11 gennaio 2025

Giacomo Leopardi. Vita e morte di un genio immortale e quella miniserie in tv

La miniserie dedicata a Leopardi su Rai Uno, andata in onda in due puntate il 7 e l’8 gennaio 2025, si è procurata parecchie recensioni negative. La più frequente osservazione riguarda il tono sussurrato dell’audio, che impedisce di percepire chiaramente tutte le battute. Critica fondata, che si potrebbe estendere ad altre trasmissioni televisive, come quella che ha come protagonista il bel tenebroso Rocco Schiavone. Verrebbe da chiedersi se non sia possibile escogitare altri espedienti per rendere questi personaggi affascinanti e comunicativi, ad esempio adottando quel tipo di recitazione che a teatro consiste nel gridare sottovoce, o qualcosa del genere. Altri recensori si sentono disturbati dalle numerose incongruenze biografiche che saltano agli occhi ai più esperti frequentatori della letteratura italiana: sconvolgimento di cronologie, enfasi eccessiva su episodi marginali, inspiegabilità di scelte registiche spacciate per colpi di genio, e via dicendo. Ciascuno ha le sue ragioni. Mi limito a far notare che l’opera di cui parliamo non è un’edizione filologica della vita e delle opere di Giacomo Leopardi, ma una rivisitazione “liberamente” tratta da ciò che i testi ci hanno consegnato. E con “liberamente” mi riferisco ad esempio al non aver calcato la mano sulle deformità dell’uomo Leopardi, qualcuno dice anche sulle sue reali e precocemente precarie condizioni di salute. Rispetto tutte queste osservazioni, ma a proposito dell’ultima la scelta del regista Rubini mi è parsa acuta: l’attenzione del pubblico viene costretta a deviare da ciò che si vede a ciò che si intuisce, e se uno non è un pezzo di legno facilmente può intuire lo stato d’animo di un giovane ispirato che scrive le proprie composizioni con gli occhi dolenti, il sangue dal naso e dalla bocca, segnali di tisi e gravi malattie poco curabili ai primi dell’Ottocento. Concordo con il giudizio della maggioranza che ritiene la seconda parte peggiore. Già alla fine della prima parte avevo avuto la sensazione che la seconda non sarebbe stata all’altezza, e mi ero riproposta di non vederla. Poi la curiosità ha preso il sopravvento e ho acceso il televisore verso le undici, quando mancava un’ora alla conclusione, ricavandone la fondatezza di quella sensazione. Infine alcune critiche si appuntano contro le modalità di inserzione di brani di prosa e squarci di poesie leopardiane all’interno della narrazione. A differenza da ciò che accadeva nel film di Martone, qui parole e versi sgorgano sfocati, sovrapponendosi a scene di un altrove del protagonista, a cui accade nei momenti più impensabili della vita di percepire quella famosa voce di una divinità che da sempre ispira alcuni uomini che noi chiamiamo poeti. Banalizzando potremmo giustificare la scelta come espediente per ovviare alla difficoltà, per non dire all’impossibilità, di privilegiare alcune composizioni rispetto ad altre, destinate all’inevitabile omissione. Dunque molti sono i punti di vista da cui commentare la fiction, che non è un capolavoro, ma in me ha suscitato alcune riflessioni che sotto riferisco.

