Carlo Alberto Sacchi - Poeta cremasco non solo dialettale
Alcuni lettori degli autori dialettali cremaschi, pubblicati in precedenza, hanno chiesto informazioni su Carlo Alberto Sacchi, l’autore che ci ha accompagnato nel percorso della Collana della Pro Loco.
Continuando la ricerca di poeti dialettali cremaschi che ci hanno ormai lasciato, possiamo dar conto di questo intellettuale-poeta.
Scrive Don Marco Lunghi nell’editoriale di Insula Fulcheria XLVIII-2018:
È compito del Poeta proporre una cultura senza ricorrere a esigenze estetiche che non appartengono al suo mondo, ma che fa ricorso ad una modalità di espressione propria del modo di pensare la vita e la storia che il dialetto è in grado di esprimere.
Nella stessa edizione con il saggio Poesia in vernacolo. I valori estetici e antropologici della poesia in dialetto cremasco degli ultimi quarant’anni, C. A. Sacchi analizza l’estrazione culturale e sociale dei nuovi poeti e l’uso della lingua con i suoi pregi (spontaneità) e i suoi difetti.
Emergono nei testi le diverse scelte dei temi sociali e la visione della realtà con i suoi limiti e le sue parzialità e ciò dà valore e forma alla nuova lirica: l’autore si interroga:
”Come sarà il futuro? Come ci leggeranno i posteri? Cosa rimarrà delle nostre voci? Della nostra Crema?”.
Prendendo in considerazione le risposte derivanti dalla sua analisi critica, si riscoprono le pubblicazioni degli autori, relative alla produzione poetica in dialetto cremasco del periodo più vicino a noi.
Il prof. Vittorio Dornetti definisce Sacchi, un intellettuale di alto profilo che ha saputo spingere la sua ricerca in diverse direzioni, sia nell'ambito dell'attualità culturale sia in quello della ricerca poetica.
Commenta Sacchi in un suo discorso sul dialetto sull’inserto: Al cantù dal cremàsch del 1 settembre 2018 de La Provincia di Cremona:
Lès e scrif an dialèt. Nell'ambito di un discorso che voglia riferirsi all'autentica poesia, il dialetto altro non è che un materiale ed il suo uso altro non è che una tecnica, la cui scelta risponde sostanzialmente alla qualità dell'ispirazione, così come può essere per uno scultore la scelta della terracotta…
Me, 'n dale ròbe
che ma zbedàna 'l cor
gh'è apò 'l dialèt,
al me dialét,
pore bagai,
che 'l è le che 'l mor.
A me, tra quelle cose/ che mi lacerano il cuore/ c’è anche il dialetto, / il mio dialetto, / povero ragazzo, / sta morendo.
Biografia
Carlo Alberto Sacchi (Crema 4 marzo 1943 - 20 novembre 2019).
È il primo figlio di una coppia che prende dimora a Crema, a due passi dalla chiesa della SS. Trinità. I primi suoi giochi sono le battaglie in strada con le figure dei soldatini di carta incollate su supporti di cartone o con le cezire sulle piste tracciate nella terra battuta delle strade. Frequenta la scuola elementare di San Pietro: il nonno falegname gli costruisce un banchetto, dove passa la maggior parte del suo tempo leggendo.
Il proseguimento degli studi è d’obbligo per il primogenito della famiglia e per lui viene scelta la scuola del Seminario. Frequenta l’Istituto fino alla 4a ginnasio: ma a seguito di un colloquio col futuro cardinal Cè, sceglie di trasferirsi nel Liceo Classico Verri di Lodi.
Si iscrive alla facoltà di lettere dell’Università Cattolica di Milano; dalla fine degli anni ’60 frequenta il contesto culturale di Crema e partecipa ai movimenti studenteschi.
A Crema agli inizi degli anni ’70 organizza i primi incontri di Cineforum al cinema Vittoria di Via Mazzini. Fa conoscere agli amici della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) i rappresentanti americani della Beat generation: Jack Kerouac, Lawrence Ferlinghetti.
Tiene diverse conferenze su poeti classici e moderni che erano stati i suoi maestri.
Con l’amica pittrice Chiara Bolzoni, nel 2001 compone una cartella sulle Stazioni della Via Crucis che viene rappresentata da un amico dei tempi del Liceo di Lodi, l’attore Carlo Rivolta.
Nei primi anni del nuovo millennio pubblica tre raccolte di poesie in dialetto cremasco, poi una scelta di componimenti in italiano: Poiein.
