"Dam un bès", sessant'anni fa moriva Antonio Ligabue
È andata in scena a Lecco, in un luogo che pensarlo più adatto non si può: «Palazzo della paura», la mostra «Antonio Ligabue e l’arte degli outsider» che, come si leggeva sul sito internet dedicato «…offre uno sguardo profondo e inedito sul rapporto tra arte e follia». Ma era davvero folle Ligabue? Moriva sessant’anni fa il «Toni», quello che chiamavano lo scemo del paese e, invece, si sarebbe rivelato come uno dei più grandi artisti contemporanei.
Al geniale, scontroso e ombroso artista, trentatré anni fa venne dedicata una canzone dai «Nomadi»: «Dam un bès», di Beppe Carletti, Augusto Daolio e Odoardo Veroli, un brano ispirato al genio di Antonio Ligabue e a quella sua frase, diventata addirittura un documentario e uno spettacolo teatrale di grande successo: «Dam un bès», «Dammi un bacio», che Ligabue rivolgeva, si dice ad ogni donna che incontrasse, ma che, in realtà, nel testo dei «Nomadi» è rivolta all’unico amore della vita del pittore svizzero-reggiano: la Cesarina, figlia della locandiera e ostessa di Guastalla, nella cui pensione “Toni ‘l matt” visse gli ultimi anni prima di rimanere vittima di una paresi. «Ligabue, naso d’aquila,/Urla al cielo la sua pena,/Cesarina, per favore, voglio un bacio, dam un bès». Questi i versi centrali del testo, originariamente in dialetto modenese, che descrivono quell’amore dichiarato con gentilezze, carezze e il dono di un ritratto; amore forse mai suggellato da quel bacio tanto desiderato: il bacio che Mario Perrotta, nella sua pièce teatrale del 2013 interpreta così: «Un bès... Dam un bès, uno solo! Che un giorno diventerà tutto splendido. Per me e per voi».
Mentre era in vita, praticamente nessuno si accorse del genio di Ligabue, un pittore istintivo, affascinato dalla natura e, soprattutto, dagli animali al punto che, scrive Perrotta, «… provava un amore sviscerato per le galline e i conigli, arrivando al punto, come in uno dei suoi quadri raffigurante una lotta di galli e un tacchino, che il pittore si identificava tanto da imitare i versi degli animali mentre li dipingeva». Il racconto di Perrotta si snoda biograficamente, con la narrazione a partire dalla nascita di Ligabue, avvenuta in Svizzera, le prime avvisaglie della sua malattia psichica e l’allontanamento dalla sua patria; «l’esilio» nel paese di Gualtieri in provincia di Reggio Emilia e si conclude con la sua vita artistica lungo le sponde del Po, il fiume dove produsse gran parte delle sue opere. Ma il Toni era convinto del valore delle proprie opere: «Lo diceva lo stesso Ligabue che un giorno i suoi quadri sarebbero diventati famosi anche se durante la sua vita i contadini di Gualtieri, dove era stato mandato a vivere dopo i primi diciott’anni trascorsi in Svizzera, svendevano le sue opere e i suoi dipinti finivano per diventare sgabelli per mungere le mucche o tappare le finestre.
Triste destino di capolavori rivalutati post mortem, così come fece Cesare Zavattini che riconobbe solo dopo la scomparsa di Ligabue di essere «stato ingiusto nei suoi confronti». Sì, perché il grande cineasta e scrittore a un certo momento chiese un «autoritratto» ai grandi pittori del XX secolo, un quadro in piccolo formato, di 8x10 centimetri, per creare una raccolta unica nel suo genere, testimoniando la sua profonda amicizia e il suo rapporto con gli artisti del suo tempo. Lo chiese a tutti, fuorché a Ligabue, che di suoi autoritratti ne dipinge 123 nell’arco di quasi quarant’anni. Nelle tele lui si cerca, cerca il significato di un’esistenza fatta d’incubi e derisione, incomprensione e genio. Si guarda dentro e si riconosce: «Io sono un grande artista» ripeteva. Attraverso l’arte Ligabue trova un posto in un mondo che sembrava non volerlo. «Io sono un grande artista ma nessuno mi capisce. Vedrete un giorno quanto varranno i miei dipinti» affermava. E aveva ragione. La tensione, il voler vivere, dice ancora Perrotta: «… la sua solitudine, il suo stare al margine, anzi, oltre il margine – oltre il confine – là dove un bacio è un sogno, un implorare senza risposte che dura da tutta una vita». Vivere in un suo universo mentale, impossibile da decifrare del tutto. Come nell’episodio accaduto a Gualtieri, dove Ligabue distrusse un suo quadro, reagendo ad un’offesa ricevuta da chi non aveva apprezzato la sua opera. La spiegazione la può dare la psicoanalisi come spiega Perrotta, quando racconta che il gesto aggressivo di cancellare il quadro, stava a significare l’intento di togliere la possibilità di ammirare la sua arte. L’uomo responsabile di essere incapace di capire la sua arte.
Arte e vita sempre al margine, a un limite invalicabile, come recita la canzone dei «Nomadi», i cui ultimi versi sono pervasi di questo senso di confine, raggiunto e mai superato: «Il bisogno d’amore, spezza il cuore,/Fugge il matto, occhi di gatto, che ha visto il diavolo./Ligabue, gridò la gente,/Fa paura è un demente,/É braccato come un cane,/Da orme umane./Laggiù dove cade il sole,/Un sogno un giglio,/Forse un figlio,/Lui Ligabue è la che va,/Nessuno lo rivedrà». Ma in dialetto modenese suona ancora meglio…
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