Il Leopardi di Sergio Rubino è stato confrontato con quello di Mario Martone, che dieci anni prima ci incantò. Tralascio l’aspetto del differente formato (miniserie televisiva in due puntate il primo, film il secondo), e noto che i recensori hanno sottolineato la destinazione divergente. Leopardi, il poeta dell’infinito, si dice sia rivolto a un “pubblico generalista”, espressione che grosso modo equivale a “non particolarmente informato” riguardo alla poesia e alla filosofia leopardiana. Il giovane favoloso, al contrario, mira a coinvolgere intellettuali eruditi, che ne sanno ben più del poco studiato sui banchi di scuola. Avanzerei dubbi sul luogo comune che vede la scuola come ricettacolo di cultura di serie b, superficiale, incapace di appassionare, perfino allontanante per i poveri studenti afflitti da noiose spiegazioni di professori inesperti e demotivati. Sia detto fra parentesi, la vera poesia trionfa nell’animo dei giovani malgrado l’apatia di alcuni insegnanti. Omero, Dante e Leopardi conquistano comunque animi sensibili di preadolescenti. In ogni caso, il pubblico con cui condivisi la sala cinematografica nel 2014 suscitò in me piuttosto l’impressione di vanesi esibizionisti, impegnati ad anticipare ad alta voce i versi delle poesie leopardiane, ogni volta che il bravissimo Elio Germano iniziava a sussurrare “favolosamente” alcuni dei Canti più densi e carichi di emozioni del recanatese. E l’incantesimo si spezzava. Certo era necessario dimostrare agli ignoranti infiltrati “io ne so di più di te, e forse anche di Leopardi”. Una specie di gara che sortiva l’unico effetto di guastare quella magica sospensione del copione per entrare nell’universo della bellezza perenne. Molti poi uscendo dal cinema non trovavano altro da commentare se non “bello, ma troppo lungo”, giudizio che svela incapacità di empatia, immedesimazione e conseguente catarsi. Il pubblico televisivo, più sfuggente sotto tutti i punti di vista, magari sarà rimasto affascinato da quel giovane dai tratti infantili. Leonardo Maltese conserva nel complesso l’aspetto di un bambino anche quando interpreta Giacomo ventenne. Rispetto alla fanciullezza, però, sorride e scherza meno, e i suoi occhi stanchi per l’eccesso di letture notturne rivelano un’ombra di solitudine a cui non ci si arrende ma ci si assuefà. Oggi, dissacrando, si direbbe che il poeta nel corso della vita è diventato un “incel”.

La storia esordisce con sequenze che evocano alcune pagine dei Promessi sposi. Non che la carrozza dai neri destrieri galoppanti sotto una pioggia scrosciante possa essere accostata alla notte degli inganni, ma un personaggio lascia trasparire un’implicita citazione del romanzo manzoniano. Infatti don Carmine (Alessandro Preziosi) in un primo tempo fa pensare al pavido don Abbondio, e come lui ha una Perpetua pettegola che procurerà guai. Il sacerdote obbedisce a ordini precisi, e non vuole che l’ateo poeta venga sepolto nella sua Chiesa. Poi però si lascerà impietosire dalla narrazione dell’infelice esistenza di Giacomo, narrata dall’amico Antonio Ranieri (Cristiano Caccamo) che l’ha accompagnato proprio là per evitare che le sue spoglie mortali finiscano dimenticate in una fossa comune. La scelta del regista di partire da questo aspetto poco noto e pochissimo risolto delle vicende terrene di Giacomo Leopardi risulta vincente, e induce a documentarsi su ciò che è storicamente accaduto in quei tempi molestati dal colera. Chi intendesse approfondire l’argomento, e non si accontentasse delle notizie di Wikipedia, può consultare alcuni siti dai quali si evince che, in ultima analisi, non sappiamo con certezza né il luogo della definitiva sepoltura né la causa della morte di Giacomo. Certamente afflitto da varie patologie che ne indebolirono la complessione fin da quei “sette anni di studio matto e disperatissimo”, pare avesse contratto il colera. E pare sia finito nella fossa comune come accadeva in quei tempi a molti grandi: si pensi a Mozart, che condivide con Leopardi l’incertezza della sepoltura. Fra gli altri, si può leggere il testo di Loretta Marcon Un giallo a Napoli. La seconda morte di Giacomo Leopardi.

Si accennava alla gioia dell’infanzia che traluce nelle scene iniziali. Giacomo, assieme al suo pubblico formato dai fratelli Carlo e Paolina, rivela un’indole scherzosa e birichina, oltre a profonda sensibilità, acuta intelligenza e memoria prodigiosa. Durante quei sette anni impara a memoria tutti i libri della biblioteca paterna, diverse lingue antiche e moderne, e scrive già prose e versi degni d’attenzione. Ma contemporaneamente la sua curiosità lo induce a sviluppare il desiderio di ampliare l’orizzonte angusto del borgo natale, guardando al di là della siepe. Così il giovane tenta una fuga destinata al fallimento. Tuttavia, dopo ogni trasgressione delle regole, che gli valgono severi richiami dal conte Monaldo, viene perdonato. La riconciliazione fra padre e figlio si fonda sulla comune ambizione di conquistare una meritata fama, e vedere le proprie opere coronate da successo. La svolta è segnata dall’arrivo del letterato Pietro Giordani, ospitato nel palazzo Leopardi malgrado sia inseguito dalle ire della curia romana a causa del suo dichiarato ateismo e della pericolosa dottrina sociale che professa: l’uguaglianza di tutti gli esseri umani. Scrittore classicista, Giordani ammira Napoleone, detestato con tutto il cuore dal conte Monaldo, che ha trasmesso a Giacomo la repulsione verso il tiranno eversore del potere legittimo. Ma si sa che diventare grandi significa ragionare “senza la guida di un altro”, come Kant aveva scritto già da anni. E Giacomo è sotto questo aspetto convinto illuminista. E da qui nascono i suoi guai a livello filosofico. Le vicende narrate nella fiction si snodano attorno agli eventi noti dei disastrosi viaggi a Roma, Milano, Bologna, Firenze, ciascuno con la disillusione di non poter pubblicare i propri scritti, che pure circolavano clandestinamente fra intellettuali spiati dalla censura austriaca. La fama che gliene derivò fu dunque non quella della corona d’alloro, bensì quella di “pericoloso sovversivo”.

