Un popolare maestro-poeta: Giacomo Stabilini
Giacomo Stabilini, ovvero il Maestro, conosciuto anche come Maternì, è stato uno dei più conosciuti esponenti della poesia dialettale cremasca, e come tale, era sentito dai suoi contemporanei. Molti riferimenti al poeta si trovano a livello locale.
Di lui scriveva su Folclore Cremasco mons. Franceso Piantelli: Le composizioni del compianto Maestro Stabilini ci sembrano di squisita fattura e garantiscono che si tratta di un buon poeta.
Vanni Groppelli affermava nella sua antologia: Poeti dialettali cremaschi di ieri e di oggi: Giacomo Stabilini è poeta di facile vena e di ricercata perfezione nell'uso delle espressioni e dei vocaboli più autentici della parlata popolare.
E sempre Vanni Groppelli nella Introduzione di: Al me paés dello stesso Stabilini. La poesia del Maestro Stabilini si caratterizza per la vivezza delle immagini che si avvalgono del nitore dei vocaboli legati alla più popolare tradizione del dialetto. Appoggiandosi ad una metrica perfetta e con particolare predilezione per il sonetto, il poeta è per lo più caustico e pungente: raramente indulge al sentimento. Quando lo fa è per sottolineare il grigiore della stagione o la nostalgia struggente dei ricordi.
Don Gino Cavalletti, parroco di San Benedetto, scriveva sul Bollettino Parrocchiale: Nel suo animo focoso e sfacciatamente veritiero c'era tanto di buono, c'era il soffio del bello e del giusto.
Marì Schiavini amata poetessa cremasca, l'ha definito su: Il Nuovo Torrazzo: Uomo onesto, idealista tradito, spirito battagliero, compositore dalla vena fertile orientato anche verso argomenti lirici ed a momenti di elevata introspezione.
A questi commenti, il prof. Carlo Alberto Sacchi, nei suoi appunti per la presentazione di Stabilini nella collana Poeti cremaschi di ieri e di oggi edita nel 2011 aggiunge: Di frequente i poeti cremaschi tracciano in chiave comica o umoristica ritratti di persone reali o di personaggi immaginari (ma comunque sempre aderenti alla concretezza del vissuto). Alcune figure si ispirano anche alla tradizione letteraria italiana contemporanea, ma sono descritte con mano diversa, vengono rese infatti con carattere tipicamente cremasco. Quello della scrittura del dialetto è stato uno dei problemi felicemente risolti dal Maestro Giacomo Stabilini. Benché le sue composizioni siano state scritte nella prima metà del secolo scorso, pochi sono gli errori e le incoerenze che vi si trovano, comunque sempre meno frequenti che in altri pur autorevoli poeti suoi contemporanei.
Giacomo Stabilini è poeta popolare nel senso più alto e più autentico del termine, vuoi per l'immediatezza del sentire, vuoi per l'adesione mai artefatta alla realtà, vuoi per il rispetto profondo e quasi etico della poesia e della lingua che la esprime. È stata ed è la poesia che il popolo adotta come propria, indipendentemente dall'origine e dalle forme, purché ne rispecchi il modo di concepire la vita: la poesia del Maestro è stata capita e adottata dai cremaschi.
Molto realisti, e a loro volta assai gustosi, sono i ritratti degli alunni che il maestro Giacomo Stabilini traccia con mano felice. A volte però le descrizioni trascendono la realtà individuale delle persone per assumere la tipicità delle figure universali ‒ ma sempre viste in chiave comica e quindi parziale ‒ quali, ad esempio, il cacciatore o la fidanzata.
Pur se la produzione poetica di Giacomo Stabilini ha incontrato qualche difficoltà nella pubblicizzazione, la poesia del Maestro è stata capita e riconosciuta dai cremaschi come propria, basti ricordare i versi senari della allora famosa:
Santa Lucia
La Santa Lüséa
che va con l'asnì
la varda la spéa,
la basa i s'ciatì.
Na pore dunèta.
le 'n banda al camì
argota la spèta
pel sò picinì.
— O car me Sìgnur.
go gnanche 'n quatrì
per toga 'n laùr
al me bagaì!
