21 luglio 2025

Poeta delle pietre, archeologo dell’anima: Don Angelo Aschedamini ci sorprende ancora

Così si legge nella presentazione di Gianni Bianchessi per il volume di A. Aschedamini: Offanengo. Ricordi- tradizioni e un briciolo di Storia, 1982.

 L'efficacia dell'espressione dialettale che, nella sua sinteticità, arriva a cogliere nel segno più di qualsiasi periodo in lingua, consente di tratteggiare le figure, mettendo in rilievo le caratteristiche che ne hanno fatto, a loro modo, dei "personaggi". L'autore li accosta con fare divertito, talvolta ironico-satirico, ma sempre con simpatia e benevolenza, e non manca di trovare una morale che vale non tanto per i protagonisti, ma per noi che leggiamo le composizioni. In questo, il poeta non dimentica di essere sacerdote. Soprattutto, dietro ogni riga, si legge il ricordo che il "curato" Don

Angelo ha portato con sé, del paese che lo ha ospitato per un periodo rilevante della sua missione sacerdotale. Quel paese è serbato nel cuore, assieme alla sua gente, e Don Angelo ha ritenuto di manifestare l'affetto che ha sempre nutrito nei suoi confronti con l'espressione poetica in vernacolo.

lnfine, traspare dalla raccolta, abbastanza nitida, la personalità da:” Dun Angel, qnöcc, che va a circà predocc, chei vecc che, per la storia, dis argot", cioè di un "baqai liber, vif e scciet".      

BIOGRAFIA 

Angelo Aschedamini nasce nel 1919 a Ripalta Vecchia, periferia di Madignano. In famiglia ci sono altri quattro fratelli: Agnese - Elisabetta - Ancilla – Agostino, unici sopravvissuti degli otto figli nati nel matrimonio.  I trasferimenti del nucleo familiare in varie località: Camisano, Trezzolasco Sergnano  e infine Casale, sono dovuti all’attività del padre che, come fattore, presta la sua attività in  cascine dei diversi paesi  del cremasco. 

Angelo frequenta la scuola elementare a Sergnano, riceve la Prima Comunione nel 1926, un evento che segna la sua chiamata al sacerdozio e poi entra in Seminario. L’iscrizione   viene concretizzata grazie al supporto della famiglia.

Scrive fin da quell’età poesie in varie lingue. I dettagli specifici sulla sua giovinezza sono scarsi, ricavati dalle testimonianze di chi con lui ha intrapreso la scelta religiosa. Dagli anni della sua educazione ha manifestato un concetto di libertà dominata da un progetto di autoeducazione esigente, che lo ha sorretto, fino all’ordinazione sacerdotale, con un forte senso del dovere senza soffermarsi su logiche di carriera o di diplomazia. 

La genialità si rivela in vari periodi della sua vita, sia durante gli studi ginnasiali, che liceali che teologici e in svariate maniere, non ultima nell’arte pittorica e nella poesia.

Il suo ministero sacerdotale inizia nel 1942, in pieno periodo bellico: viene destinato a Torlino Vimercati, piccolo paese di poche anime, che lui definisce nei suoi appunti: il mio primo amore sacerdotale.

Nel 1946 è destinato dalla Diocesi alla parrocchia di Offanengo: il novello curato è all’inizio molto preoccupato, perché non sa se sarà all’altezza dell’incarico che, più oneroso del precedente, gli viene affidato.

 Durante il confuso periodo successivo alla Grande Guerra, come scrive nel suo libro Cronaca, si impegna a nascondere e rimpatriare prigionieri russi, cecoslovacchi e tedeschi. Viene anche colpito dalla milizia fascista, mentre impartisce l’estrema unzione ai soldati feriti. 

Don Angelo riesce a coinvolgere i ragazzi  in attività sportive e religiose, tanto è vero che quando nel 1958 gli viene affidata la parrocchia di Vidolasco, i giovani dell’azione cattolica di Offanengo mantengono costanti contatti con lui.

S.E. Mons. Carlo Ghidelli, da adolescente, è stato  seguito da don Angelo, quando  era curato a Offanengo e afferma che in quel periodo, e dal suo esempio, è nata la sua personale vocazione ministeriale. Il prelato aggiunge: “Se c’è un segreto nella vita di Don Angelo, lo riconosco nella sua scelta vocazionale, nella decisione irreversibile a diventare prete, ad essere apostolo, soprattutto apostolo tra i giovani”. 

 Vidolasco era stato annesso nel 1934 dal regime fascista a Casale Cremasco e ancora  ai nostri giorni è la frazione settentrionale del comune lombardo di Casale. È aggregato a Casale Cremasco nella denominazione del Comune.  Ha oggi una popolazione di 479 abitanti.  

