23 gennaio 2025

Il viaggio di Edith Templeton, una cinica donna emancipata per le strade di Cremona (piena di difetti) nel 1953. La passeggiata sotto la pioggia di Hermann Hesse. Due descrizioni, una sola città

Era già accaduto con Hermann Hesse, nel suo viaggio a Cremona nel 1913, quando visse sulla sua pelle una romantica esperienza notturna della città. Dopo avere preso alloggio serale in vicolo Bella Flora (l'attuale via Bordigallo) all’Astoria e dopo avere cenato con zuppa e trota del Garda, il poeta tedesco è uscito per visitare una Cremona diversa ma ben nota a molti cremonesi. La Cremona del buio e della pioggia, nei vicoli silenziosi del centro, in un orario improbabile tra la sera e la notte, un orario per pochi, in una città che sonnecchia anche oggi, figuriamoci nel 1913.

Voglio immaginare che giungendo la sera e cenando tardi sia uscito verso le ore 23. Le parole di Hesse nella città che dorme: “Mi imbattei in una piazzetta tranquilla sussurrante sotto la pioggia e con un bel loggiato. Chiuso l’ombrello prosegui contento sotto il portico, attraversai con un balzo il vicolo trasversale immerso nel buio e raggiunsi una poderosa scalinata di pietra…“. Hesse sta camminando quindi in piazza Cavour (ora piazza Stradivari) sotto i portici e scavalca via Baldesio per entrare in Cortile Federico II dalla scalinata posta a lato di piazza Stradivari.

Mi trovai eccitato e impaziente all’interno di un edificio imponente - ha continuato a raccontare Hesse - attraversai un androne a volte e varcato un cortile fui in un secondo androne dove pilastri possenti si rispecchiavano all’esterno in una piazza bagnata di pioggia. Uscii allo scoperto, alzai gli occhi stupefatto e con un unico sguardo smarrito vidi aprirsi davanti a me la piazza del Duomo, un quadro architettonico straordinariamente bello e ardito. Al di sopra della piccola piazza si stagliava prepotente la facciata del Duomo debolmente rischiarata, splendida per equilibrio ed autosufficienza. Sopra il grande portale un gruppo scultoreo indistinto ed un bellissimo gigantesco rosone, di lato due agili eleganti teorie di archi piccoli a tutto tondo poggianti su colonnette esili e gentili, più in alto, come a sottolineare la linea del frontone, due ardite volute vuote. L’insieme si presenta all’improvviso all’occhio, pieno di musica e preziosa armonia e poco discosta una torre incredibilmente elevata si proietta orgogliosa e quasi spaventevole verso l’alto, smarrendo nella notte le delicate gallerie a colonnine. Me ne stetti sotto la pioggia ad assorbire quella visione stupefacente, estasiato e sconvolto dalla grandiosità e arditezza quasi insolenti di questo complesso…”.

Ricordiamoci di questa fantastica descrizione del Duomo, sono passati 100 anni e ancora al buio e sotto la pioggia la impressione è la stessa che Hess ha saputo descrivere così bene nel 1913. Poi sono passati 40 anni, le due guerre mondiali hanno scosso la società, ma nella sua bellezza la piazza descritta così poeticamente da Hesse è intatta. È il 1953, è già arrivata la primavera, ormai si festeggia la Pasqua.

Una salace scrittrice boema di mezza età,  Edith Templeton, fa una descrizione della Piazza totalmente diversa da quella di 40 anni prima. Una descrizione persino errata, sia dal punto di vista storico che da quello artistico, ma per metterla in contrapposizione con quella di Hesse preferisco proporla subito, rimandando a dopo tutto il resto: “Penso che ora andrò a dare una occhiata alla cattedrale. Attraverso una stradina che porta alla piazza che è già pervasa da quella sonnolenza che circonda tutte le chiese. Esco alla luce del sole e li c’è la piazza e la famosa cattedrale addobbata di piccioni, mendicanti e venditori di fiori. Una cattedrale a strisce rosa e gialle e scintillante, con file di delicate colonnette disposte in galleria bianche, che sembrano impedirle di sporgere, come i lacci di un corsetto. Ci cammino lentamente intorno e sul retro non c’è molto abbellimento, i muri sono di mattoni semplici e rattoppati con pietra grigia in molti punti. Qui dietro le gallerie hanno ceduto e c’è solo una fila di quelle colonnette bianche. La cattedrale si è estesa in enormi rigonfiamenti arrotondati. Queste absidi sembrano forti ed aggressive ed è questa la vera cattedrale, la fortezza di Dio…”

La scrittrice Boema sta guardando nel 1953 le absidi da Largo Boccaccino, quelle che 20 anni prima sono state separate dalla vecchia Canonica seguendo il piano Lanfranchi che fu proposto esattamente nel 1913 con l’opuscolo “Pro isolamento Duomo”.