Santa Lucia. Santa Lucia che va con l’asinello / guarda, spia / bacia i bambini. // Una povera donna / lì vicina al camino / qualcosa aspetta / per il suo piccolino. // O Dio mio caro, / non ho neanche un quattrino / per comprare un oggetto / al mio piccolino!
Commenta così questo componimento il prof. Sacchi, curatore dell’edizione del volumetto della Pro Loco:
Particolare rilievo ha la filastrocca Santa Lucia, giocata sui toni della ninna nanna, improntata a una lieve nota di delicatezza per i sogni infantili, ma anche di tenerezza per i bimbi meno fortunati. Non pochi autori ne hanno vantato la paternità, perché questa composizione è divenuta così popolare che molti fanciulli e molti dei loro genitori l'hanno mandata a memoria: essa è uno dei manifesti riconosciuti della poesia cremasca. L'attribuzione a Giacomo Stabilini, dopo gli attenti studi di Vanni Groppelli, è ormai cosa certa.
BIOGRAFIA
Scarse le notizie sulla vita del poeta.
Giacomo Stabilini nasce a San Bernardino il 5 gennaio 1887 da Giuseppe, segretario comunale e da Maria Chiodo.
Nel 1924 il Comune risultava incluso nel circondario di Crema. In seguito alla riforma dell’ordinamento comunale, disposta nel 1926, il Comune viene amministrato da un podestà. Nel 1928 il comune di San Bernardino è aggregato quale frazione al comune di Crema (R.D. 15 aprile 1928, n. 951).
Giacomo Stabilini studia alla Scuola Normale di Crema, dove consegue il diploma magistrale. Dal 1907 al 1950 insegna presso la scuola elementare del paese natale e contemporaneamente regge per tredici anni la cattedra di materie letterarie presso la Scuola Serale Popolare di Commercio in Crema.
Nel 1922 sposa Cesira Venturelli: hanno quattro figli: Giuseppe, Gianna, Renania e Ives.
Nato e vissuto quasi tutta la vita nel paese natale di S. Bernardino, il maestro Stabilini ha sempre nutrito un profondo affetto per il suo borgo natio, cui ha dedicato numerose poesie.
Giacomo Stabilini è morto nella frazione di San Bernardino di Crema il 23 dicembre1950.
BIBLIOGRAFIA
Al me paés, (a cura di V. Groppelli) Arti Grafiche Cremasche, Crema, 1985.
Al me paés è stato scelto dal critico letterario nonché poeta, Vanni Groppelli, come titolo dell’antologia da lui curata, pubblicata poi postuma nel 1985.
Non si tratta di una poesia descrittiva o paesaggistica: S. Bernardino è il simbolo delle patrie di ogni tempo e di ogni luogo, e ‒ come ogni patria ‒ è segnato dal dolore e dall'ingiustizia che da sempre contraddistinguono la divisione fra gli esseri umani.
Giacomo Stabilini, Poeti cremaschi di ieri e di oggi, Antologia (a cura di C. A. Sacchi), Pro Loco, Crema, 2011.
Al me paés
Quand gire j'occ danans da la me porta
e vède töt anturne i bèi palàs
ma par da sent argot che ma cunfòrta
e che ga dìs al cȏr da cunsulàs.
Ma salta 'n da la tèsta cent castèi
e quase quase stante 'nfin a crèt
che 'n mèz a tanta zent che g'à di ghèi
ga sìes amò ’n fragèl da puarèt.
Il mio paese. Quando osservo davanti alla mia porta / e vedo tutto intorno i bei palazzi / mi sembra di sentire qualcosa che mi conforta / e dice al cuore di consolarsi. // Mi ricordano cento castelli / e quasi quasi resto incredulo / che in mezzo a tanta gente che ha i soldi, / ci sia ancora una gran quantità di poveri.
Aggiunge Sacchi nei suoi appunti:
Nella produzione del Maestro sono spesso presenti i paesaggi di geografia umana: gli abitanti del borgo natio, i conoscenti e gli amici, soprattutto se amanti dell'attività venatoria. Questi ritratti, sia individuali che collettivi, sono stimolati da una satira pungente, tendente comunque all'affermazione di valori sociali e morali ormai trascurati, eppure non si tratta mai di acri rimbrotti saccenti o dispregiativi; ma per lo più di ramanzine non prive di bonarietà e perfino di affetto. L'esempio più tipico, nonché più famoso, di questa produzione del Maestro Stabilini è quello dedicato ai perdigiorno del Caffè Verdi.