A dicembre 2004 il Prof. Luciano Geroldi, completa la ricerca sui termini dialettali cremaschi e pubblica il Vocabolario del dialetto cremasco, (Tipolito Uggé di Bottelli Santino) che per Sacchi diviene un punto di riferimento: crede che l’edizione permetterà a tutti di approcciarsi al dialetto con una guida autorevole. Pubblica dal 2008 al 2013, per la Pro loco di Crema, la raccolta di autori cremaschi, che abbiamo conosciuto in precedenza su queste pagine.
Quando nel 2013 L. Geroldi pubblica la seconda edizione del Vocabolario aggiornato, Sacchi vi abbina la sua ricerca sui poeti dialettali cremaschi che hanno pubblicato la loro produzione: Profilo della produzione poetica contemporanea.
Dal dicembre 2016 al dicembre 2019 pubblica ogni mese sul giornale La Provincia di Cremona un inserto, per presentare il territorio cremasco: i suoi usi e costumi, i personaggi della storia e della cultura. L’ultimo articolo dedicato all’amica portavoce del dialetto cremasco, Marì Schiavini. è pubblicato il 6 dicembre 2019, pochi giorni dopo la scomparsa del Poeta.
Bibliografia
Molte sono le pubblicazioni in lingua che testimoniano la partecipazione di Carlo Alberto alla vita culturale cremasca del suo tempo: da quelle stampate in cartelle attinenti al territorio, ad altre relative agli aspetti artistici e culturali della città.
Editi riguardanti il territorio cremasco:
Poeti e prosatori dialettali cremaschi, Arti Grafiche Cremasche, Crema 1990.
Crema: magia antica, poesia moderna, Proposte, (in 99 esemplari), Crema 1993.
Musica contro il silenzio, Proposte, (in 99 esemplari), Crema 1994.
Dire, fare, rimare, Edizioni Pulcinoelefante, (in 20 esemplari), Osnago 1995.
Chant-plor, Edizioni Pulcinoelefante, (in 19 esemplari), Osnago 1995.
Via Crucis, Leva Artigrafiche, (in 99 esemplari), Crema 2001.
Favole e altre favole, Edizioni Selecta, Pavia 2002.
Pasutade (poesie nel dialetto di Crema), Edizioni Selecta, Pavia 2003.
A bizaboghe (poesie nel dialetto di Crema) Edizioni Selecta, Pavia 2006.
Collana Poeti cremaschi di ieri e di oggi: Ottomano Miglioli, Vanni Groppelli, Rosetta Marinelli Ragazzi, Fausta Donati De Conti, Giacomo Stabilini, Giuseppe Meazza, Antonio Sbarsi, Leva Artigrafiche, Crema, 2008 -2013. (presentati su Cremona Sera on line, da settembre 2024 a gennaio 2025).
Cò le ma 'n secòcia (poesie nel dialetto di Crema), Edizioni Selecta, Pavia 2009.
Profilo della produzione poetica contemporanea in dialetto cremasco, Leva Artigrafiche, Crema 2013.
Don Angelo: un vero Poeta, in Un sacerdote comunemente straordinario.
Il mondo rurale nella poesia dialettale cremasca, in… do spane da taré…, a cura di Giovanni Castagna, Centro ricerca Alfredo Galmozzi, G&G Industrie Grafiche Rossi Srl, Offanengo 2013, pp.287-292.
Dalla prefazione di Pasutade del Prof. L. Geroldi
Carlo Alberto Sacchi rivendica a sé “ na us da fèr - venada d’argént” non difficile da trovare tra “i culùr” e “le bale” della sua opera. In essa i grandi temi della solitudine, delle paure esistenziali, del colloquio con Dio, dell’amore soprattutto, sono presentati con il pudore di chi non può più rifiutarsi di mettere in pubblico quanto di più privato ha sentito urgere dentro e chiedere di venire alla luce attraverso la lacerante fatica della scrittura, insospettata per il lettore, unicamente affascinato dall’armonica leggerezza dell’esito.
Osti!, me ma sarès piazìt dalbù
fa puizìe per la Rivulusiù,
ma le paròle, lur, i’è ròbe serie
che té, gna a stünàs, i’è mia i tò bagai,
che me, gna a urì, i’è mia mai cansù.
Le paròle:
an pó culùr
e ’n pó bale.