“Torno ancora sul davanti e resto abbagliata dalla civettuola esibizione delle snelle gallerie e da santi bianchi e da frontoni curvi come seni di cigno che brillano bianchi sopra il portale - continua la Templeton -, chiaramente incollati durante il Barocco come un ripensamento. Mi piacciono o no quei seni di cigno? Non lo so. So che ho voglia di un caffè. Mi siedo al bar dalla altra parte della piazza e cerco di chiarirmi le idee. La cattedrale è opprimente e tutta sbagliata. È iniziata come un onesto mattone a strisce rosa e gialle, ma più tardi ha preso idee e ha messo tutti quei fronzoli bianchi. Ti mette a disagio. Più la guardo, più vedo la cattedrale come una donna di campagna che vuole farsi bella prima di andare in città e ha messo una camelia bianca sul risvolto del suo cappotto ruvido di tweed color melange e crede di essere presentabile…”.

Innanzitutto mi scuso se la traduzione può risultare avventata, forse può peccare di errori, ma non esiste una traduzione originale in lingua italiana. Basta però per fare capire quanto le due descrizioni dello stesso identico monumento abbiano mostrato idee, pensieri e termini diversi nelle emozioni colte dalle osservazioni separate da quarant'anni e due guerre mondiali.

Già a questo punto, un cremonese campanilista ha certamente bollato la seconda descrizione come di cattivo gusto, antipatica, eccessiva. Come dargli torto? Ma chi la sta scrivendo, seduta al suo tavolino del bar della piazza e che parlerà poi mezz’ora col cameriere, è Louise Walbrook anzi no, quello è il suo pseudonimo per scrivere romanzi erotici. In realtà il suo vero nome era Edith Passerovà, o Pole a seconda delle fonti, nata a Praga nel 1916. Ma neanche questo nome dirà molto di lei poiché dopo avere sposato un inglese, diverrà quella che oggi conosciamo come Edith Templeton.

Louise Walbrook è il nome dello pseudonimo per scrivere Gordon, dove la protagonista è appunto Louisa. Gordon è un romanzo autobiografico scabroso. D'altronde Edith dichiara di avere avuto due mariti e cinquanta amanti e dice di essersi “prostituita” più volte convivendo con uomini benestanti, "dopotutto uno che vuole scrivere e vivere davvero deve fare di tutto pur di non lavorare in ufficio o in fabbrica” spiega.

È una donna libera che parla da donna libera negli anni '50. Una donna bella che ha viaggiato, una romanziera. Una donna che anni dopo dirà che “le donne sono come i denti, alcune tremano e non cadono mai, altre cadono ma senza tremare”. Ma Edith Templeton è anche la Donna (con la D maiuscola) che giunge da sola a Cremona, nella primavera del 1953, e che scrive un libro di viaggio audace e leggero che pubblica nel 1954 in lingua inglese e che intitola "The Surprise of Cremona".

Edith non è affatto cortese verso Cremona ma la cita in circa 60 pagine di un libro che ha come sottotitolo “One woman’s adventures in Cremona, Parma, Mantua, Ravenna, Urbino and Arezzo “ (L'avventura di una donna a Cremona, Parma, Mantova, Ravenna, Urbino e Arezzo).

Ma come? Questa città noiosa e provinciale che avrà di meglio delle altre cinque citate? Forse conviene che scendiamo nel campo dell'analisi per certi versi anche ironica, cinica, e distaccata che la Templeton fa della nostra amata città. Edith usa nomi di fantasia per luoghi e persone, ma non per i luoghi che descrivono l’ambiente cittadino, quanto per i locali che lei frequenta nel suo soggiorno di pochi giorni in città durante la Pasqua del 1953.