Ai landrù dal Caffè Verdi
Se 'n po i va pias, vo scarbuciàt du èrs
an dialèt cremasch issé per schèrs,
per tirà 'n gir i quatre buntempù
dal Cafè Verdi (cumprés al padrù).
Gh'è dentre certe lengue a furbezèta
che quand le tàca le na dà na fèta...
e se le pol sparlà da quèst o quèl
i'è velenuse pègio d'un bezèl.
Ai buontemponi del Caffè Verdi. Se un po’ vi fa piacere, vi ho scarabocchiato due versi / in dialetto cremasco così per scherzo, / per prendere in giro i quattro buontemponi / del caffè Verdi, (compreso il proprietario). // Ci sono dentro certe lingue a forbicetta (insetto) / che quando iniziano ti annoiano / e se possono sparlare di uno o dell’altro / sono velenose peggio di un serpente.
Scarsa è la presenza femminile: le liriche che riguardano le donne si possono contare sulle dita di una mano, ma, a dispetto della quantità, esse sono notevoli per la qualità. Sono per lo più poesie d'amore e costituiscono un esempio di ispirato lirismo: fenomeno piuttosto raro nel panorama della poesia dialettale cremasca.
Quand ta passet
Quand ta passet sö 'l vial da Porta Sère
e ta ma fé 'l surìs per salüdàm
ma par da sent al côr che ma sa sère...
ma par da sent argót... so mìa spiegàm!
Se stèss con te, per poc, per an mument...
me ta darès an mȃ töt al me côr
per dat la proa da töt al bê che 'l sent.
Quando tu passi. Quando passi sul viale di Porta Serio / e mi fai un sorriso per salutarmi / mi sembra di sentire il cuore che mi si chiude… / mi pare di sentire qualcosa… non so spiegarmi. // Se stessi con te, per poco, per un momento… / io ti darei in mano tutto il mio cuore / per darti la prova di tutto l’amore che lui sente.
Sottolinea il prof. C.A Sacchi nei suoi appunti:
Capita spesso che i poeti vivano di contraddizioni, capita che abbiano una mente lucidamente atea ed un cuore profondamente e sinceramente religioso. È questo il caso anche del maestro Stabilini. Pur convinto socialista e anche un poco mangiapreti (atteggiamento questo più teorico che pratico), il poeta sa commuoversi intimamente ed elevare il suo spirito nella contemplazione del mistero di Maria, la madre di Cristo. I poeti locali sovente osservano, descrivono e persino riportano anche le preghiere altrui: Giacomo Stabilini lo fa con insofferenza per ogni forma di bigottismo.
La Madòna dal Marsàl
La cesulina vècia dal Marsàl
che gh'è tra Riolta Magra e Riultèla
sö la scarpada funda dal stradal
la g'à cinch sècui e mèz e l'è amò quèla.
Con töcc i sò miràcui e i sò quadrèt
l'è amò la Madunina di puarèt.
L'è là, sula sulèta. pelegrina,
an mèz a l'aria e 'l cel e i fior di prat,
an mèz al frèsch e 'l scür da la buschina
doe canta 'l russignol al fosch d'estat
e suna quatre bòt, issé a la buna,
quand rìa 'l Cüràt o... quand al truna.
La Madonna del Marzale. La chiesa antica del Marzale / che c’è tra Ripalta Arpina e Ripalta Guerina / sulla scarpata profonda della strada / ha cinque secoli e mezzo ed è ancora uguale. / Con tutti i suoi miracoli e i suoi quadretti / è ancora la Madonnina dei poveri. // È lì sola soletta, peregrina, / in mezzo all’aria e il cielo e i fiori di prato, / in mezzo al fresco e il buio del boschetto / dove canta l’usignolo nel buio dell’estate / e risuonano quattro botti, così alla buona, quando arriva il curato o… quando tuona.