Da questo sito https://www.lombardiabeniculturali.it/istituzioni/schede/4100029/ riassumiamo alcune informazioni sull’istituzione religiosa del paese: 

La prima attestazione di un insediamento religioso a Vidolasco risale al secolo X, quando nel 993 la chiesa di San Faustino è citata in un placito dei conti Gisalbertini (CD Cremonese1895-1898, I, 54, p. 39). La parrocchia di Vidolasco appartiene nel secolo XVIII al vicariato di Castel Gabbiano (Visite Lombardi 1752-1777) e nel secolo successivo in quello di Sergnano (Visita Ferré 1859); nel secolo XX passò infine nel vicariato di Camisano (Guida diocesi Crema 1963).

 Con la revisione delle strutture territoriali della diocesi attuata nel 1970 (decreto 25 gennaio), la parrocchia di Vidolasco è inclusa nella zona pastorale est (Guida diocesi Crema 1988).

L’8 dicembre 1958 Don Angelo Aschedamini viene nominato Parroco della chiesa di San Faustino e Giovita a Vidolasco: per i decenni successivi segue i lavori della chiesa rendendola un luogo adatto ad essere la casa di Dio e della Vergine Maria, alla quale è fervente devoto. 

Anche la casa parrocchiale, edificio accanto alla chiesa, viene ammodernata ed è qui che Don Aschedamini allestisce la prima esposizione dei manufatti ritrovati nei terreni del piccolo territorio, risalenti a epoche sia preistoriche che romane.

La ricerca archeologica è un’altra delle attività a cui si dedica Don Angelo e nella quale coinvolge i parrocchiani di Vidolasco.

Riportiamo una parte dell’articolo a firma del Prof. V. Cappelli pubblicato sulla rivista del Museo civico di Crema e del cremasco: Insula Fulcheria ed. 2014 p. 378. 

[…] Credo sia necessario accrescere sempre la consapevolezza delle proprie origini e dello sviluppo delle realtà territoriali, rafforzandone l’identità e soprattutto creando le premesse per una comprensione della storia locale. Il motivo di queste considerazioni nasce anche dal fatto di aver partecipato qualche mese fa alla commemorazione in Vidolasco di un sacerdote, Don Angelo Aschedamini, noto appassionato ricercatore di reperti archeologici sul suo e nostro territorio. Consapevole dei propri limiti, da autodidatta, non si è limitato ad accumulare tali reperti, ma ha cercato di studiarli, di descriverli e, anche se con una certa dose d’improvvisazione, di documentarne il rinvenimento. Merito suo l’aver saputo, nel tempo, raccogliere e confrontare testimonianze di gente del luogo acquisendo confidenze orali. 

Tali informazioni, circa gli occasionali affioramenti durante le arature, sono stati un’occasione assai propizia per il coinvolgimento ulteriore della popolazione locale e in maniera ancor più efficace dei suoi giovani, facendoli consapevoli del prezioso patrimonio che la loro terra conservava. S’innestò una virtuosa crescita d’interesse, di partecipazione e di consapevolezza in tutti, sia in paese che tra gli studiosi, circa la necessità di salvaguardare quegli “oggetti” sovente ignorati o, ancor più tragicamente, perfino deturpati o distrutti. Si apriva insomma uno squarcio nuovo, una stagione feconda di ricerca e studio, di cui Don Angelo fu, per certi aspetti, promotore. (Prof. Vincenzo Cappelli)

Il tutto ha inizio con il ritrovamento casuale, durante l’aratura dei campi, di alcuni: “ciapòt”. È una ricerca che impegna Don Angelo dapprima nello studio delle fonti storiche. 

La sua passione intorno a questa branca della ricerca archeologica, nasce quando i grandi studiosi del tempo non avevano ancora preso in considerazione questi ritrovamenti occasionali: i ricercatori erano soprattutto attenti all’analisi delle grandi opere d’arte da esporre nei musei.  L’interesse lo porta a sperare di poter costituire un museo con questi reperti, che non erano mai stati presi in considerazione da nessuno prima di lui. 

 I suoi collaboratori sono tutti gli abitanti del paese: agricoltori che arano i terreni e bambini da lui chiamati segugi, stimolati nel gioco della caccia ai sassi. Ricordiamo che tra questi  raccoglitori in erba, c’era anche Attilio  Premoli, originario di Vidolasco, ordinato prete nel 1987, che ha assunto dal 2022 la funzione di nuovo Vicario generale della Diocesi di Crema.

Don Angelo cataloga i reperti trovati, aggiungendo informazioni sul luogo da cui sono emersi: li   raccoglie e li espone ordinatamente nella casa parrocchiale. Informa del suo lavoro alcuni esperti nazionali, che gli inviano lettere di encomio per l’attività che sta conducendo.