La romanziera dice aver preso alloggio in un albergo di seconda categoria denominato "Bristol" e ironizza sul tragitto dalla Stazione del treno all'hotel: “Prima che tu col taxi possa prendere una buona velocità e divertirti, la corsa finisce”. Poco dopo il suo arrivo in camera scrive che "molto vicino all’hotel, la strada buia e silenziosa si apre in una più ampia che confina con i giardini pubblici. Sono uno spettacolo triste, con piante magre ingrigite dalla polvere e un laghetto sporco, sormontato da un lato da una disposizione di rocce artificiali e ravvivato da un paio di anatre selvatiche che scivolano sotto i rami penzolanti di un salice piangente. Sembrano cinesi. Vicino all’ entrata, accanto ad una bancarella, c’è un asino bardato con redini foderate di scarlatto e in borchie di ottone, attaccato ad un carretto. Il custode mi dice che l’asino viene usato per un giro dei bimbi nel giardino ad un prezzo di trenta lire a corsa…”.

La Templeton parla poi col custode e ironizza su tutto, e da qui parte poi per la Cattedrale, come scritto sopra, probabilmente arrivando da via Solferino. È abbastanza ovvio che il “Bristol” sia in realtà l’albergo Roma di Via Manzoni che era ubicato al civico numero 3, e che ora è un palazzo in stile liberty con un'entrata che ancora lascia immaginare come fosse l'ingresso dell’albergo nel 1950.

Edith, seduta al bar della piazza Duomo, fa una lunga descrizione della professionalità dei camerieri italiani. Diciamo che le descrizioni del condimento dell'insalata in Italia, quella preparata dai camerieri, è un piccolo trattato di culinaria: "… ed ecco la tua insalata, luccicante del liscio olio italiano, che quando va giu ti scorre lungo la gola come un nastro di raso argentato…”. Vi è anche un'idea del costume e dei modi di una bella Italia che non c’è piu, infatti “il cameriere italiano ti restituisce la più rara qualità umana, il senso della dignità. Ti darà sempre un tavolo tutto per te e non si aspetterà mai che tu ti accalchi con altri ospiti. Non oserà mai portarti il conto se non glielo hai chiesto. Se ne hai voglia puoi sederti in un bar fino a tarda notte, mentre i tavoli attorno a te saranno pieni di sedie impilate e le tovaglie piegate e portate dentro, ma non ti verrà mai chiesto di andartene”.

Al cameriere, dopo lunghe chiacchere, la Templeton chiederà informazioni per raggiungere "the lombard mail", verosimilmente la redazione de "La Provincia". Qui chiederà informazioni storiche e le consiglieranno di contattare il professor Gualazzini, nome originale finalmente. Edith si ferma fra un gruppo di uomini davanti a un'edicola e chiede informazioni per pranzare, e qui ritornano gli pseudonimi usati dalla scrittrice, che dopo aver ricevuto una risposta si incammina verso la “Padovana”, verosimilmente la "Mantovana” in zona S. Agata. Qui la Templeton incontra il proprietario della trattoria, che altri non è se non uno degli uomini incontrati poco prima all'edicola. Le viene proposta della coppa e qui risultano formidabili le descrizioni culinarie che ritornano e che ritorneranno ancora.

"Cos’è la coppa? - ha chiesto la scrittrice - Voglio vedere con i miei occhi, mi porta su un tagliere la metà inferiore di una salsiccia dall’aspetto incantevole, con un esterno coriaceo e una faccia grande quanto un piattino. Un minuto dopo la serve, tagliata a fette sottili, quasi trasparenti, color cremisi intenso, marmorizzata di lardo lucido e bianco. Ha un sapore simile al prosciutto crudo stagionato ma un sentore più robusto”. Descrive poi il pane asserendo che sia presentato in forme zoologiche nei suoi contorni, con una pasta cedevole come l'argilla e una crosta sottile, fragile e gialla, tanto che si sfalda al tocco.

Nel tardo pomeriggio Edith tenta di incontrare il professor Gualazzini andando alla sua abitazione in Via Bertesi. La descrizione della via è molto intima e riconduce all'infanzia della narratrice, ma il professor Gualazzini non è in casa ed Edith rimanda al giorno dopo.