Riporto altri appunti del curatore:
La scrittura di Giacomo Stabilini ha il pregio di essere volutamente semplice e lineare. Non vi si trovano orpelli e nemmeno concessioni a quella retorica che solo esteriormente si rifà alle facili tentazioni del compiacimento folkloristico; non vi si trovano nemmeno forzature lessicali che abbiano come unico fine la spettacolarità del recupero del gergo antico fine a se stesso. L'uso di vocaboli ormai desueti è dovuto esclusivamente alla data delle composizioni.
La lingua usata dal Maestro è il dialetto di San Bernardino, del tutto simile al dialetto di città, tranne che per l'uso di un vocabolario più ricco di termini derivati dalla cultura contadina. Lo stile di Giacomo non solo è ricco di immagini e di colori, ma è anche particolarmente attento alle più remote sonorità che il nostro dialetto può offrire.
Le sue composizioni inoltre sono assai attente ai ritmi che col nostro vernacolo si possono creare.
Di diversa cifra è lo stile delle poesie in italiano, non perché diversa sia l'ispirazione, ma perché diversi sono i modelli culturali a cui si rifà l'Autore. Si tratta di composizioni poco spontanee, decisamente poco scorrevoli e assai retoriche, ispirate alla produzione poetica dell'Ottocento, anzi del primo Ottocento, lontane quindi dalla lezione del ricco e tormentato Novecento.
Sono per lo più poesie d'amore e costituiscono un esempio di ispirato lirismo, che come già anticipato, è un fenomeno piuttosto raro nella poetica cremasca. Pur se ritengo doveroso ricordare che sono state scritte tutte negli Anni Venti del secolo scorso e come già sottolineato nella presentazione di altri poeti dialettali, è stato solo verso la fine del secolo che il vernacolo diventa lo strumento prezioso, più rispondente a esigenze di essenzialità della poesia: così nel resto d’Italia anche nel nostro territorio.
Se poniamo a confronto due sonetti: uno in italiano e l'altro in dialetto, aventi lo stesso soggetto, evidenti risultano i limiti del poeta nella produzione nella lingua nazionale.
L’usignolo
Dal folto della macchia di laggiù
fra le frescure dell'april fuggente
in notte cupa al mio vegliar silente
tu canti ancora e non cantavi più!
Oh tu degli uman, dolce cantore,
donde venisti? Qual saluto porti?
Riedi amor a le misere sorti
dell'animo mio, di questo core?
Al rusignol
A èdet lé moc, moc, töt angruiìt
dadré d'un gaparèl da la spinada
col crapì bas, e j'occ ciarìt, ciarìt,
ma ȇ 'l magù da fa na piatulada.
Ta fa 'ngremì 'l prim frèt, la prima brina?
O pör ta 'mbalinàt na s'ciupetàda?
Dèrf al bechi e cüntem argutina:
t'è capitàt na qualche sumarada?
L'usignolo. A vederti lì moscio, moscio tutto intirizzito//dietro un nodo della siepe spinoso/con la testina bassa e gli occhi molto preoccupati/mi viene uno scoramento, tanto da piangere.//Ti fa rabbrividire il primo freddo, la prima brina? Oppure ti ha impallinato un tiro di fucile?/ Apri il beccuccio e racocntami qualcosina;/ti è capitato qualche guaio?
Commenta ancora Sacchi
Notevole è la tipologia dei versi usati da Giacomo Stabilini: la loro scelta non è mai casuale, ma è sempre dettata dall'argomento e ancor più dalle mutevoli circostanze dell'ispirazione. L'autore fa largo uso dei versi brevi (il senario, il settenario e specialmente l'ottonario) per descrivere realtà e situazioni tendenti al popolaresco, venato di genuina comicità, in composizioni generalmente di timbro canzonatorio, dedicate per lo più agli amici, vuoi sbadati cacciatori, vuoi sposini novelli. Questo tipo di versificazione conferisce alle poesie una grande rapidità ritmica e musicale, sempre sottolineata ed esaltata dall'uso sapiente della rima. L'archetipo di queste opere può essere considerato a buon diritto la canzone più che la filastrocca.
Ripéch... rimàt
Me dise che a riflét
e po pensàga bee
da pèrt al cervelèt
i spus... i turna 'n dree.
Ta 'l dise, e g'o resù
za che gh'è l'ucasiù.
Rivalsa(!)… rimata. Io dico che a riflettere, / e anche a pensarci bene / da perdere la testa / gli sposi.. tornerebbero indietro. / Te lo dico e ho ragione / già che c’è l’occasione.
