28 dicembre 2025

La famiglia di Gesù, un esempio da imitare, non un prodotto da sponsorizzare

Dopo il racconto del concepimento verginale di Gesù, l’evangelista Matteo ci presenta altre due scene che riguardano l’infanzia del Bambino di Betlemme: la visita dei magi e la fuga in Egitto. Nella domenica che segue immediatamente il Natale, detta della sacra famiglia, è il testo che parla di questa fuga ad aiutarci a cogliere la disponibilità e gli atteggiamenti di Maria e Giuseppe, famiglia umana di Gesù, modello e immagine per ogni famiglia cristiana.

Confesso una certa fatica a mettermi di fronte alla famiglia di Nazareth, poiché spesso e volentieri capita che il parlarne sia da qualcuno percepito come una specie di condanna implicita a tutte le famiglie che dalla sua esemplarità si discostano. La fatica mi viene anche, all’opposto, a causa di chi fa dell’esempio di Gesù, Maria e Giuseppe una testa d’ariete per attaccare idee che ritiene al di fuori del cristianesimo e quindi da abbattere necessariamente per lasciar brillare la purezza della fede, la nitidezza della dottrina e della morale familiare.

Ogni volta che penso alla sacra famiglia mi piace invece cogliere il suo esempio a partire dal suo silenzio discreto, dal suo essere modello non urlato come farebbe chi ha qualcosa da imporre, come se la famiglia di Gesù fosse un prodotto da sponsorizzare. Ad essere eloquente mi sembra sia proprio la vita silenziosa di queste persone, eloquente perché reale, concreta, umile. Un esempio semplice e vero, come quello di tante famiglie che altro non fanno che vivere il loro essere normalmente se stesse: nella fedeltà, nel perdono, nella quotidiana relazione, nella condivisione di problemi economici e di salute, nelle fatiche lavorative, nei pensieri, nelle gioie, nell’amore reciproco, nelle scelte da compiere per l’educazione e la crescita dei figli, ...  Tutto con normale semplicità.

Maria e Giuseppe sono modello perché non si impongono come predica polemica contro nessuno, semplicemente si offrono a noi raccontandoci la loro storia, invitandoci ad entrare nella loro casa, per condividere quello che loro hanno vissuto, per provare se ci fa bene e, di conseguenza, per custodire un po’ di questo bene e ripresentarlo nelle nostre famiglie, nessuna uguale ad un’altra, eppure tutte, a modo loro, amate da Dio e da Lui accompagnate. Solo così l’esempio di Nazareth, mi sembra possa essere per noi autenticamente sostegno, correzione, richiamo, invito, proposta, indirizzo. E può essere tutto ciò perché vero e discreto, autorevole senza mai essere arrogante, irripetibile eppure non impraticabile.

Nella famiglia di Nazareth mi piace cogliere le dinamiche ordinarie e quotidiane di ogni famiglia, dinamiche vissute però nella luce della presenza di Dio, non solo perché il figlio di Maria e Giuseppe è anche il Figlio di Dio Padre, ma prima ancora perché a Dio ciascuno di loro sapeva fare spazio. 

In questo anno liturgico il racconto di Matteo aiuta a cogliere tutto ciò dal punto di vista di Giuseppe, uomo in ascolto di Dio e a Lui obbediente. L’esperienza del sogno attraverso il quale Dio gli parla, ci narra della disponibilità di Giuseppe a misurare la sua vita nel dialogo con Dio: andare in Egitto, tornare, stabilirsi a Nazareth. Scelte umane e sguardo di Dio si intrecciano in questo dialogo semplice e concreto che farebbe bene praticare anche all’interno delle nostre realtà familiari e domestiche, nonché all’interno della famiglia tutta di Dio che è la Chiesa in ogni sua espressione comunitaria: parrocchie, diocesi, comunità religiose, gruppi, associazioni, consigli d’oratorio, …

Il testo di Matteo mi suggerisce anche un secondo pensiero, forse estraneo dall’intenzione dell’Evangelista, ma utile per il nostro contesto sociale. Gesù, Maria e Giuseppe sono stati profughi in Egitto, stranieri in una terra che non era la loro. Nella notte di Natale è risuonata la mancanza di un posto nell’alloggio per questa famiglia, nel giorno di Natale l’ostilità verso il Verbo è stata richiamata attraverso l’immagine delle tenebre che possono offuscare la luce. Oggi ancora sentiamo di un re che minaccia di morte il Bambino e che per questo deve fuggire altrove. Oggi Gesù e i suoi genitori li avremmo chiamati profughi politici, qualche agente delle forze dell’ordine avrebbe preso le loro impronte digitali per poi essere inseriti in un programma di accoglienza, in un percorso per persone povere che arrivano per necessità, fuggendo da un pericolo che li minaccia.

Il testo della fuga in Egitto ci invita ad aprire gli occhi sulla realtà dell’immigrazione con la quale abbiamo a che fare. Non ho ricette e non ho nemmeno una visione chiara di questo fenomeno. Sono consapevole della necessità di regole e sono convinto dell’importanza di essere disponibili e fraterni verso chi giunge da noi per un bisogno economico o per fuggire dal pericolo per la propria vita. Sono persuaso che il fenomeno attuale non possa essere compreso attraverso l’applicazione di quanto accadeva nel passato a causa di immigrazione interna alla Nazione o a causa di flussi che mi sembra siano stati meno costanti di oggi e avvenuti in un contesto sociale ed economico differente.

A partire dal Vangelo, tuttavia, mi sembra sia doveroso pensarci, in modo umano e cristiano. Lo stesso Gesù con la sua famiglia sono stati immigrati, profughi, sfollati, lontani dalla loro casa e dai loro affetti. Per questo Gesù, Giuseppe e Maria ci parlano anche di coloro che vivono la stessa drammatica situazione, avendo abbandonato amici e parenti, affrontando viaggi lunghissimi che talvolta non si concludono con l’esito sperato ma con il peggiore degli epiloghi, magari affrontando anche situazioni oltre il limite del rispetto umano. Mi sembra doveroso che oggi, insieme ad una preghiera per tutte le famiglie, ci sia anche una preghiera per ogni profugo perché, come Gesù, Maria e Giuseppe possa giungere ad una Nazareth in cui ricominciare la propria vita. Mi sembra sia bello se oggi, rispettando le possibilità di ognuno, ci sia da parte nostra un gesto benevolo per quell’uomo o quella donna che vive accanto a noi, per quella persona che vediamo ogni giorno e che sappiamo venire da una terra lontana, che sappiamo avere una storia non comune di sofferenza, ma che ignoriamo completamente perché non ci siamo mai dati un attimo di tempo per parlarle insieme.  

Nella foto  "Riposo nella fuga in Egitto", Giovanni Miradori il Genovesino, Cremona, Chiesa di Sant'Imerio

Francesco Cortellini


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