29 dicembre 2022

La minestra con gli anellini scotti, la polenta, il fuoco di Terra Amata

(…) Da Terra Amata il Naviglio Civico lo si raggiungeva percorrendo una stradina di polvere. Costeggiava il frutteto padronale protetto dall’alta recinzione, superata, scavalcata dalla cima del noce inclinato che pareva volesse cadere, e l’ombra ed i frutti finivano al di qua, nell’acqua del piccolo canale e nei detriti del viottolo. Nel frutteto andavamo per scorrerie; i ragazzi per cogliere la frutta caduta dagli alberi ed io per stare con loro. Alla fine della stradetta di polvere si girava a destra per un sentiero che, costeggiata una fila di gelsi, s’inoltrava in un aggrovigliato bosco spontaneo rivierasco superato il quale c’era il Naviglio. In quel tratto l‘acqua costretta, quasi incanalata entro due spallette di mattoni rossi, scorreva veloce su di un lastrico anch’esso di mattoni messi a coltello, per poi stramazzare, libera, nel più basso successivo slargo delle rive. Noi il naviglio lo attraversavamo lì in quel punto, camminando sicuri dell’appoggio dei piedi sul lastrico dello stramazzo. Nei campi dell’altra riva si intravedevano i muri della cascina “Lazzaretto” e l’incerto tracciato di una strada che andava anche verso un posto chiamato “Ossalengo”. Nomi di antichi dismessi luoghi di quarantene e sepolture ed evocavano pestilenze e morte. Io il bagno non lo facevo, non sapevo nuotare ed avevo paura. Aspettavo che gli altri si stufassero di tuffarsi e rituffarsi per poi tornare insieme e di quei ragazzi non mi è rimasto che qualche anonimo ricordo.

Non fu così per la ragazza che mi riconobbe un mezzogiorno al fischio di uscita dalla fabbrica di piastrelle. Dieci anni non erano bastati per cancellare quel mio passaggio da Terra Amata. “Tu sei Ennio disse affiancandomi. Prevenne la mia domanda: “sono la Lina…la Lina di Terra Amata!" ed il sorriso gli si fece ampio. Venne più vicina, mi parve volesse fare con me almeno quel tratto che la separava dal refettorio, ed era come se quel camminare nuovo fosse per lei la continuazione ininterrotta di un andare più antico. Esitai, occupato nella ricerca di ricordi non le parlai e non ci fu più il tempo per camminare insieme.

Venimmo sospinti, separati e dispersi dalle tante che si affrettavano a raggiungere la mensa, incuneate in quella strettoia della fabbrica fra i reparti della macinatura, delle presse e delle “chitarre” da una parte e quello nuovo dello “smalto” dall’altra. Io non la trattenni, non la rincorsi non la cercai e nemmeno la chiamai come sicuramente, con nostalgia e piacere, farei oggi e colpevolmente quell’incontro divenne subito ricordo. Fra le tante cose perdute o forse solo occultate, riemerse un brandello che perduto non era. Riapparve quella scomposta fila di bambini al rientro serale. Noi, di quella fila, ci trovammo ad essere gli ultimi, forse rallentammo il passo e la distanza dagli altri divenne più grande. CI salutammo per la cena sapendo entrambi che ci saremmo rivisti dopo, come era d’abitudine, ma già sentivo crescere l’inibente puerile pudore. In collegio e a scuola i generi erano rigidamente separati e la promiscuità di quei ragazzi di campagna mi aveva colpito, senza coinvolgermi, fin dal mio arrivo a Terra Amata. Così quella sera, dopo avere mangiato la polenta, timoroso di essere coinvolto in una di quelle cose che si raccontavano e che non capivo fino in fondo, non uscii. Rientrò Gina; “la Lina ti aspetta” disse con voce insolitamente alta e il tono mi parve di geloso rimprovero. Ubbidii all’impulso. Per un attimo, solo per un attimo libero da paure e da sguardi, mi alzai per andare ma, sopraffatto dalla timidezza, tornai a sedermi sulla pietra del camino.