 Sono numerosi i suoi appunti annotati durante gli scavi, certo condotti con i semplici mezzi di un autodidatta: altrettanti sono gli studi apparsi sui giornali dell’epoca. Più di 120 gli insediamenti archeologici da lui individuati. 

 Quando il Sindaco di Vidolasco firma l’atto di donazione del materiale ritrovato in 20 anni di lavoro, Don Angelo è convinto che potrà allestire nel paese un museo. Quando però la sovrintendenza regionale nel 1981 inizia i sopraluoghi, si rende conto che il suo progetto non sarà realizzabile, perché il materiale verrà suddiviso nei musei del territorio.  

L’attività di ricerca che animava Don Aschedamini è avvenuta in un periodo senza regolamenti redatti a tale proposito: in essi questo genere di materiali veniva addirittura scartato. Il suo lavoro precedeva quello che lo Stato, attraverso le Regioni, avrebbe poi negli anni ’70 / ’80 cercato di tutelare. 

Del resto, come commenta R. Knoblock nel volume: Un sacerdote comunemente straordinario del maggio 2014: “I caratteri più qualificanti del lavoro di Aschedamini gli vennero per intuizione da quel - colloquio con la terra- al quale si sentiva naturalmente chiamato”.

Altra attività che coinvolge Don Angelo dal 1964 al 1988 è la redazione delle Agende Annuali: lì annota quello che succede nella sua vita sacerdotale, le omelie e le spese, ma anche i pensieri di un uomo forte e determinato nel portare avanti il suo ministero. Le sue scelte gli provocano anche qualche contrasto con la gerarchia ecclesiale: ciò spiega, forse, come mai un sacerdote con un bagaglio culturale notevole, con un esempio sacerdotale carismatico, che aiuta, col suo esempio, molti giovani a intraprendere la strada del sacerdozio o quella missionaria, sia rimasto per trent’anni in una piccola parrocchia del cremasco.

In questa piccola realtà Don Angelo Aschedamini conduce una vita esemplare, dimostrando una capacità non comune di coinvolgere le persone con le quali viene a contatto. I suoi ultimi anni riflettono una profonda dedizione a tutte le attività intraprese; continuano i suoi sforzi per preservare la storia locale e coinvolgere la comunità nell'esplorazione culturale e storica.

 Muore, dopo grave malattia, il 2 Agosto 1988.

BIBLIOGRAFIA 

- Bottaiano: dalla preistoria al 1945 d.C.

- Camisano (monografia): testimonianze archeologiche (1974).

- Vidolasco: testimonianze archeologiche (fascicolo primo).

- Vidolasco: storia medioevale (fascicolo secondo).

- Cremasco Antico tre volumi 1973-1976-1978, in cui l’autore riassume e organizza quindici anni di ricerche sul campo.

- Offanengo. Ricordi- tradizioni e un briciolo di Storia, 1982.- Agende annuali dal 1964 al 1988 c/o archivio parrocchiale di Vidolasco.

 - Bollettino parrocchiale, redatto da Don Angelo, evidenzia il suo impatto sulla comunità.  Si sottolinea la sua vita sacerdotale, caratterizzata da una totale dedizione a Dio e alla comunità. È conservato nell’archivio parrocchiale di Vidolasco.  

- Vita Parrocchiale, con descrizioni di gruppi o di singoli religiosi dal 1971 al 1985. 

 Don Aschedamini svolge per tutta la vita, un’intensa attività giornalistica: molti sono gli articoli pubblicati sul settimanale Il Nuovo Torrazzo di Crema, sul quotidiano La Provincia di Cremona, sul settimanale diocesano La Vita Cattolica del territorio cremonese. 

 Sue sono alcune traduzioni dal francese; è stato curatore di poesie latine, italiane e in dialetto cremasco.

 Don Angelo ha redatto un testamento spirituale, nel quale chiede perdono per i suoi peccati esprimendo la sua fede e gratitudine; raccomanda l’amore tra i suoi familiari. Esprime il desiderio di morire come un buon sacerdote, abbandonandosi alla misericordia di Dio. ​

 Facendo un’eccezione al consueto percorso di questi articoli sulla poesia cremasca, inseriamo una poesia in francese di Don Angelo Aschedamini, scritta durante la Grande Guerra nel gennaio1943.

Fede e speranza sorreggono l’atteggiamento di Don Angelo che dimostra una particolare devozione nei confronti di Maria Vergine: a Lei rivolge una fiduciosa preghiera di amore filiale.

A Notre Dame de la paix

La guerre, ce terrible orage,

Encor sans finir detrúit,

Faisant à tous fils outrage

Les hommes ont appris ce hāir

                       …

Piusque Vierge à votre prière

Le Grace doit sa floraison:

La Paix ramenez sur la terre

Sainte Mere de Dieu et des hommes.