Il verso più amato e quindi largamente più usato dal Maestro rimane comunque l'endecasillabo, metro che in Giacomo Stabilini nulla ha da invidiare a quello usato dai più celebrati autori dialettali cremaschi, quali Federico Pesadori, Rosetta Marinelli Ragazzi e Piero Erba. Al largo respiro e all'armonia dell'endecasillabo il poeta affida tutta la vasta gamma dei suoi sentimenti più reconditi, dei suoi pensieri più profondi, delle sue fascinazioni più intime e perfino delle sue invettive.
L'amore per l'endecasillabo, per la sua naturalezza e per la sua musicalità, in Giacomo Stabilini sfocia naturalmente, ma con ammirevole maestria, nel sonetto.
Eccone uno in cui il poeta lamenta l’incongruenza delle modalità d’esame.
I 'esám
Che rassa da stremesse i mèt adòss
a chei stüdent e a chele stüdentèsse!
Ga trèma 'n fin la carne tac a i'òss
e i spera 'n da la grasia da le mèsse.
………
Me urès mo dì da pruaga 'l sò talent
sö 'l fùbal, sö la moda e la balera
che almeno... passarès al cent per cent!
Gli esami. Che grande spavento fanno provare / a quegli studenti e a quelle studentesse! / A loro trema fin la carne attaccata all’osso / e sperano nella grazia delle messe. // Io vorrei dire anche di provare le loro capacità / sul calcio, sulla moda e la discoteca / che almeno ne verrebbero promossi il cento per cento!
In questo dedicato al suo canarino, trova affinità con la sua vita.
Al me canarì
Tempesta o piof, sümelèga o truna,
gh'è sul o vent, burda, nef o brina,
soi ché 'n per me, o 'nsèm na quài persuna,
te ta ma pàret sempre n'ucarina.
………………………………
Quand che ragiune par che ta capésset,
quand che so 'nvèrs ta fê na cantadina
e quand do fora ta ma cumpatésset
Ma, urmai, so rassegnàt cumè te 'n gàbia
e rede 'n dal rimpians che i'an da prima,
e cante, s'ciao, per nu crepà da rabia!
Il mio canarino. Grandina o piove, lampeggia o tuona / c’è sole o vento, nebbia, neve o brina, / sia che io sia solo, o insieme a qualche persona / tu mi sembri sempre un’ocarina. //
Quando ragiono sembra che tu mi capisca, / quando sono arrabbiato tu cinguetti / e quando sbraito tu mi compatisci. // Ma ormai io sono rassegnato come te in gabbia / e rido nel rimpiangere gli anni di una volta, / e canto, pazienza, per non morire di rabbia!
L'uso sempre presente delle rime ha un'importanza fondamentale nella produzione poetica del Maestro: è elemento principe nel creare la musicalità dei sentimenti e a evidenziare l'intima poesia insita anche nei pensieri. La maestria nella rimazione di Giacomo Stabilini si rifà ai canoni fondamentali e più classici della materia: rime alternate e rime baciate soprattutto.
E te la cüntét?
Gh'era 'n scür tant quièt per la campagna
e parìa che dal cel caschès le stéle,
tiraa n'aria fresca da muntagna
an mès a cent canzù da le ranèle.
Le lüsarole co la so lüs velada
le parìa 'l rifles da cel stelat,
cantaa 'l russignol la serenada
e 'l grì 'l vusaa fort cumpagn d'ön mat.
…
Ma dopo poche trésche da la cagna
quant me i credie mort an dal carner
gho est töcc i quaiòt a'ndà 'n cücagna
stremit dal pimf e pumf dal me bragher.
Gho parlat pö!... Là 'n pé cumé n'uchèt,
i ho tegnit d'occ tra 'l föm da la rusada
anfin chi ma sa perdit 'n dal buschèt
che gh'era la sóta la gabada.
E pô g'ho det: -'l ma par gna èra
da ìga spès cent franc e perdìt la nòt
per végn che 'n di terè da Furmighera
a fas to 'n gir, o ciula, di quaiòt!