Mioddio!, mi sarebbe piaciuto davvero/ comporre poesie per la Rivoluzione, // ma loro, le parole, sono cose tanto serie/ che per te, nemmeno ad ostinarti, non saranno mai come figlie/ che per me, neppure volendolo, non saranno mai canzoni. // Le parole: un poco colori e un poco frottole.
La poesia di Sacchi nasce dal sentimento e, pur con lo strumento del dialetto, egli la ripresenta in tutta la sua purezza, che viene trasmessa al lettore attraverso rime e assonanze. Queste accompagnano tutta la sua produzione dialettale, con un fraseggio attentamente meditato e con il testo poetico organizzato con una certa libertà.
mètes adré a scrif
l’è ‘n pó cumè mor
che a ghignàs adré
‘l basta mia mai
al cor
Mettersi a scrivere/ è un poco come morire// che a ridersi addosso/ non basta mai/ il coraggio/ di non prendersi sul serio.
A volte i luoghi reali sono d’ispirazione al Poeta, ma nella poesia divengono fantastici come in un sogno dell’inconscio.
Me só nasìt prope dentre a le müre
a du pas da ’na ceza che l’è mia
’na ceza, ’ndoma ‘n foch da fantazìa:
só nasìt vizì a ‘na specie da gioch
e só quazi ‘l fiol da ‘n gran bèl insogn.
Santatrìnita:
apena da da ché da la puizìa,
du pas apena dentre a la me Crèma.
Io sono nato proprio dentro le mura, / a due passi da una chiesa che non è/ una chiesa, ma solo un fuoco di fantasia: // Sono nato vicino ad una specie di gioco/ e sono quasi il figlio di un gran bel sogno. // SS. Trinità: appena appena al di qua della poesia, / due passi appena dentro la mia Crema.
Nella lirica dedicata al Santuario della Beata Vergine del Marzale (situato a Ripalta Vecchia, nel comune di Madignano), a cui il Poeta è particolarmente legato, Sacchi dipinge in poche parole la sua emozione nata forse dal ricordo, dalla malinconia che spesso, nei suoi componimenti, gli giunge non dall’ archivio di eventi passati, ma è un’esperienza viva, capace di rigenerare la commozione di allora.
Cezulina dal Marsàl:
umbra e vért.
Sèra i’òc
e prega con me,
cezulina da Nedàl.
Chiesetta del Marzale: / ombra e verde. // Chiudi gli occhi/ e prega con me/ chiesetta di Natale.
Le poesie del Poeta a sfondo religioso, svelano il desiderio assoluto di una divinità che lo accompagni. Sacchi, attraverso l’uso di parole inconsuete per il contesto in cui sono inserite, fa partecipe chi legge del suo profondo desiderio. La poesia si connota rivelatrice di un Dio silenzioso di fronte al suo dolore e ogni tentativo di instaurare un dialogo con Lui si scontra con la Sua indifferenza. All’autore occorre coraggio, per rivendicare la pressante richiesta.
Pò a té, Signùr, ta sét sicür ‘na rogna.
Persuna: ma ta sét mia té la me Spuza,
té che ta stét sempre a durmì da fora
e me che more col me pore cor
an gola
e sensa fa rumùr.
Té:
Paròla e Muruza.
‘na ròba apena ( a pena!) sota us.
E me che vurìe ès al tò murùs!
Anche tu, Signore, sei sicuramente un fastidio./ Persona: ma non sei tu la mia sposa, / tu che sei sempre a dormire fuori/ e io che muoio col mio povero cuore/ in gola/ e senza far rumore, // Tu: / Parola e Fidanzata. / una cosa appena (a pena) sotto voce. // E io che volevo essere il tuo amore.
Alla mancata risposta al suo intimo desiderio, il poeta non vuole darsi per vinto: quasi volesse strappare con la forza quel velo che gli impedisce di raggiungere l’immagine di cui si sente orfano da sempre.
me só bu
a ulà cuntraént:
me só ‘n sentimént:
‘na farfala
sensa spaént
Io sono capace/ di volare controvento// io sono un sentimento/ una farfalla senza spavento.
Nelle liriche delle tre raccolte: Pasutade, A bizaboghe, Cò le ma ’n secòcia, sono presenti sia la consapevolezza di un Dio assoluto, che lo sforzo di raggiungerlo. L’arte del Poeta non ottiene l’effetto desiderato; a nulla serve l’invocazione ispirata dai più intimi sentimenti. Nulla convince l’Essere a rivelarsi.