Nella stagione irrigua, che era poi quella di quei mesi, il balio stava alzato anche la notte ed andava per campi facendosi luce con una lampada funzionante con gas di carburo, portando, appoggiato ad una spalla, un badile dal manico lungo e la lama stretta. Una mattina lo vidi tornare di corsa ed in fretta ripartire armato di un aggeggio per la pesca che chiamavano “roussòol”. Aveva visto, nella roggia, tre grossi pesci, provveduto alla chiusura delle uscite del fosso in modo che restassero imprigionati, si apprestava a dargli la caccia. Se presi quel giorno ci sarebbe stata la pietanza che loro chiamavano “sèech”. Ma non andò così ed anche quel giorno mangiammo solo la minestra d’anellini e foglie di cavolo. Gli anellini per la eccessiva cottura e, probabilmente, per la scarsa qualità della semola raddoppiavano la loro grandezza e si facevano mollicci. Pesanti si depositavano in uno spesso strato sul fondo del grosso piatto concavo diventando infiniti. L’odore del cavolo in cottura e quella pasta di piccolo formato ancora mi inducono un senso di rifiuto. In anni più tardi, ormai diventato giovanotto, quando giravo i paesi della provincia propagandando idee socialiste cercando di organizzare i compagni, rimangiai più volte quella minestra. Non di rado, nel mio andare, capitavo a Torricella del Pizzo, un paese di rosse teste calde nella bassa pianura che, si raccontava, in tempi non lontani avevano cercato di fare una loro rivoluzione. “Quella volta che a Torricella venne la rivoluzione” dicevano. Cominciava sempre così il loro racconto e sembrava che la rivoluzione non fosse stata cosa degli uomini ma il portato di forze estranee, una cosa che era accaduta, arrivata da chissà dove come la piena del fiume del 1951. La piena aveva richiamato tutti sull’argine a portare sacchetti di sabbia per rialzarlo e a fare coronelle a fontanazzi che si aprivano dalla parte del paese. La barricata della rivoluzione era stata messa di traverso alla strada per ostacolare e fermare l’arrivo dei carabinieri e loro, i rossi, ancora sopra e dietro allo sbarramento decisi sempre a difendere il paese dalle invasioni. A quella barricata non ci furono ne morti ne feriti, venne smantellata dalla polizia e la strada riaperta al passaggio della gente e dei carri. Il nonno anarchico, quando raccontava di quel fatto, non poteva trattenersi dal riannodare e fare emergere confusamente cose più lontane, parlava di “bandiere insanguinate” e di“ribelli caduti con lo sguardo rivolto all’aurora” versi che conoscevo, imparati dalla sarta del secondo piano che li cantava I braccianti senza lavoro di Torricella, persero la barricata ma ottennero per loro la legna, quella sottratta ai frontisti e tagliata nell’isola demaniale e quella che avrebbero tagliato negli anni a venire. A Torricella del Pizzo i compagni Peri mi ospitavano nella loro casa. Aveva una piccola vigna a pergolato quella casa, ed il muro custodiva, indelebile, il colore verde - azzurro del solfato di antiche irrorazioni. La casa era sotto la scarpa dell’argine , dall’altra parte la golena del fiume, ed il Po si vedeva lontano stando ritti sulla sommità del terrapieno. Lasciata la “littorina” Torricella del Pizzo la raggiungevo a piedi, vi arrivavo "come ospite inatteso venuto da lontano”. Ai margini laterali di quella strada c’erano e lavoravano i cordai di Castelponzone che attorcigliavano la canapa sfibrata e ne facevano ancora le stesse trecce che nel passato avevano retto anche le vele di velieri in giro per gli oceani. Anche i cordai camminavano a piedi sotto il sole, a quell’ora l’ombra dei gelsi cadeva dall’altra parte del fosso. Quel loro andare e venire lungo il primitivo torcitoio mi accompagnava per quasi tutti i chilometri che separavano la stazioncina della tramvia dal paese. I compagni Peri, si direbbe oggi, “aggiungevano un posto a tavola”. Così eravamo in sei attorno a quel tavolo. IL nonno, tra una cucchiaiata e l’altra, raccontava confuse storie di un socialismo antico e di una non appassita anarchia, della quale sperava ancora, non capivo come, l’avverarsi: “Quando l’anarchia verrà tutto il mondo sarà trasformato” proclamava, “dei governi sarà un ricordo d’infame passato” sentenziava profetico. A tavola ascoltavo storie già sentite e mangiavo quella minestra generosa che solo il cuore, per non offendere, mi impediva di rifiutare. Oggi dopo tanti anni, mentre scrivo, di quel nonno anarchico sognatore e di quella famiglia proletaria rimangono, forse unici, questi ricordi. Incerta è l’ esistenza, da qualche parte, di Giuseppina che al tempo era la ragazza più giovane. Antonio, il fratello, in cerca di lavoro emigrò lontano: non resse la solitudine della fabbrica d’ automobili nella metropoli francese e da quel giorno “la sua voce canta nel vento”. Per gli altri non c’è una collina a Torricella del Pizzo ma la piana asciutta che l’argine difende, quella contesa e strappata alla imprevedibile mutabilità del fiume.