A Nostra Signora della pace- La guerra, questo terribile uragano/ strazia ancora senza fine; / recando offesa a tutti i figli/ gli uomini hanno imparato ad odiarsi. // Poiché, Vergine, alle vostre preghiere/ la Grazia deve la sua fioritura: / riportate la pace sulla terra, / Santa madre di Dio e degli uomini.

Presentiamo anche un frammento di una lunga poesia in latino, a cui anticipiamo un inciso critico di Carlo Alberto Sacchi, dalla citata edizione Un sacerdote comunemente straordinario.

Raramente Don Angelo si adegua alle regole della prosodia preferendo i versi liberi, per quanto in latino non usa la metrica classica, ma usa le quartine in perfetti settenari. Non mancano in lui poesie ispirate alla carità, virtù teologale certamente non meno grande della fede della speranza. Un cristiano e soprattutto un sacerdote, non può ignorare gli ultimi.

 Senza titolo

Maria! Tibi Territus 

ingenti caede doemonis,

 fletuque voce lugubri

volvetur noster reditus.

 

Tibi! Sic triste naufragus

Per alta fractus aequora,

 Refixus nave fluctibus 

Quietis tangit litora. 

 

Maria! A te atterrito/ dall’infinita strage del demonio, / con pianto e voce lugubre/ si rivolge il nostro ritorno. // A te/ così il naufrago tanto triste/ disperso in alto mare/ con la nave rinfrancato tra i flutti/ raggiunge le coste della quiete.

Inseparabile amico di Don Angelo fin dai tempi del suo incarico a Offanengo è Don Remo; due giovani, due amici che vivono allo stesso modo il senso della loro missione: la vicinanza ai più deboli della società e l’esigenza di far accostare alla religione i più giovani. 

In chiave ironica Don Angelo descrive dell’amico un grande hobby: la caccia, che comunque non impedisce loro di condividere l’esteso impegno sacerdotale. 

Dun Remo

"A me il turcasso e la faretra,

inique bestie al suol cadete!"

Ise pensae quand da luns sbirciae

dal bas an so la saguma dal pret

col sciòp an spala e i stivalù,

con tant da èsta e 'I bereti.

                   …

 Sì, ogne tant i ciapàa argot,

ma a sentì lur... "l'è na scarogna!

me tri fasà, na paunsina" ...

"e me na legor a vint meter".

                   …

Ma töt andàa per la so strada.

"L 'e 'notel, l'e l'udur da sciopp!”.

"Urmai i sa che schersem mia! "

"Me po ise grand... " tacàa Dun Remo...

e le 'I discurs dei caciadur

sa fàa difficel cumè 'n gropp,

e 'n gos da grappa al ga uria.

                     ...

Per dudes ann passat ansema

per me Dun Remo l'e 'n fredel.

Col fubal me tiràe i bagai,

e lü col sciopp ciapàa i.… selvadegh.

Con töt al cor ma sa sderfaem 

per cunfesàa e fa adunanse.

 

Ma se Fanengh sta che 'ndal cor

cumè 'n tucù de la me anima

l'è mèret sò che 'I perdunàa

per prim le nostre beghe solite.

Sa uriem be cumè du pret.

Ch'ei da Fanengh i l'ha capit.

 

Don Remo- A me il turcasso e la faretra, / inique bestie al suolo cadete!” / Così pensavo quando da lontano spiavo/ dal basso in alto la figura del prete/ con il fucile in spalla e gli stivaloni, / con tanto di tonaca e berretto. // È vero, ogni tanto prendevano qualcosa, / ma dicevano… “è una sfortuna! / io tre fagiani, una pavoncella” … / E io una lepre a venti metri” ! Ma tutto andava per il suo verso. / “È inutile è l’odore del fucile!” “Ormai lo sanno che noi non scherziamo!” “Io poi che sono così alto…” / cominciava a dire Don Remo… / e a questo punto il discorso dei cacciatori/ si faceva difficile come un nodo, / e un goccio di grappa ci voleva. // Per i dodici anni passati insieme/ per me Don Remo è un fratello. / Col calcio io miravo ai ragazzi, / e lui col fucile ai… selvatici. / Con tutto il cuore ci davamo da fare/ per confessare e fare incontri. // Ma se Offanengo sta qui nel cuore/ come una parte della mia anima/ è merito suo che perdonava/ per primo i nostri soliti diverbi. / Ci volevamo bene come due sacerdoti. / Gli abitanti di Offanengo l’avevano capito.