Signùr fam sunà la me müzica
’ndoma ’n mumént.
La me müzica:
’l tò niént
Signore fammi suonare la mia musica/ solo per un attimo. / La mia musica: // il tuo niente
Musica e parola non servono. Niente risponde alla preghiera del Poeta, che ritiene un errore anche la modalità scelta perché si manifesti. Sentendosi abbandonato, ritrova in sé la forza di riprendersi; pur se riconosce ormai di essere rimasto solo, abbandonato da Dio e dagli uomini. L’uso della metafora originale ed espressiva provoca sorpresa nel lettore.
‘n dal me dezèrt
ma só cercàt
e so truàt:
ültem pastór
ünica pégura
Nel mio deserto/ mi sono cercato/ e mi sono trovato: // ultimo pastore/ unica pecora
Il Poeta sa ricavare ritmo e musicalità da un dialetto definito an bröt parlà, presentandoci una serie di liriche elaborate, prodotte da un uomo di cultura, che tenta di nascondersi con continue critiche alla sua produzione poetica, o ironizzando sulle sue capacità.
La caratteristica che accomuna le tre raccolte dialettali, è la brevità delle composizioni: quasi avesse l’intenzione di focalizzare l’attenzione del lettore su poche ma coinvolgenti immagini, per far conoscere i temi già accennati nella Prefazione da L. Geroldi: la solitudine, le paure esistenziali, il colloquio con Dio e soprattutto l’amore
‘Ndà a strüs
Spacàs al müs
Scrif puizìe col büs
Ciapà tighe söi dent
Scrif puizìe da niént
Ma mantègn ‘na us da fèr
Venada d’argént
Trascinarsi/ Rompersi la faccia/ Scrivere poesie bucate// Prendere bastonate sui denti/ Scrivere cose che non valgono niente// Ma mantenere una voce di ferro/ Venata d’argento
Un altro tema poetico sono gli affetti familiari: spesso quadretti dove la fantasia corre lungo il filo della memoria, dell’ironia, della dolcezza con cui far rivivere un rapporto filiale intenso e ininterrotto.
Strameses mia, mama,
se ché ‘n Paradìs
i’àngiui i ta par an pó töi istès:
me só chèl là ‘n funt, a sinistra,
col macarù al nas
e col fiòch ros da zbiès.
Non spaventarti, mamma, / se qui in Paradiso/ gli angeli ti sembrano un po’ tutti uguali: // io sono quello là in fondo, a sinistra, / col naso sporco/ e col fiocco rosso di traverso.
E quando ripensa ai primi anni dell’infanzia, quando il presepe era costruito con povere cose, ma preparato dalle mani che lo avevano accolto alla vita, si sente fuori luogo: il mondo di oggi gli corrisponde poco. Il desiderio espresso di risentire una donna che canta, nasconde quello reale di un’ infanzia felice in cui il Bambino nasceva più volte durante l’anno.
'Na scatula da scarpe pèr capàna,
la segadüra, du pastór da gès
con le bèle pegurìne da carta
naside da le ma da la me mama:
i'era i temp che 'l Bambì 'l nasia püsé da spès.
Mia d'invèrne coi sò Nedài da plastica
Mia d'estàt coi sò culùr da cartulina
Mia da primaéra col sò vès töta 'na edrina
Mia d'aötön con le sò söche furèste
Quant alùra pudaró sent amò
al me cor che pians
o 'na dona che canta?
Una scatola da scarpe per capanna, / la segatura, due pastori di gesso/ con le belle pecorelle di carta/ nate dalle mani di mia madre: // erano i tempi in cui il Bambino nasceva più spesso. / Non in inverno/ con i suoi Natali di plastica/ Non d’ estate/ con i suoi colori da cartolina/ Non di primavera/ col suo essere tutta una vetrina// Non d' autunno con le sue zucche straniere// Quando dunque potrò sentire ancora/ il mio cuore che piange/ o una donna che canta?
Due generazioni a confronto in due poesie scritte senz’altro in tempi diversi, ma tutte e due riguardanti i giochi: quelli di un padre e quelli della figlia. Giocattoli per due generi diversi, ma l’orgoglio di lui di essere diventato un personaggio di fantasia del suo tempo, con pochi e improbabili oggetti di recupero (una scopa, una stella di latta attaccata a una bretella) si scontra con la polvere che si è ormai depositata sulle bambole, più recenti, ma ormai dimenticate. Unica consolazione per loro, lo sguardo affettuoso del padre. Non c’è metrica nelle due poesie, ma solo il fascino delle emozioni giocate sulla rimazione.