La mattina seguente la turista viaggiatrice visita distrattamente alcune chiese e riceve l’invito di Gualazzini per le 17. Sempre la mattina si ferma per un caffè in un bar “di fronte Palazzo Trecchi”. Qui parte la descrizione dell’esercente piacione e siciliano che la serve direttamente e “ci prova”. Nel pomeriggio Edith incontra Ugo Gualazzini alla biblioteca del Museo, quindi seguono pagine e pagine di narrazione storica di Cremona dal tempo dei romani fino all'unità d'Italia 

La sera, la nostra “antipatica” narratrice, si diletta a descrivere la cena alla “Padovana”. La descrizione del cibo è quasi alla Ugo, non Gualazzini ma Tognazzi: "Inizio la cena con una insalata di finocchi, si tratta di un ortaggio verdebiancastro, avvolto in strati che si sovrappongono come tegole di un tetto. Germoglia in cima con 4 steli che portano foglie scure di verde, delicate come piume. Solo la parte rotonda viene mangiata, bollita o cruda, affettata oppure condita con olio aceto. Ha un sapore fresco, pulito e nocciolato. Dopo che ho finito l’insalata appare il padrone spingendo verso di me un carrello: arrivo, lo vedo e sono conquistata.

Si chiama bollito misto ed è il fratello del più noto fritto misto. Ma mentre il fritto misto è dorato-asciutto-increspato-croccante, il bollito è argenteo-acquoso-liscio. Chi può dire quale dei due sia più glorioso? Dipende dal proprio umore e vanno presi come il sole l’uno e la luna l’altro. Il proprietario mi taglia una fetta di lingua bollita, una fettina di pollo bollito, un pezzo di manzo bollito, mezza nocca di vitello bollito, una fetta di salsiccia grande bollita. Ci sono due salse, una verde ed una rossa ma non mi chiede quale delle due vorrei, sa che le vorrò entrambe. La salsa verde è un'allettante miscela di erbe aromatiche, lisciata con olio e insaporita con aceto, mentre la salsa rossa ha una consistenza uniforme e densa e non può essere analizzata facilmente, ecco la ricetta che mi ha detto il proprietario: tritate uno scalogno e fatelo soffriggere in olio finchè non diventa rosso poi aggiungete pomodori freschi e carote tritate e burro e fate andare per 20 minuti, infine aggiungete peperoni rossi freschi tritati e fate cuocere altri 10 minuti. Per chi non si lascia conquistare da nessuna delle due salse, c’è una scelta pittoresca chiamata "la senape di Cremona". Si tratta di un piatto di frutta candita in sciroppo a cui si aggiunge pepe e senape, e serve come spezia dolce per carni delicate e le incendia, in modo fresco e delizioso come la luce della luna che brucia sull’acqua. Il frutto è luminoso e trasparente come pietre preziose. Me ne viene dato un piatto pieno. Ci sono diverse ciliegie, irregolarmente arrotondate come coralli antichi, una pera verde delle dimensioni di una noce con i semi neri che brillano come onice, una pera più grande del color del quarzo rosa, un fico verde torbido come uno smeraldo imperfetto e una striscia curva di zucca marrone rossastro e venata come crisoprasio. C'è anche la metà di una albicocca che potrebbe essere scolpita come un topazio. Sono perfino troppo splendidi per essere mangiati. Prima di iniziare rifletto sulla loro sfarzosa varietà di colori e arrivo alla conclusione che i colori della senape cremonese sono quelli che si trovano nei dipinti veronesi. È un piatto estremamente raffinato, barocco, dolce, corposo, frizzante e luminoso. La vita è bella!“.

Il giorno dopo Edith incontra un amico che parla inglese come lei e che la porta a visitare S.Agata,  palazzo “Fodri” e Raimondi. La sera un invito ad una festa musicale dove incontra donne e uomini dell'aristocrazia locale che, dalla descrizione fatta, non devono poi essere simpatici, ma d'altronde chi può essere simpatico a questa Donna emancipata ma dai gusti difficili? Forse il siciliano del bar accanto a Palazzo Trecchi, visto che ci torna la mattina seguente. Sì, proprio quello che ci aveva latinamente provato due mattine prima e che ovviamente bissa con una chicca a metà tra la scusa e la possibile realtà del 1950. Il siciliano serve la turista e le chiede se abbia mai visitato il Torrazzo:

“Hai visto molte cose interessanti? Lo hai visto il Torrazzo?”.

“Certo che sì, è il campanile quadrato che si erge su un lato della cattedrale, legato ad essa da quei lacci da corsetto…”.

“È la torre più alta di Italia, vorresti salirci con me?”.

“No, grazie, lo farò da sola quando avrò voglia, adesso mi sento pigra”.

“Ma non ci puoi salire da sola è proibito”.

“E perché mai sarebbe proibito?”.