Cesare Luporini pubblicò il suo Leopardi progressivo nel 1947. In quello stesso anno Walter Binni pubblicava La nuova poetica leopardiana. E Aldo Capitini assumeva Leopardi nel progetto umanitario e socialisteggiante, cioè dalla parte dei dannati della terra, che stava alla base della sua Religione aperta. Il libro di Luporini, in particolare, sembrò capovolgere l’abituale e trita versione del Leopardi pessimista cosmico, mostrando i tratti combattivi del suo carattere e la ferrea volontà di non cedere mai alla pulsione di morte, che pure l’aveva precocemente tentato. L’appello a combattere i costumi corrotti degli italiani, afflitti dall’“egoismo individuale che mina la società”, ben si coniugava con l’etica kantiana professata da Capitini. E ancor di più con la scoperta della poetica eroica culminante nel messaggio della Ginestra, che Binni aveva contrapposto all’interpretazione crociana della “poesia pura”. Un quarto di secolo più tardi, Binni esprimerà compiutamente questa prospettiva nel saggio La protesta di Leopardi, attirando l’attenzione sulla visione “progressiva” di Leopardi, e mettendone in luce il profondo e altissimo spirito di contestazione.

Queste indagini di critica storico-letteraria si intravedono nella prima puntata della fiction. Vi si legge l’impossibilità del poeta di realizzare le proprie aspirazioni letterarie e civili in un’Italia divisa e soggiogata da nemici interni ed esterni: l’oscurantismo delle gerarchie ecclesiastiche e la tirannia di stranieri che soffocano la libertà e tappano la bocca alla cultura. Nei viaggi fra le principali città italiane, Leopardi viene accolto nei più prestigiosi circoli letterari e nella redazione di riviste liberali. Dapprima acclamato per il suo Canto patriottico All’Italia, viene però subito frainteso e tacciato di “pessimismo”. È naturale: non condivide l’idea delle “magnifiche sorti e progressive” coltivata da quei liberali, e neppure la loro propensione ad allearsi con i francesi. D’altra parte neppure può aderire al programma di cattolici moderati che non tollerano la sua indipendenza di giudizio.

