposerò contento!
Nel volumetto della Collana ci sono in tutto 15 poesie che raccontano la vita di un uomo di quarant’anni fa. Leggendole oggi, (direi un po’ a fatica per l’utilizzo di un dialetto che pur se definito cittadino da Sacchi, è ormai desueto), sembra di tornare indietro di un secolo: una persona che riconosce nel proprio borgo la centralità primigenia della sua esistenza, e quando la perde, la rimpiange per tutto il resto della vita. Un uomo che si sente vecchio a sessant’anni; che sa riconoscere gli amici della Naia dal loro comportamento solo con uno sguardo d’intesa; che ha portato rispetto per tutta la vita ai suoi genitori, finanche riconoscendo valore alla loro intransigenza nell’educazione dei figli.
Riporto qui un estratto della poesia Ottomano del 1981: è un omaggio Al clan dai Betinèi e riflette l’ammirazione per la famiglia Bettinelli di Bolzone. La poesia descrive il nonno Attilio, capofamiglia, come una figura di saggezza e intelligenza, tanto da essere soprannominato Il Vaticano, per la sua capacità di essere consultato per decisioni o problemi. Non viene citata da Sacchi né nel Profilo né nella pubblicazione della Pro Loco, ma a mio parere, esprime in questa tutto il profondo sentire dell’autore: l’apprezzamento per una famiglia nella quale regna l’armonia e la solidarietà. Un componimento in cui si ritrova anche la sua abilità nel catturare l’essenza della vita familiare e comunitaria attraverso il dialetto, evidenziando la vivacità e l’unità della famiglia Bettinelli, paragonandola all’arca di Noè e a un formicaio sempre attivo.
Al clan dai Betinèi
Se i ma diss: ma quanti iè?
Me respunde: cara zent,
lé bis (eo)gna fa ’n censiment,
lé l’è ’n arca da Nué!
La ma par ’na furmighera.
Sa la troa matina e sera.
Se mi chiedono: ma quanti sono? / Io rispondo: cara gente/ lì è necessario fare un censimento, / lì è un’arca di Noè! / A me sembra un formicaio/ lo si trova mattina e sera.
Raccontava lo stesso Ottomano a proposito di questa sua poesia:
Questa famiglia cresceva serena, armoniosa e aperta. Infatti, il portico e il cortile dei Betinèi è stato a lungo un vivace centro di incontro e di intrattenimento, in un tempo in cui non c’erano altre distrazioni. Lì si facevano commedie, sacre rappresentazioni, musiche e canti, perché tra i fratelli e i cugini c’erano suonatori e belle voci baritonali e pure tra le sorelle c’erano voci di contralto. Quanto mi rammarico di avere così poco materiale per documentare! Solidali tra loro e intraprendenti anche durante la lunga guerra, i 10 fratelli si sono poi divisi, formando tante famiglie che tornavano, però, spesso a incontrarsi nella grande cascina di Bolzone, anche quando nonno Attilio non c’era più. Alcuni cugini, poi, ricordano la sofferenza dei loro genitori quando da bambini litigavano e si sentivano dire: ”Noter an casa siom an tance, ma gh'em mai mai tacàt lite!”
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commenti
Luciana Groppelli
13 luglio 2024 11:46
Una presentazione corredata da ampia documentazione di un cultore del poetare nel dialetto cremasco di godibilissima lettura per la bella sensibilità e l'efficacia espressiva .
Un autore fortunato per essere stato riletto e rivisitato da due cultori di eccellenza della materia: Carlo Alberto Sacchi e Graziella Vailati.
Al modo della staffetta.