A caàl da 'na scua;
sö 'na tiraca 'na stèla
da tóla;
an secòcia 'na pistóla
(o 'na riultèla)
da lègn.
Al munt l’è ‘ncumincàt isé:
che Zòro e Robinùd sie me.
A cavallo di una scopa; / sulla bretella una stella/ di latta: / in tasca una pistola/ (o una rivoltella) / di legno. // Il mondo è incominciato così: / che Zorro e Robin Hood ero io.
Lur le bambule
i'è ròbe che pèr sò cünt
le fa bèa 'n pó senso e pena
e a me le ma zgarbia i sentimént.
Dunine da pèsa,
dunine da niént,
dunine che mor.
Chèle da me fiola,
töte rote e 'npulverente,
müscürade 'n funt ai casèt
le ma strèpa 'l cor.
Le bambole/ per loro stessa natura/ fanno un poco senso e pena/ e a me spettinano i sentimenti. // Donnine di pezza, / donnine da niente, / donnine che muoiono. // Quelle di mia figlia, / tutte rotte ed impolverate, / dimenticate in fondo ai cassetti, / mi strappano l’anima.
Nei suoi testi Sacchi esamina una questione esistenziale sulla quale, pochi tra i comuni mortali, hanno il coraggio di riflettere. In questo scritto egli si sofferma sulla descrizione della propria morte, con l’atteggiamento scherzoso di chi, in questo modo, cerca di esorcizzare la propria paura. Avvertendoci che è solo un sogno di fantasia di un bambino – poeta.
Fantazìe e sogn da bagai:
-só mia gnamò marüt!-
me ma pias
fügüràs i me fünerai.
Al catafàlch fora da la ceza dal Marsàl;
la me muruza ècia che la fa gna ‘na gosa,
ma che la fa finta da turmentà ‘l scusàl;
me nono ‘Ngialì che ‘l canta sota us
-per fam mia zghilì- “Bandiera Rósa”;
i me bagai da scola che i sghignasa
‘ntant che i lès ‘na puizìa ‘n dialèt;
me fiola che dis “ciao, papà” a us basa;
la me dona che la ‘mpesa ‘n lümì
per fam mia pö sent ‘l stramese e ‘l frèt;
e me che sa carèse la me crapa da mòrt
e che sa na fréghe finalmént
da töi i cuiù che i m’a fat dintòrt.
Fantasie e sogni da adolescente: / -io non sono ancora maturato!- / mi piace/ immaginarmi/ i miei funerali. // Il catafalco fuori dalla chiesa del Marzale; / la mia vecchia morosa che non ha una lacrima, / ma finge di tormentare la gonna; / mio nonno Angelo che canta sottovoce/- per non farmi piangere- “Bandiera Rossa”; // i miei alunni che sghignazzano, / intanto che leggono una poesia in dialetto; / mia figlia che mi dice “ciao, papà” a bassa voce; / la mia donna che accende un cero/ per non farmi più patire il terrore e il freddo; // e io che mi accarezzo il teschio/ e che finalmente non mi preoccupo più/ degli sciocchi che mi hanno fatto dei torti.
Sacchi, attento osservatore, coglie i segni e i cambiamenti in cui la natura e la vita ci coinvolgono e da poeta offre al lettore le sue esperienze visive e uditive: se si osserva, se si ascolta, la natura sa sorprendere e aprire sentieri inaspettati da percorrere.
An pó da sul
pò pióf söi vedre
e 'n udùr sütìl
'l è töt chel che rèsta.
Cumè con té
che -dopo-
g’o quazi 'l saùr tenèr
dal mal da tèsta.
Un poco di sole / poi piove sui vetri un odore sottile/ è tutto quello che resta. // Come con te/ che –dopo- ho quasi il sapore tenero/ del mal di testa.
Dentre da me
spès sa lea
an vul da rundane
E saì mia
'ndu le à
E pudì mia
fa a meno
da salüdale
coi gusù a i'òc
e con töte e dó le ma.
Dentro di me/ spesso si leva/ un volo di rondini/ E non sapere dove vadano// E non poter/ fare a meno/ di salutarle// con le lacrime agli occhi/ e con entrambe le mani.
'N dal seré dal cel
g’o ardàt da i’ure
a 'n nigulòt ciàr,
finchè 'l s’è dislenguàt
a pià a pià
e sensa fa mastì.