In una lunga poesia, che riportiamo per intero, Don Aschedamini usa l’ironia anche per descrivere il suo comportamento: l’incipit del testo riguarda l’attività del Don che tutti conoscono: al va ‘ndì taré a circà i predòch. L’irritazione per la bonaria presa in giro riguardo alla sua occupazione di ricercatore di cose da nulla (i Sas, i Predòch, i Ciapòt) svanisce ripensando all’infanzia, quando l’ambiente nel quale viveva, l’aveva affascinato. E diviene per il poeta la ricerca di Don Angelo bambino, con il grande rimpianto di quello che nell’ambiente ormai non c’è più. Ora quell’ambiente si è impoverito e in lui ha stimolato il dovere di tenere memoria di coloro che l’hanno vissuto, attraverso i resti che la terra ha conservato. 

Riflettiamo oggi sulle parole di Don Angelo: erano solo gli anni ’70! E da allora, c’è stato un ulteriore mezzo secolo di depauperamento sistematico del territorio!!

Senza Titolo

“‘n du al Don Angel, val a ciapòt?

ma dis la zént,

l'è stöf per caso da fa nigot?".

Respunde apena con meza ugiada,

ma soffre dét;

però vo 'stèss, gnöc, per la me strada.

 

Sì, vo dal bù me a circà predòch,

cirche chèi vèc,

che per la storia ma dis argot: 

gh'è tanta roba 'n di nost teré, 

bisogna vèt!

che l'è 'n museo an ogni dòs.

Però se pense, la ga resù:

a restà 'n cà 

quand gh'è 'n bel sul, no, so mia bu. 

 

"Bisögn che naghe a circà 'n bagài 

che l'è scapàt,

(ma par de diga), ma 'l troe mai!"

An bagài smingol che salta i fòs 

e va a gnade,

fa sechirole e ta pesca i bòs, 

va a spigulà, ciapa tope e rane,

e funs, lümaghe,

vü che cugnos töte le funtane.

 

An bagài amìs di stortacòl 

da scuagine

da rusignoi da sgaze e amaròt; 

che sent udùr da sambüc, mentù;

sgiuf d'insalina 

more sfrandighe curnai murù.

 

Ma come pode truàl amò

se i fòs i è söc,

e per le rie gh'è pö nigot?

I usèi i è nac, rane e pès crepàc,

al mund l'è ôt,

gh'è gna na sòca da rampegà.

No! No 'l gh'è pö ch'el bagài cuntét

liber, vif, sc'ièt,

che sota 'l sul al cor töt al dé,

ciamàt da na us: la us del vent,

la us de l'erba,

la us de l'acqua, la us de 'l ciél.

 

Ma me vo istès a circàl amò: 

l'è la me vita!

Se 'l troe mia dét an d'un fòs

o sö na sòca per vèt na gnada,

oh! l'è finida!...

oh! l'è finida la me giurnada.

 

Dove va Don Angelo, / va a (raccoglier) sassi? / mi dice la gente, / è stanco di stare senza far niente?” / Rispondo solo con una mezza occhiata, / ma soffro dentro di me, / però ci vado lo stesso, caparbio, per la mia strada. // Sì, vado davvero a cercar sassi, / cerco quelli vecchi/ che per la storia mi sanno dire qualcosa: / ci sono tanti oggetti nei nostri terreni, / bisogna vedere! / qui c’è un Museo in ogni rialzo. // Però penso che abbia ragione: / a restare in casa/ quando c’è un bel sole, no, no, non sono capace. // “Devo andare a cercare un bambino/ che è scappato, / (mi sembra di rispondere) / ma non lo ritrovo mai!” // Un bambino esile che salta i fossi/ e va a caccia di nidiate, / lavora dei rametti e ti pesca i gozzi, / va a spigolare, cattura topi e rane, / e funghi e lumache, / uno che conosce bene i fontanili. // Un bambino amico dei picchi/ delle cutreccole/ di usignoli di gazze e verdoni; / che sente il profumo del sambuco e della menta; / sazio di acetosella/ more selvatiche cornioli more di gelso. // Ma come posso trovarne ancora/ se i fossi sono asciutti/ se lungo le rive non c’è più nulla? // Gli uccelli se ne sono andati, le rane e pesci sono morti, / il modo è vuoto, / non c’è più un ceppo per arrampicarsi. // No, no non c’è più quel bambino felice/ libero vivace, sincero, / che sotto il sole corre tutto il giorno, / chiamato da una voce: la voce del vento, / la voce dell’erba, / la voce dell’acqua, la voce del cielo. / ma io vado ugualmente a cercarlo ancora, / è la mia vita! / Se non lo trovo dentro a un fosso / o su un tronco capitozzato per vedere una nidiata, / oh! è finita!... / è conclusa la mia giornata.

 Don Aschedamini pubblica dopo il suo trasferimento a Vidolasco dei ricordi di Offanengo. 

In quegli anni, si trovavano in mezzo alla gente, "figure strambe": non erano certo rappresentanti illustri, ma solo persone con atteggiamenti inusuali, diversi dal modo di vivere degli altri abitanti del paese. Don Angelo, attento ai valori spirituali e a quelli umani ha avuto e tenuto contatti con queste persone e le ha tratteggiate usando versi dialettali, perché di loro non si perdesse memoria.

