9 febbraio 2021

Il Modello Genova per Cremona

Cremona è moribonda. Le restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria hanno originato identici scenari  da un capo all’altro della Penisola: strade deserte, scuole chiuse, saracinesche abbassate, grandi e piccoli centri abitati e inanimati che richiamano  le immagini lunari di Chernobyl dopo  il catastrofico incidente del 1986 alla centrale nucleare. Purtroppo, però, la Cremona che abbiamo conosciuto durante il blocco totale delle attività e il divieto degli spostamenti è apparsa solo un po’ più spenta del solito, a differenza di altre realtà urbane simili per dimensione e geograficamente vicine, ma molto più dinamiche. Quella che in passato poteva sembrare un’iperbole, oggi è una realtà tangibile: come diceva qualcuno, la città è sul catafalco. Prendere atto delle condizioni comatose del paziente è il primo, indispensabile passo da compiere per individuare la terapia. Il guaio è che a livello amministrativo e politico ancora si stenta a prendere atto della gravità della situazione.


L’inesorabile calo demografico – 72mila residenti certificati dalla statistica di fine anno e un ultra 75enne ogni quattro abitanti - non viene considerato il più preoccupante tra i campanelli d’allarme, ma il riflesso di una tendenza nazionale. L’economia col fiato sempre più corto è l’altra faccia della medaglia. L’agonia del terziario è un fenomeno generale con una specificità locale. Se è vero che i negozi chiudono un po’ dappertutto, falcidiati dalle vendite online e massacrati dalla concorrenza dei centri commerciali, è altrettanto vero che altrove c’è un avvicendamento fisiologico. A un’attività che cessa ne subentra una nuova. Nelle vie del centro storico di Cremona ogni giorno si aggiungono vetrine spoglie a quelle esistenti. A rendere il panorama ancora più desolante provvedono I cosiddetti contenitori vuoti (ex Snum, ex cinema Tognazzi e Banca d’Italia per citarne alcuni) per i quali da anni si attende una destinazione d’uso. Sono biglietti da visita di una città incapace di reinventarsi e sin qui votata al declino. Fanno  eccezione il lodevole recupero di parte degli ex monasteri, Santa Monica e caserma Manfredini. Ma terminato il percorso accademico, quanti dei giovani che avranno studiato nella cittadella universitaria si fermeranno in una città che offre pochissime opportunità di lavoro?                

                                

A fronte di prospettive sconfortanti, il Comune progetta il rifacimento dei giardini pubblici. Sono altre le urgenze. Se è indifferibile il raddoppio della ferrovia Mantova-Cremona-Milano, non altrettanto si può dire dell’autostrada per Mantova e tanto meno del terzo ponte sul Po. Grazie a Dio non si insegue più la chimera del nuovo ospedale, un’idea interessante ma sicuramente non prioritaria, spuntata sull’onda del Covid 19 e alimentata dai 209 miliardi di euro del Recovery Plan in arrivo dall’Europa che risvegliano l’ansia di protagonismo dei politici. Non si parla più nemmeno del nuovo palasport, promesso dal sindaco in campagna elettorale. E anche questa è una fortuna.        

                                                                                                                                            

Intanto Cremonafiere rischia di non riuscire a superare la crisi provocata dalla cancellazione delle manifestazoni. E così sparirebbe un’altra eccellenza del territorio. Non basta ad abbellire un quadro così sconfortante  una piazza salotto inserita di recente tra le venti  più belle d’Italia. Può essere un punto di partenza per avviare una seria e coordinata azione di marketing territoriale, ma è  sterile cullarsi sui fasti del passato. Ammirare e riflettere su ciò che fecero i nostri antenati  dall’inizio della costruzione della cattedrale nel 1107 sino al completamento di piazza del Comune nei  secoli successivi deve servire da stimolo. Non è il tempo dei progetti faraonici, ma è il momento di  pensare alla ripartenza. Bisognerebbe applicare a Cremona ma anche al resto del Paese il ‘modello Genova’ che snellendo le procedure burocratiche ha consentito di ricostruire in dieci mesi il ponte crollato, un’opera da 200 milioni di euro che con le prassi normali, tra bandi, ricorsi e tutta la burocrazia prevista dal codice degli appalti sarebbe stata realizzata in 10-15 anni. Semplificare e velocizzare devono diventare le parole d’ordine. Purché ci siano teste pensanti e in grado di decidere.


Vittoriano Zanolli (www.vittorianozanolli.it)

Vittoriano Zanolli


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commenti


Giuseppe Torchio

10 febbraio 2021 09:04

Ok. 150 anni fa, in tre anni si fece la ferrovia Mn-Cr-Codogno e non c’erano le Caterpillar. Un secolo dopo in due-tre anni il nuovo ospedale e la Pc-Cr-Bs ...