E tu la racconti? C’era un buio tanto tranquillo per la campagna / e sembrava che dal cielo cascassero le stelle / soffiava un’aria fresca di montagna / in mezzo a cento canzoni delle raganelle. // Le lucciole con la loro luce soffusa / sembravano un riflesso del cielo stellato, / cantava un usignolo la serenata / e il grillo gridava forte, come un matto. // Ma dopo alcuni giri attorno della cagna / quando ormai io le credevo morte nel carniere / ho visto tutte le quagliette andarsene, / spaventate dal pim e pam del mio vestiario.
Non ho più parlato! … Lì in piedi come un’oca / le ho tenute d’occhio in mezzo al fumo della rugiada, finché mi sono perso nel boschetto, / che era là sotto il filare di piante capitozzate. // E poi ho detto: - Non mi sembra vero / d’aver speso cento lire e perso la nottata / per venire nel territorio di Formigara / a farmi prendere in giro, o stupido, dalle quagliette.
Evidenzia nella sua presentazione Sacchi:
In pochissimi casi Giacomo usa la canzone a versi liberi, ma sempre con rima alternata.
Uno dei temi fondamentali della poetica nasce dal profondo e sincero amore per la natura, come si può vedere nella composizione ‘Primaera’, l'ode in sestine di endecasillabi con cui l'Autore si mostra acuto e sensibile osservatore degli aspetti teneri e freschi della stagione novella e ascoltatore attento delle voci degli animali, in particolar modo del canto degli uccelli.
La primavera per il poeta è anche simbolo della giovinezza dell'uomo, e come tale ingenera un sentimento di intimità e di dolore. Contrariamente alla stagione meteorologica, la gioventù dell'uomo, a sua volta ricca di suoni e di colori, è destinata a morire per sempre, senza mai rinnovarsi.
Da notare in questa composizione, così come del resto in molte altre, la ricchezza, la precisione e la freschezza dei vocaboli dialettali usati dal Maestro. A noi possono sembrare un poco desueti e ricercati, ma così non è: essi erano naturali e spontaneamente usati all'inizio del secolo scorso, quando l'ode fu composta.
Primaera
Ta set, o primaera, 'n gran tesór,
ma te ta düret poc: te ta ma 'ngànet,
te ta ma làsset pians, ta ma fȇt mór
senza sperà che 'n dé ta ma risànet.
Me t'ho 'nsugnat amó, g'hȏ sangutìt
ma te ta turnet pö... gȏ za capìt!
Primavera. Tu sei, o primavera, un gran tesoro, / ma tu resisti poco: tu mi inganni, / tu mi lasci piangere, tu mi fai morire / senza sperare che un giorno tu mi faccia rinascere. / Io ti ho sognato ancora, ho singhiozzato / ma tu non torni più… l’ho già capito.
L'osservazione attenta e innamorata della natura nasce in Giacomo Stabilini anche dall'esercizio dell'attività venatoria, il che può sembrare contraddittorio secondo la sensibilità attuale, ma agli inizi del secolo scorso altra, e non per questo peggiore, era la cultura.
Riporto alcune osservazioni a tale proposito del curatore dell’edizione della Pro Loco, che cacciatore non è mai stato, ma amante della natura e… della poesia:
Molte sono le composizioni del Maestro inerenti al mondo della caccia, fra queste di notevole rilievo è ‘L'insogn d'an s'ciòp’, ode in cui i ricordi di un vecchio fucile polveroso forniscono l'occasione di delineare il paesaggio agreste, la flora e la fauna delle nostre campagne. Non manca, come di consuetudine, un pungente raffronto con la realtà contemporanea dell'autore, già ormai lontana, dei beati tempi andati. Si tratta di una lamentela valida anche ai nostri giorni.
L'insogn d'an s'ciòp
So ché tacàt al ciôt cumè 'n salàm
che ma cunsöme cumè vü cunsùnt,
cunsideràt cumpàgn d'un trabadàm,
querciàt da pulver e 'mpiastràt da ùnt.
E 'n bölo cume me, sô cundanàt
a tiràga a qualche loc o qualche gàt.
…
E adèss sô ché môc, môc, sensa paróla,
col scàls an zo e le do boche 'n sö,
con 'gnòc trement ch'el vol seràm la gola
e pense a chi temp bèi che turna pö.