Cumé 'l me cor
an dal funt dala ment.
Nel sereno del cielo/ ho fissato per ore/ una piccola nube bianca, / finché non si è sciolta, / piano piano/ e senza far rumore. // Come il mio cuore/ nel profondo della mente.
Prope iér
söl me balcù
'na spera da sul
la m’è s’ciupada
'n dal bicér.
A vif con òc
da puizia,
che argogna!
che emusiù!
e che spaént!
Perchè mai
le ròbe püsé bèle
i'è fate da nigota
e le düra 'ndoma
'n quai mumént?
Proprio ieri, / sul mio balcone/ un raggio di sole/ mi è scoppiato/ nel bicchiere. // A vivere con occhi di poesia, / che vergogna! / che emozione! / e che spavento! // Perché mai/ le cose più belle/ hanno la consistenza del nulla// e durano solo/ pochi istanti?
L’ambiente malato, la società che non tiene conto della sofferenza degli esseri umani, le persone emarginate, sono per il Poeta non solo da soccorrere, ma da rispettare, da amare.
L’ è asé ‘na sasada
o ‘nquai ratì
pèr fa amò ciara
dentre da me
l’aqua malada
dal me Sère
e amò verda
chèla stünada
da la me Ada.
Bastano un lancio/ o qualche rimbalzino di sassi/ a far ancora limpida/ dentro di me/ l’ acqua del mio Serio// e ancora verde/ quella ostinata della mia Adda.
Mè g’o fat an temp
a giugà a bala
zo ’n piasèta,
a ’nda a rane
’n mès a vui da spuze
e da farfale.
E ’l so perché
le ròbe le paria
isé bèle:
sie ’n bagai
e i me òc ciàr
i vedia gnamò
che me e ’l Treacù
siem bèa adré
a mor.
Io ho fatto in tempo/ a giocare a palla/ giù nella piazzetta, / ad andar a cercar rane/ in mezzo ai voli delle libellule/ e delle farfalle. // E so perché tutto mi sembrava/ così bello: / ero bambino/ e i miei occhi limpidi/ non vedevano ancora/ che io e il mio Cresmiero/ stavamo già/ morendo.
Sacchi avverte un’intima sensibilità con gli emarginati della società, un’apertura affettiva al prossimo sofferente, quasi che vivere di poesia non sia il motivo sufficiente per chiudere gli occhi sulla realtà, dove la povertà, il disagio, le disuguaglianze, sono state e sono le situazioni presenti da sempre, anche nell’ambiente dove ha trascorso tutta la sua vita. L’umiliazione di essere testimone di queste condizioni, nasce nell’avvertire dentro di sé l’impotenza del poeta di farsi ascoltare, in un mondo in cui si è perso il senso del rispetto della vita altrui.
Daànti al cimitere
an bel nigrì
-gusù a i'òc
e macarù al nas-
cò 'na manina al batia
e cò l’altra 'l cantaa.
'L éra 'ndoma
'l me cor
che 'l zghilìa.
Bisògn da carità.
Davanti al cimitero/ un bel negretto/ ‒ lacrimoni agli occhi/ e moccio al naso ‒ / con una manina chiedeva l’elemosina/ e con l’altra cantava. // Era solo/ il mio cuore/ che strillava. // Bisogno di carità.
La me Crèma la g’a pö le sò stagiù,
sa sent mia pö
le mame che ai sò bagai
le ga canta 'na cansù.
Ma 'na nigrina da quindes an
la ga cünta 'na pastòcia
al sò s-ciatì amò 'n fase,
pròpe lé, ’n funt a via Valera.
Le paròle, me mia le capese,
capese 'ndoma
che a Crèma, finalmént,
gh’è ignìt andré la primaéra.
La mia Crema non ha più le sue stagioni: / non si sentono più/ le mamme che ai loro bambini/ cantano la ninna-nanna. // Ma un’africanina di quindici anni/ racconta una fiaba al figlioletto/ ancora in fasce, proprio lì, in fondo a via Valera. / Le parole io non le capisco, / capisco solo/ che a Crema, finalmente, / è tornata la primavera.
’N funt a la strada:
la èsta tròp cürta,
la eta zbedanada,
quatre dit gròs da uc
sö i òc e pò söl cor,
la òia da lasà pèrt,
la òia da lasàs mor
’n funt a la strada.