 Descrive ritratti autentici di persone: diversi, unici, ma inseriti e accettati dalla comunità del suo tempo. Ne presentiamo alcuni con dei brevi estratti.

Bedo era il seppellitore del paese, un uomo magro e bianco come chi arrivava da lui. Al cancello del cimitero accoglieva i morti: desolato, recitava insieme ai parenti le preghiere, gettava anche lui un pugno di terra nella fossa, un gesto che ognuno di noi ha ripetuto tante volte nella vita: ricoprire un morto, lasciarlo sotto terra, non vederlo mai più e promettere nello stesso tempo di ricordarlo sempre vivo nel cuore. 

 Bedo

Quand croda le foe dai brocc d'auton

e s'alza la nebbia da le marside,

quand corr sempre prima a scundes al sul

e 'mmaguneta arda 'n ciel la rundana,

quand fa capresse 'I to cor, i occ, le gambe ...

va, proa ripassa dal cimitere.

 

Sa troem l'e prope tocc senza boria

tra i mort senza us ma che parla amo

cum'è quand an de, vii, ièm saludat.

 Bedo- Quando cadono le foglie dai rami dell’autunno/ e si alza la nebbia dai campi delle marcite/ quando corre sempre più presto a nascondersi il sole/ e malinconica guarda in cielo la rondine, / quando fa i capricci il tuo cuore, gli occhi, la gambe... / vai, prova a tornare al cimitero. // Ci troviamo lì proprio tutti senza superbia/ tra i morti senza voce, ma che parlano ancora/ come quando un giorno, vivi, li abbiamo salutati.

 A Offanengo Tapèla "al rùa a circà sö". Tapèla è un mendicante, un po’ strano: in strada grida senza alcun motivo, picchia le piante, parla con gli uccelli, "Al baiàa adre ai ca". E quanta paura suscita! Però non commette mai niente di male, anzi in fondo... "i occ iera bèi". La gente lo considera un povero matto, e non dà molta importanza alle strane cose che dice e fa. Ma un suo comportamento risulta incomprensibile: dorme in una cassa da morto: “töta nocc a parlà coi diaoi”. Un modo così esasperato di vivere, suscita incomprensione e non sempre viene accettato dagli abitanti dei paesi, che visita con regolarità. Il diverso non ha mai vita facile. 

Senza titolo 

L'era prope mia giöst,

Tapela bun'anima!

Per me ca la roba 

da durmì an da 'na cassa,

da mort, ogne noc,

al fosc, da per lü,

a parlà coi diaoi...

 

Ogne tant de Sergnà

(bisuc, col barbù,

la crapa pelada,

con na bògia tremenda

e, sota, le braghe,

lé, 'n resc'io soi fianch)

al ruà a circa sö.

Al vusàa töta strada, 

picàa a le piante,

parlàa a iusei,

al baiàa adré a i cà:

pugiat al marel

fisàa ogne tant 

forse i nigui o le stèle. 

          ...

Capése, anco töc

vol vès lur prim an vargot,

magare a fa stüpet,

ma diga al Signur:

“So che, Padrù, ca ta spète” ...

 

Non era proprio normale, / Tapela buon’anima! / Per me quel fatto/ di dormire in una cassa, / da morto, ogni notte, / al buio, da solo, / a parlare con i diavoli… // Ogni tanto da Sergnano, / (straunto, con la barba lunga, / la testa rasata, / con una pancia prominente/ e sotto i pantaloni, / lasciati a rischio sui fianchi) / arrivava a chiedere la carità. // Urlava per tutta la strada, / picchiava le piante, / parlava con gli uccelli, / abbaiava ai cani, / appoggiato al bastone/ fissava ogni tanto forse le nuvole o le stelle. // Capisco, oggi tutti/ vogliono essere loro i primi in qualcosa, / magari a comportarsi da stupidi, / ma dire al Signore: “Sono qui. Padrone, che ti aspetto”

Tuscanì faceva il sarto: taciturno, schivo, rispettoso, e contento del misero risultato del suo lavoro, dato che poche erano le necessità nel secolo scorso e la società dei consumi era al di là da venire. Ogni tanto però andava... in barca, si ubriacava, anche per evadere dalla vita solitaria e senza regole che conduceva. Quando superava il suo... livello di guardia, salutava tutti con un generoso: "Salve! Salve amico!".  Parlando di lui Don Aschedamini inserisce nel testo la storia delle acque che circondavano, migliaia di anni fa, l’abitato di Offanengo,  

Car Tuscanì, col to bel faciù

tund, con du occ ciar pie da buntà,

sempre cuntent le zo 'n dal cantù,  

dime sa l'era senza 'n stafù 

l'anima nuda d'an pore sartur?