E per finìla... quand vurìf saìl
g'ho 'nfin vergôgna a fam ciamà füzil!
Il sogno di un fucile. Sono qui attaccato al chiodo come un salame / che mi consumo come uno senza forze, / considerato come un oggetto inutile, / coperto di polvere e cosparso d’unto. / E un bullo come me, è condannato / a tirare a qualche allocco o a qualche gatto. // E ora sono qui senza fiato, muto, senza parole / col calcio in basso e le due canne all’insù, / con un nodo tremendo che vuol chiudermi la gola / e penso a quei tempi belli che non tornano più. // E per finirla… se volete saperlo / ho anche vergogna a farmi chiamare fucile!
Presenti nella produzione del Maestro, odi dedicate agli interventi umani che producono più di altre composizioni, momenti di delicata poesia.
Un esempio è costituito da L'aqua da la palàda, della quale Vanni Groppelli scrive nella raccolta: Al me Paés: «una composizione tra le migliori del poeta per la freschezza dei versi».
La Palada, composizione in sestine di endecasillabi, che l'Autore definisce 'l mar di pore puarèt, descrive la chiusa del Serio a nord-est della città, che è stata per anni meta dei bagnanti cremaschi rimasti a casa, durante il periodo estivo: gente povera e genuina; i bagaiòt e i spatös invece andavano al Canale Vacchelli.
L’aqua da Palada
E quant d'estàt gh'é stupinat j'antìne
e strina na quai gossa che sgùtula
ansèma i scui da j'altre funtanìne,
al lèt dal Sère, co j'umbre che cunsùla,
con töt al sò sabiös e 'l sò gerèt
al diénta 'l mar di pore puarèt.
E i nòst cremàsch, co la sò bèla ràssa,
quant còs al sul e dùnda gna 'n bruchèl,
i còr a spaciüga 'n da l'aqua bàssa
fin coi pupì, puarì, 'ndal panezèl.
E 'ntant che le sigàle le 'nsurdés
i fa le tumagate e i sa diertés.
L’acqua della Palata. E quando in estate sono chiuse le paratie / e sfugge qualche goccia che scende / insieme a quel che cola dalle atre fontanelle / il letto del Serio, con le ombre che danno un po’ di consolazione, / con tutte le sue sabbie e il suo ghiaietto, diventa il mare dei poveri. // E i nostri cremaschi, con la loro bella caratteristica, / quando cuoce il sole e non ondeggia neanche un rametto, / corrono a giocare nell’acqua bassa / anche con i neonati, poveretti, (fasciati) nei pannicelli. / E intanto che le cicale ti assordano, loro fanno le capriole e si divertono.
Questo succedeva prima che le acque del Serio fossero inquinate, prima che venisse aperta la piscina comunale e non succede più oggi dove e d’obbligo passare l’estate in acque internazionali.
Il Prof. Sacchi chiude la presentazione del poeta Giacomo Stabilini, con una citazione del critico letterario e saggista Pietro Citati, che chiosando il Leopardi, così definiva un poeta:
Il poeta moderno guarda il mondo come da un luogo alto e superiore a quello abituale: vede d'un tratto moltissime cose, che di solito non ha mai veduto insieme. Scopre vivissime somiglianze tra le cose: rapporti fra oggetti disparatissimi, similitudini ingegnose, relazioni a cui non aveva mai pensato, nessi fra l'ideale ed il materiale, epiteti mai usati. Passa da un'idea all'altra in modo rapido: ne comprende vivamente e facilmente il legame; accumula in un momento tanti pensieri, così ben legati e ordinati, che in un balzo fa la strada di più secoli.
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commenti
luciana groppelli
16 novembre 2024 15:32
Niente come la citazione di Pietro Citati ci dà il senso e il valore della scrittura di certi autori.
È la mia convinzione dopo avere letto questa antologia di sue poesie grazie alla quale si delinea con lucida chiarezza il suo carattere e il suo stile.
Felice di avere colmato un' altra lacuna delle mie conoscenze del panorama non esiguo della poesia dialettale cremasca.
Roberto Solci
16 novembre 2024 18:45
Un gigante della poesia dialettale.
Potenza, dolcezza e arguzia fusi in un ritmo musicale sorprendente.
Grazie per il bellissimo articolo.