Ma cuma fet a dì
(dal büdèl ’ndu i l’a casada?
da le mizüre da la sutana?)
che lé l’è mia ’na dona,
ma ’ndoma ’na pütana?
In fondo alla strada: / la gonna troppo corta, / la vita discinta, / quattro grosse dita di unto / sugli occhi e sul cuore, / la voglia di lasciar perdere, / la voglia di lasciarsi morire/ in fondo alla strada. // Ma come puoi dire/ (dal vicolo dove l’hanno confinata? / dalle misure della sottana?) / che lei non è donna, / ma solo una puttana?
Le poesie dell’Autore sono un racconto autobiografico, ma anche un invito per i lettori a ricercare nella propria esistenza gli eventi che sono stati le loro conquiste, che hanno resa la loro storia unica e irripetibile.
Le me stagiù:
chèle dal fàs vèt,
püsé che dal crès.
A ses an
la biciclèta (sota cana),
rubada a me padre.
A quindes an
la sigarèta (ma sensa filtro),
rubada a 'nquai amìs.
A vint an
la muruzèta (sö e zo pèr Crèma),
rubada 'n quai cantù.
A quarant’an
la Güsi (gròsa e frecasuna)
rubada a le me emusiù.
Adès
le puizie
(töte col büs
e rubade
töte dalbù).
Le mie stagioni: / il mettersi in mostra/ più che maturare. // A sei anni la bicicletta (sotto canna), / rubata a mio padre. // A quindici anni/ la sigaretta (rigorosamente senza filtro), rubata a qualche amico. // A vent’anni / la fidanzatina (su e giù per Crema), / rubata da qualche parte. // A quarant’ anni/ la Guzzi (grossa e fracassona), rubata alle mie emozioni. // Ora/ le poesie, (tutte senza senso/ e rubate/ tutte/ davvero).
Sacchi narra se stesso, i suoi dubbi, le sue incertezze attraverso una poesia caratterizzata da un senso estetico che trasmette ai testi una personale competenza teorica, in correlazione con una consolidata formazione letteraria.
Mèt
Da ès an angel
O na farfala
O 'n bigol da ent.
Mèt
Da ès an òm
O 'n’umbra
O magari 'n sentimént.
Mèt
Da ès mia pö té
Da ès mia pö gna i tò dulùr
Da ès mia pö gna i tò spaént.
Mèt
Da ès...
Mèt, Bèrto...
... fa niént!
Supponi/ Di essere un angelo/ O una farfalla/ O un refolo di vento. // Supponi/ Di essere un uomo/ O un’ombra/ O magari un sentimento. // Supponi/ Di non essere più tu/ Di non essere più nemmeno/ i tuoi dolori, / Di non essere più nemmeno le tue paure. // Supponi/ Di essere… // Supponi, Berto… // … fa niente!
A sesant’an
se ma é 'l magù
sa ransègne sö 'na cadréga.
A òc seràt
e cò le ma 'n secòcia
vède amò me mama
che la ma cünta
l’ültima pastòcia.
A sessant’anni/ quando mi prende la malinconia/ mi rannicchio su una sedia. // A occhi chiusi/ e con le mani in tasca/ vedo ancora mia mamma// che mi racconta/ l’ultima favola.
Il Poeta porta all’interno della tradizione poetica dialettale cremasca, così tenacemente ancorata alla piccola patria, incapace di condividere le innovazioni della grande poesia novecentesca, il dubbio, la propria personale crisi spirituale e il frutto della sua ricerca espressiva.
A bizaboghe
‘n biciclèta fina ’l Marsàl.
Viàc lunch
andré ’ndal temp:
’ndu siem stamatina
s’è masàt
an sach da zent,
ma sota la tersa pianta
me t’o bazàt
sensa dì niént.
Viàc lunch,
viàc d’argént.
Vagando/ in bicicletta fino al Marzale: / Viaggio lungo, / indietro nel tempo: // dove siamo stati stamattina/ si è ammazzata/ moltissima gente, // ma sotto la terza pianta/ io ti ho baciata/ senza dire una parola. // Viaggio lungo, / viaggio d’argento.
Sacchi riprende anche nella pubblicazione Cò le ma ’n secòcia il tema della morte, della propria morte, non più col fare ironico che ha usato in Pasutade, ma con una richiesta di aiuto per affrontare il passo ineluttabile, che tutti attende: anche lui chiede soccorso all’Amore, alla semplicità e alla dignità.