Non basta. Risplende nel contrasto luce/buio di molte scene l’esser messo da parte di Giacomo. Lui stesso dichiara d’essere incline alla solitudine. Ma non si tratta di inclinazione naturale. Anzi, il bambino che vive ancora in lui in qualche recesso della coscienza desidererebbe stare con gli altri, amare ed essere amato. Ma ripetutamente si scontra con ostacoli insormontabili che gli negano una felicità che appariva raggiungibile nel tempo delle illusioni. E allora ecco il più fecondo aspetto della poetica leopardiana: desiderare l’impossibile e riuscire a farlo desiderare. Per trovare traccia di questo, bisogna risalire a una critica ancor più lontana nel tempo. Nel 1858 sulla “Rivista contemporanea” Francesco De Sanctis pubblicò un breve saggio dal titolo Schopenhauer e Leopardi. Si tratta di un dialogo fra due personaggi. D., l’autore, è il professore, e A. un suo antico discepolo che viene da Napoli. Dopo un confronto su poesia e filosofia, talora in forma scherzosa e colloquiale, A. giunge alla conclusione che “se leggi Leopardi, t’hai da ammazzare; se leggi Schopenhauer, t’hai da far monaco”. Ma De Sanctis non è per nulla d’accordo, ed esprime in questi termini il proprio pensiero sul poeta di Recanati: “Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto”. Ecco, questo è il succo del groviglio di emozioni, ragionamenti e pulsioni che si affollano nella mente e nel cuore e nel cervello e in tutto il corpo di Giacomo. Questa è la magia poetica dei suoi versi. Questo è il segreto dei suoi Canti. Altro che pessimismo! E nella fiction risalta in tutta la sua drammaticità. Non a caso viene ripetutamente messa in scena l’ostinazione di Leopardi nel domandare ai tipografi e agli editori più spregiudicati di pubblicare le sue Operette morali. Non si tratta di banali motivi economici. Avrebbe trovato facilmente di che sopravvivere grazie a conoscenze altolocate. Si tratta piuttosto dell’orgoglio di chi è consapevole di aver scritto un’opera da cui traluce quel suo “sistema filosofico” che non si lascia ingabbiare nella logica aristotelica, perché al di sopra del principio di non contraddizione sta la vita con le sue sfumature, i suoi drammi, gli esiti imprevedibili di scelte che sembravano assunte in base ad argomentazioni solide, solidissime. La vita trasgredisce, la vita smentisce, la vita tradisce. E anche la morte. Così Leopardi il “pessimista persuasore di morte” si volge in Plotino “persuasore di vita”. Il maestro Plotino cerca di dissuadere il discepolo Porfirio dal proposito di suicidarsi, e lo fa scongiurandolo in nome dell’amore che gli altri ci portano. Uccidersi, sostiene, è “atto fiero e disumano”. “E perché anco non vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici” e “non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno in questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara o consueta, e per l’atrocità del caso?”.

L’amicizia. E l’amore? Nella seconda puntata della cosiddetta miniserie, in cui il sentimentalismo rischia di sconfinare nello sdolcinato, si assiste al progressivo peggioramento delle condizioni di salute di Giacomo. In una scena che forse è un incubo Leopardi, visitando a Napoli il Museo dell’Anatomia, sente parlare con lui e dargli risposte inquietanti quei poveri cadaveri martoriati, che mostrano ancora muscoli scorticati e ossa semidecomposte. Ne trarrà ispirazione per il “Dialogo di Federico Ruysh e delle sue mummie”. Ma non intavoleremo una discussione sulla correttezza della cronologia fra il soggiorno napoletano e la scrittura delle Operette morali, poiché di distopie e discronie si nutre l’arte, e il lavoro di Rubini non aspira ad essere una ricostruzione filologica. Sarebbe come ricadere nella sciocca critica positivistica al “mazzolin di rose e di vïole”, che non può essere perché rose e viole non fioriscono nella stessa stagione.

Alla fine di tutto, come in un dipinto ammiriamo il trionfo della morte. In un sovrapporsi di scene potenti si incontrano e si affrontano i soliti Eros e Thanatos. Mentre Antonio fa l’amore con Fanny, Giacomo lotta per sopravvivere. Poi l’epilogo. Il segreto che Giacomo porterà con sé fin nella tomba è una sorta di rivisitazione di Rostand in chiave epistolare. Senza dilungarsi sui particolari, la sostanza è invece il classico dilemma che già stoici ed epicurei avevano dibattuto e sviscerato in ogni piega: dovendo scegliere, sacrificherò l’amore o l’amicizia? O per meglio dire, tradirò l’amico o l’amante? Perché di persone in carne ed ossa si tratta, e nessuno vorrebbe che un amico o un amante dovesse lasciarci. E qui chiamo in soccorso Epicuro con tutto il suo edonismo: fra i piaceri bisogna distinguere. Ce ne sono di vario tipo: in movimento e in quiete. I primi danno luogo a conseguenze sgradevoli, sempre da evitare. I secondi sono meno gravidi di problemi. L’uno è l’amore, l’altro è l’amicizia. La seconda è da scegliere. Il miracolo di Leopardi sembra l’essere riuscito a non tradire né l’amico né l’amata. È vero che, dopo la dipartita di Giacomo da questa terra, l’amico e l’amata (da Giacomo come da Antonio) si separano. Ma entrambi restano abbagliati dalla generosità di Leopardi. Antonio l’aveva capito fin dal primo incontro con lui, e aveva detto in tono ironico, ma veritiero, che mai se ne sarebbe separato, per godere almeno di un frammento di immortalità grazie a quel grande che sempre verrà ricordato.

 

Patrizia de Capua


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