 

Par a studià la storia dei "sber",

ch'ei da na olta e po' ch'ei da 'nco,

la par stampada a tanti... bicer.

Par an destino: ce sta söi dos

"atente a l'acqua!" i sügöta dì

a i otre, lur però i bif al vi.

 

Caro Tuscanì, con la tua bella grande faccia/ tonda con due occhi pieni di bontà, / sempre contento lì in basso nel tuo angolo, / dimmi   cos’era senza l’ultimo bicchierotto / l’anima nuda di un povero sarto? // Sembra, studiando la storia dei giovani di Offanengo, / quelli di una volta e anche quelli di oggi/ sembra stampata su tanti… bicchieri. / Sembra un destino: chi abita sui dossi/ “Attenti all’acqua” continuano a dire / agli altri, / loro però bevono il vino.

Le note distintive di Peder sono descritte subito nei primi versi, in un autentico ritratto: una persona disordinata, molle, cicciosa, cascante (ga burlaa zo töt), sporca, ma "con 'na oia tan ciara da laas, ma gna chelaI la ga staa 'n po so". Una persona insomma che non sprecava acqua per l’igiene e non badava troppo all'estetica. Una cosa gli interessava, l'abbigliamento: ricopriva la giacca di recupero (se così si può dire) con medaglie, croci, rosari e immaginette. Da qui il soprannome: "Peder da le medae".

 Peder

Ga burlàa zo tot,

mia 'ndoma le braghe:

i òcc, al nas, i caèi,

perfin i avre i urege

i pe sguèrs 'n da le scarpe,

con ‘na oia tan ciara

da laàss, ma gna chèla

la ga stàa 'n po sö.

 

Si! perchè l'era Peder

an altar da medae

da santì da rusare

'mpatacàcc al giché

da tiràs cumpassiù,

catà sö 'n quai palanche

e 'n bucù da manqià.

Peder- Gli cadeva tutto addosso / non solo i pantaloni: / gli occhi, il naso, i capelli, / perfino le labbra e le orecchie/ i piedi storti nelle scarpe, / con un desiderio molto chiaro di lavarsi/ ma neppure quello gli restava attaccato. // Sì, perché era Peder un altare di medaglie, di santi e di rosari appiccicati alla giacca. // Lui pensava coi santi/ di attirarsi la pietà, / raccoglieva qualche soldo/ e un boccone da mangiare.  

Tone Sghignassa  amava vagabondare, pernottando nelle stalle o sui fienili.  "senza camisa con du saculocc”. Tone veniva accolto bene in qualsiasi luogo egli andasse. Questo perché egli sapeva con una grassa e sguaiata risata, divertire la gente.   Si guadagnava da vivere, poiché riceveva in compenso un po' di polenta, o di pane o un piatto di minestra.

 Vegnia na olta (s'ere 'n bagai)

Tone Sghignassa, 'n'om vecc puaret

con la careta di so baraai

e 'n cumpagnea da méla pulèch.

 

Senza camisa, con du saculocc,

che 'i’era do barche, con fora i didù,

stomech pilus, gris, e 'n facia du occ

ross per al vi, gros cume du lampiu.

"Tone! An chisol se ta fet na ghignada!"

 

Usàa le done dal furne bea colt. 

Scoppia 'n burdèl 'n dà la gola: uha! uha! uha!

Ghegna, paiasso! L’è chèl che ga ol

per certa zent dà la söca sbagliada:

basta scherzà, ghignà fin che sa pol... 

Veniva una volta (ero un bambino) / Tone Sghignassa, un uomo vecchio e povero/ con una carretta di cianfrusaglie/ e in compagnia di mille pulci, // senza camicia, con due zoccolacci, / che erano due barche, con fuori gli alluci, / petto villoso, grigio e in volto due occhi/ rossi per il vino, grandi come due lampioni. // “Tone! Una schiacciatina di pane, se fai una risata!” / Gridavano le donne col forno già caldo. / Scoppiava un chiasso nella gola:” uha! uha! uha! // Ridi, pagliaccio! È quello che ci vuole / per certa gente dalla mente sbagliata: / basta scherzare, / ridere fin che si può.

La Pipassa: le pratiche religiose sono la dimostrazione di tradizioni vecchie di secoli, fatte non solo di parole, ma di gesti ispirati da una retta intenzione. La Pipassa ne è un richiamo popolaresco.

 

"Ave Maria buni erbes stiesus

Santa Maria me por meloamen" ...

e 'ntant al sghilia cum'e 'n bagai,

'nguset con du ugiu fora dal co

e 'n ma 'n tremend fasol ros per sügas

ogne tanta al nas o 'I crapu pelàt.