Me,
quant che me
ma tucarà da mor,
me
ore ’na ròba sula:
’na gosa
’na gosa apena
di tò òc vért,
sé!:
quant che me
ma tucarà da mor
nüt
sö ’n lèt da fior.
Quando mi/ toccherà morire, / vorrò una cosa sola: // una lacrima, / una lacrima appena/ dei tuoi occhi verdi, // sì: / quando mi toccherà di morire, // nudo / su un letto di fiori.
Ma la morte diventa anche la paura del dolore, del buio, del suo sopraggiungere improvviso, l’attimo in cui, senza l’aiuto di nessuno, terminerà l’esistenza. Ora, il Poeta, lucidamente, immagina l’attimo di come e dove accadrà.
Òia da cumpatìs.
Me
i ma purtarà sö
‘n quai manera:
d’invèrne,
da sera,
‘mpiastràt
adré a la strada
cumè la éta,
cumè ’na lüzèrta
müscürada.
Voglia di autocommiserazione. // Io verrò sepolto frettolosamente, / in inverno/ una sera, / spiaccicato/ sulla strada, / come la vita, / come una lucertola/ dimenticata.
Pensandoci bene, dice Sacchi, tutte le cose terrene: le bellezze della natura, l’amore di chi ho avuto accanto, la creatività della scrittura non avranno la capacità di comprendermi. Solo la morte e Dio, avranno il privilegio di capirmi: perché, si chiede, non sono forse la stessa cosa?.
Me, ’n funt an funt, i è mia tanti i laùr
che pol tom zo dalbù le me müzüre.
E mia sücüramént ’na quai puizia
e gna ’l culùr da i òc da la me dona.
A me che i pol tom zo le me müzüre
i è la mort e pò tè, car al me Signùr
che, ’n funt an funt, sif mia la stèsa roba?
Fondamentalmente/ non sono tante le cose/ che mi possono capire. / E non sicuramente qualche poesia/ e nemmeno il colore degli occhi della mia donna. / Le cose che mi possono conoscere/ sono la morte e anche Tu, mio Dio// visto che, alla fine, siete la stessa cosa?
Quando il Poeta sogna, la sua immaginazione lo trasporta al di là del reale: lo aiuta ad abbandonarlo, lo fa divenire spirito e in questa nuova essenza si diverte a raddrizzare le storture degli uomini. I miracoli sono il momento culminante dell’esaltazione. E in quel momento ne avviene uno, di cui lui non è artefice, ma è destinato a lui: lo sguardo della sua donna che lo scruta in questa sua impresa ultraterrena.
Ròbe da mat.
So ’nsugnàt
che sie me ’l Signùr.
Töi lé a lecàm
Söl müs
E amò püsé
’l dadré.
E me a bòt
a fa miracui:
ma che bèle ròbe
’ndrisaga i pé ai sop
e ai gop tiraga sö le gobe!
Ròbe da mat:
ma ’l miràcol püsé gros
i ’l era bèa fat:
i è i òc da la me dona
che i ma mor adòs.
Cose da pazzi. / Ho sognato di essere Dio. // Tutti ad adularmi, / in faccia/ e spesso alle spalle. // E io ero impegnatissimo/ a compiere miracoli: // ma che bello/ raddrizzare i piedi agli zoppi / e ai gobbi lisciare le schiene! // Cose da pazzi. / ma il miracolo più importante/ già era stato fatto: / erano gli occhi della mia donna/ che mi muoiono addosso.
E concludo con un’altra poesia dedicata da Carlo Alberto Sacchi al suo amore per il dialetto cremasco, al quale muove un rimprovero per lui esistenziale: quello di non essere riuscito a introdurre nel linguaggio parlato la parola pace.
Cuma fó a uriga bé dalbù
e dal töt
al me dialèt?
…
Ma cuma fal lü
a iga la parola “guèra”
e mia mai al sò cuntrare?
Come posso amare davvero/ e senza riserve/ il mio dialetto? // Ma come fa lui/ a contemplare la parola “guerra” e mai il suo contrario?
Nelle foto tre libri di poesie di Carlo Alberto Sacchi, Alberto e e lui da giovane
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commenti
luciana groppelli
6 marzo 2025 15:46
Leggo e rileggo le poesie in dialetto cremasco di C.A.Sacchi e all'improvviso il dialetto cremasco mi sembra più efficace, più espressivo... più bello della mia amata lingua italiana.Dentro ci sono la sua religione, la sua filosofia, la sua storia, le sue emozio