“ L’anno scorso si sono buttate quattro persone dalla cima, cioè ogni volta che una persona ci è salita da sola, è da allora che c’è una legge che lo vieta”. E poi rincara la dose, a detta della Templeton: “Le signore straniere viaggiano spesso sole, io lo so, e poi trovano compagnia, non possono farne meno, è naturale. Cosa devono fare quando vogliono vedere il Torrazzo? Io preferirei uccidere una mia donna piuttosto che vederla camminare con un altro uomo e quando una donna è morta, so almeno dove si trova e cosa sta facendo, e una donna che non vale la pena di uccidere è una donna che non vale la pena di avere”.

La descrizione del viaggio della Templeton a Cremona ha altre decine di piccole divagazioni sulla campagna, sull'arte e sulle chiese, ma vorrei soffermarmi su alcuni aspetti. Innanzi tutto la scelta del titolo del suo libro viaggio: "La Sorpresa di Cremona" è anche un fatto di Guerra avvenuto nel 1702. Uno strano connubio Franco-Ispanico-Irlandese occupa la città di Cremona che viene invasa notte tempo da austriaci entrati con l’inganno dalle porte aperte dall’interno.

I francesi vengono sorpresi nel sonno. Una guarnigione molle dedita a bagordi cittadini e gli ufficiali a letto con le cortigiane locali vengono velocemente neutralizzati dagli invasori. Saranno gli  Irlandesi “Oche selvagge” a salvare le sorti della battaglia combattuta strada per strada per circa due giorni. La storia è stata trattata su questo stesso giornale e pubblicata il 12 aprile del 2021.

La Templeton, sotto una apparente scorza acida e un parlare cinico, mostra un lato della città probabilmente poco affascinante che può infastidire i cremonesi, mostra però un senso pratico descrittivo dove mette in gioco ogni tipo di sua personalissima ed esperienza di vita e di viaggio, con una scrittura sempre autobiografica, persino negli errori di valutazione e nell’eccesso critico.

Un animo romantico all’eccesso e cinico all’eccesso. Una presenza a volte scomoda per descrizione di luoghi, persone e atteggiamenti. Una città a volte mal descritta o invece ben inquadrata, ma un libro di viaggio che titola con quella città. La Sorpresa non di Urbino e non di Ravenna, ma di Cremona, con quella Cattedrale tanto austera. Un scrittrice che passò gli ultimi 20 anni della sua vita a Bordighera in un piccolo appartamento e frequentando la biblioteca locale, rilasciando interviste in una associazione culturale.

Morì a Bordighera il 12 giugno 2006 a novant'anni. Venne cremata a Nizza dove riposa.

Maurizio Mollica


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commenti


harry

23 gennaio 2025 19:02

L'azzurra lontananza . Hermann Hesse - Sugarco tascabili - 1980.
Il virgolettato dell'autore non sembra corrispondere al testo tradotto in questo libretto, non appare la locanda citata in vicolo Bella Flora, in realtà vicolo Fiore e potrebbe trattarsi dell'albergo Pavone, via Bordigallo e l'Astoria secondo l'autore.
Uno studio più approfondito di decenni fa collocava la locanda in oggetto altrove.
Diciamo che il testo originale è stato "rimaneggiato" se la fonte delle informazioni è la stessa.
Negli anni '80 questa visita di H. Hesse a Cremona fu oggetto di un articolo sul quotidiano locale a cura del prof. Gianfranco Taglietti.
Simpaticamente...

Chemist

23 gennaio 2025 19:23

Sempre spunti interessanti e che è piacevole leggere... Grazie!

Michele de Crecchio

24 gennaio 2025 00:35

Gradevolissimo questo articolo: mi ha rammentato letture fatte molti anni or sono, grazie ad un volume antologico di queste e analoghe testimonianze che, però, più passano gli anni e più si apprezzano e si comprendono.
Aggiungo una piccola preghiera: non sarebbe possibile leggere per esteso anche la descrizione della via Bertesi nel suo testo originale e completo, anche se della Templeton, valutata sotto l'aspetto della esperta di architetture, mi pare sia bene non fidarsi molto? Con tale richiesta verrebbe soddisfatta non solo la curiosità dei non pochi cremonesi che in tale antica strada abitano o lavorano, ma anche dei molti che la percorrono spesso, a piedi o in bici, per raggiungere le scuole o le università collocate ai suoi estremi. Grazie per l'attenzione.