                    …

 Signur, go pura che me capese poc ...:

se i sghi de la Pipassa i ta va be

perchè 'I ga cret tot, fin a careqnà,

dam la oie da preqà cuma pode,

senza pretend da traspurtà muntagne:

crepe i me sghii con ch'ei dà la Pipassa!

 Ave Maria buni erbes stiesus/ Santa Maria me por meloamen" / ...e intanto strillava come un bambino, / lacrimando con i due occhioni sporgenti/ e in mano un ampio fazzoletto rosso per asciugarsi/ ogni tanto il naso o la testa pelata. // Signore io ho paura di non capire…: / se gli strilli della Pipassa li accetti/ perché ci crede veramente, fino a piangerne, / dammi la possibilità di pregare come posso, / senza pretendere di trasportare montagne/ e finiscano i mei strilli con quelli della Pipassa.

Gli occhi e il cuore del poeta vedono e amano realtà che per altri sono poco note. I cremaschi sono convinti che i loro paesi non siano belli (ma guai ai forestieri che si permettono di parlarne male!). Per Don Angelo invece il paesaggio cremasco è ricco di insospettate qualità e molto significative sono le chiesette, di cui è ricca la nostra terra. Queste realtà fanno nascere nel cuore del poeta autentiche emozioni e riflessioni.  

Santuare de la Costa

Mac, bel mis dà sul, da fior 

e d'amor!

Par che töt sia nof, cuntent,

soi senter de la campagna 

quand ta bagna

la rusada, e i nì s'i sent.

Veh 'n ansèm me, ve a fa 'na sosta 

a la Costa,

santüare fora zona:

quand ta sét a le Cascine

(le Gandìne)

volta a nòc, gh'è la Madona. 

 

Santüare del sescent 

monument

per ricordo de la storia 

de la guerra d'Agnadèl: 

gran macel!

pò ciamat "de la Vittoria".

 

Próa circa la cesina

sö la china 

del riù, chèl vèc de l'Ada... 

se ta èdet na campana,

'na funtana,

la pianüra sterminada...

 Santuario della Costa- Maggio, bel mese di sole, di fiori/ e d’amore! / Sembra che tutto sia nuovo, gioioso, / sui sentieri della campagna / quando ti bagna/ la rugiada, e i nidi si fanno sentire. // Vieni con me, vieni a fermarti/ presso la Costa, / santuario fuori zona:/ quando sei alle cascine (Le Gandine) dirigiti verso Nord: c’è la Madonna. // Santuario del seicento/ monumento/ per ricordo della storia/ della battaglia di Agnadello: grande disastro/ poi chiamato della Vittoria. // Prova a cercare la chiesetta sul dislivello della riva, quello vecchio dell’Adda / se vedi una campana, / una fontana, / la pianura a perdita d’occhio sterminata... 

 Nel concludere questo articolo dedicato a Don Angelo, lasciamo ai lettori il piacere di scoprire un poeta malinconico e riflessivo, una figura affascinante: sacerdote e pastore d’anime, ma anche archeologo e instancabile custode della memoria.  

La sua ironia sottile affiora non solo tra le righe dei suoi scritti, ma anche nel modo in cui ha vissuto e affrontato le sfide culturali del suo tempo. Con una rara capacità di trasformare la solitudine in creatività, ha raccolto reperti archeologici con tenacia e passione, fino a realizzare una vera e propria carta archeologica del territorio.  

Autodidatta, Don Aschedamini ha contribuito in modo decisivo alla memoria storica locale: ancora oggi, la sua preziosa collezione di “predòch”, è custodita nel Museo di Crema. Un tesoro che continua a generare interesse, stimolare dibattiti e promuovere la ricerca, rivelando l’impegno di un uomo che ha saputo coinvolgere la comunità nell’esplorazione culturale del proprio passato.  

 Don Angelo, tra una messa e un versetto, tracciava mappe e cercava reperti.  Nel silenzio della canonica disegnava una carta archeologica, mentre la malinconia si faceva poesia e la solitudine diventava scoperta.  Con i suoi ragazzi, raccoglieva “predòch” come fossero briciole di storia, piccoli oggetti, grandi domande.  Ora quelle tracce parlano ancora di un sacerdote che non si è mai arreso all’ovvio, che ha lasciato dietro di sé non solo fede, ma frammenti di un passato che oggi, più che mai, ci interrogano.  

Nelle foto don Angelo, i fratelli Aschedamini, alcuni suoi scritti e la chiesa di Vidolasco

 

 

Graziella Vailati


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commenti


Luciana Giovanna Groppelli

21 luglio 2025 10:32

Una presentazione sempre scrupolosa e precisa ma anche non meno incisiva dei 'ritrattini' dei personaggi della sua comunità di un autore dagli interessi più vari e appassionanti.