17 novembre 2021

50 anni dopo, una lettera anonima alla Provincia svelò i segreti sui "martiri di Belfiore"

Nel 1903 l'unità d'Italia aveva poco più di 40 anni, negli Stati Uniti nasceva la Pepsi Cola, a Cremona la giovanissima Us Cremonese non aveva ancora spento la prima candelina quando, a dicembre, il direttore del giornale La Provincia di Cremona, Ettore Sacchi, riceveva in redazione una lettera anonima. La missiva raccontava una storia oggi completamente dimenticata ma che allora faceva ancora molto discutere, quella di quei patrioti e martiri che, a cavallo tra il 1851 e il 1855, vennero giustiziati dall'esercito austriaco principalmente nella spianata di Belfiore a Mantova.

Siamo nel pieno Risorgimento italiano, i moti rivoluzionari vengono soppressi in maniera feroce dall'esercito di occupazione austriaco comandato dal generale Radetzky in collaborazione con la polizia austro-italiana, i processi si basano su supposizioni, prove inventate, torture di vario genere, le condanne a morte si sprecano per coloro considerati colpevoli di aver tentato di rovesciare l'occupazione austriaca in Italia. Da quel periodo convulso e terribile nasce quella lettera che rappresentava una sorta di j'accuse verso le illazioni di allora sul ruolo di alcuni patrioti che, molto semplicemente, pareva avessero preferito dire nome e cognome dei congiurati piuttosto che finire sul patibolo.

Lo j'accuse scritto da un anonimo cittadino cremonese parte dalla sua storia personale, ovvero quella del suo arresto con l'accusa di far parte dei moti rivoluzionari, del suo trasferimento con i gendarmi verso il carcere e dell'assalto da parte di altri cittadini e combattenti alla scorta armata che determinò la fuga del cremonese al posto del sicuro plotone d'esecuzione. Lo scrivente fa riferimenti precisi su chi preferì la forca alla libertà, citando anche il suo incontro a Cremona nel 1851 con il milanese Giovanni Pezzotti, ai tempi figura di primo piano del Risorgimento in Lombardia, il quale, arrestato il 25 giugno del 1852 dall'esercito austriaco, preferì suicidarsi in carcere la notte stessa piuttosto che rischiare di fare i nomi di altri congiurati.

L'anonimo narratore di queste vicende spiega con molta chiarezza che, durante il loro incontro segreto nella città del Torrazzo, Pezzotti gli aveva confidato di sentirsi addosso la pressione della polizia austriaca ma che, in caso di arresto, lui all'interrogatorio non ci sarebbe mai arrivato, mantenendo un anno dopo la parola data. Tra le righe scritte con calma ma precisione e destinate al direttore Sacchi compare invece il nome del pavese Luigi Castellazzo il quale, secondo lo scritto anonimo, una volta arrestato non avrebbe fatto la stessa scelta di Pezzotti scampando al patibolo ma condannando don Enrico Tazzoli e altri al loro ultimo viaggio verso la spianata di Belfiore, luogo destinato all'impiccagione dei condannati.

Don Enrico Tazzoli, nato a Canneto sull'Oglio, è stato uno dei religiosi che si sono sacrificati senza batter ciglio e senza aprire bocca per l'indipendenza italiana, oltre a lui anche Bartolomeo Grazioli, nato nella odierna Fontanella Grazioli e Giovanni Grioli finirono i loro giorni per mano di un processo con condanna a morte nonostante l'abito talare che indossavano.

Da secoli il metodo migliore per scoperchiare una rete clandestina è quello della delazione, per ottenerla esistono vari modi più o meno efficaci ma, purtroppo anche ai nostri giorni, la tortura è ancora molto diffusa e a metà del XIX secolo gli austriaci non lesinavano trattamenti di ogni tipo ai sospettati. I metodi usati dalla polizia segreta austriaca per dipanare la matassa dei moti indipendentisti italiani erano tristemente variegati, un centinaio di colpi di bastone per fratturare qualche osso e poi frustate sulle ecchimosi per creare ancora più dolore sulle parti già doloranti oppure sevizie fisiche e psicologiche di vario tipo. Con Enrico Tazzoli il giudice Alfred Von Kraus decise di usare metodi più sottili, verosimilmente a tutela almeno formale dell'abito religioso oltre che alla necessità di portare al tradimento uno dei più acuti cervelli della ribellione italiana. La conferma dell'acume del religioso arrivò con la perquisizione dell'abitazione di Tazzoli che fece venire alla luce, tra gli oggetti sequestrati, dei registri con nomi e fatti i quali, grazie alla brillante intelligenza del patriota, non potevano venire letti se non grazie alla chiave di decriptazione nascosta tra le righe della versione latina del Padre Nostro; in pratica don Tazzoli aveva sviluppato una sorta di cifrario militare complesso un secolo prima di quello utilizzato dalla marina tedesca nel secondo conflitto mondiale.

La chiave del codice e della congiura era, secondo la polizia segreta, proprio Enrico Tazzoli il quale venne sottoposto a continue ingestioni di liquidi estratti dalle bacche di belladonna, pianta già nota ai tempi per i potenti effetti allucinogeni. Quando le allucinazioni non portarono a nulla di fruttifero per le indagini il prete venne percosso violentemente senza, però, dare nessun aiuto ai torturatori. Accusato di tradimento accettò la condanna senza cercare la grazia o una riduzione della pena, venendo giustiziato, a Belfiore insieme a Angelo Scarsellini, Carlo Poma, Bernardo Canal e Giovanni Zambelli il 7 dicembre 1852. A Enrico Tazzoli la Marina Militare dedicò il sommergile Tazzoli, battello tra i più rinomati della Marina durante la Seconda Guerra Mondiale poi scomparso nel Mediterraneo nel maggio 1943 per poi, nel dopoguerra, dedicare una intera classe di natanti al patriota cannetese.

Marco Bragazzi


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