Io non ricordo se, a casa della balia, dopo la minestra ci fosse una pietanza, salvo la volta che decisero d’interrompere l’agonia di un pollastrello che non voleva crescere. Era piccolo, venne lessato in un’ intingolo rosso e dato da mangiare a me, che ero l’ospite di riguardo, e a Severina che sembrava la più cagionevole di salute. Pino si risentì di quella esclusione, parlò vivace con la balia e mentre parlava lo sguardo e gli occhi guardavano il mio piatto. A mezzogiorno non c’era l’abitudine di sedersi a tavola, ognuno si metteva dove voleva. Io mi mettevo a tavola ma quasi tutti andavano a sedersi fuori, sulla porta di casa e mangiavano la loro minestra tenendo la fondina in mano o appoggiandola alle ginocchia. Poi rientravano per riempirla una seconda volta. Non era così a cena. L’enorme polenta sembrava attivare una necessità di comunione e tutti ci si sedevamo attorno. Fumava ed era bella la polenta, perfettamente rotonda lasciava libero un piccolo bordo del tagliere e gli occhi di tutti erano per le mani della balia che, con un filo di refe tenuto teso, passato da sotto e tirato verso l’alto, ne tagliava perfette fette. Io allungavo il piatto, vicino al tagliere lo appoggiavo al tavolo per evitare che il peso della fetta me lo togliesse di mano. Poi, ricevuta la mia parte, lo ritiravo mentre lei, la balia, si soffiava sulle punte delle dita per rinfrescarle. La polenta era cotta al fuoco del camino, il paiolo appeso ad una catena che pendeva dall’alto e tutto era nero di vecchia fuliggine. Dondolava,il paiolo, ad una giusta distanza dalla brace ed il dondolio impediva che la polenta venisse girata e rigirata con quel bastone, che non capivo perché, dovesse essere necessariamente ricurvo. Il dondolio veniva fermato con un coppo messo in modo che con una estremità appoggiasse al paiolo e con l’altra a terra, quasi a costituire un ponte inclinato che scavalcava il cerchio del fuoco. Con un piede,il coppo veniva tenuto calcato contro il paiolo che andava ad incastrarsi nello spazio fra due pietre che sporgevano dal muro retrostante ed in questo modo tenuto fermo. La balia si reggeva appoggiandosi ad un solo piede, con l’altro spingeva il coppo che a sua volta teneva incastrato il paiolo fra le pietre e con le mani, apparentemente senza sforzo, imprimeva al bastone ricurvo un movimento che diventava circolare. Era un complicato equilibrismo di spinte e controspinte, di meccanica del corpo, di primitivo spontaneo inconsapevole uso di quel complesso chiamato “biella-manovella” costituito dal movimento orizzontale del braccio che si trasformava nel verticale movimento circolare del bastone ricurvo. Forse, al di là dei calcoli di matematici e dell’ingegnosità di ingegneri antichi, l’idea di come trasformare un movimento orizzontale in uno circolare o alternato è proprio sorta dall’osservazione casuale di come si rigirava una polenta e a quegli anonimi, spontanei ed inconsapevoli meccanici ne andrebbe riconosciuto il merito. Il camino era grande ed ai lati aveva due rialzi di pietra quadrati sopra uno dei quali io mi sedevo durante la cottura della polenta. Il fuoco, dopo la prima fiammata, veniva tenuto basso ed il riverbero del suo calore piacevole anche se i mesi erano estivi. Io parlavo alla bàlia e lei mi parlava. Quando alla mattina scendevo dalla camera dove avevo dormito la polenta, quella avanzata dalla sera precedente, la trovavo, tagliata a fette, esposta a riscaldarsi alla brace del camino, quasi pronte per la colazione. Infilate in due aggeggi di ferro semi circolari che avevano la particolarità di tenerle verticali, andavano rigirate perché si abbrustolissero sia dall’una che dall’altra parte. Poi intingendole nel latte facevo colazione. Quella di andare a prendere il latte era forse l’unica incombenza fissa alla quale dovevo assolvere. Il latte, non so in quale misura, faceva parte della cosiddetta “retribuzione in natura” ed era prevista dal patto colonico. Quando verso le quattro del pomeriggio, finiti i lavori di mungitura e pulizia, il capo bergamino suonava il corno, con il mio pentolino andavo alla stalla e li mi trovavo con donne anziane e qualche ragazzo. Nella passatoia centrale della stalla ci si disponeva in fila davanti ai bidoni straripanti di schiuma e mosche, fra due file di vacche defecanti, e gli schizzi arrivano fino a noi ed ai bidoni del latte, ma nessuno ci faceva caso. Il capo bergamino distribuiva il latte servendosi delle “misure”, cilindri di lamiera zincata con diversa misurata capacità muniti di un manico lungo, verticale, che avrebbe permesso di attingere il latte dalla profondità del bidone. Ma lui, il capo bergamino, parteggiava per il padrone, spesso attingeva in superficie e la misura in buona parte si riempiva solo di schiuma. Questo provocava rabbia e risentimento nelle donne come la volta che sorpresero la cameriera dell’agrario buttare nella concimaia un cesto di frutta andata a male. “La fanno marcire, la potrebbero dare ai nostri bambini che non ne mangiano mai” e, con risentimento, della cosa si parlò a lungo.

Certo la campagna era più sicura della città, lì non cerano obbiettivi sensibili che attirassero bombardamenti aerei, ma questo non impediva che Pippo, il ricognitore, volasse anche da quelle parti. Al “Dosso Cavallino”, chissà il perché, una mattina mitragliò il carro ed il cavallo di un mugnaio che andava per il suo giro. Morì il cavallo, l’uomo restò incolume e per i campi circostanti si sparsero i bossoli della mitraglia. Belli, di ottone lucido, di due misure, una da “12” e l’altra da “20” dicevano quelli che avevano fatto la guerra e noi ragazzi andavamo alla loro ricerca. Fra la gente divennero oggetto di scambio. Nelle cucine, riposti sulle mensole dei camini, furono motivi di ornamento e di sostegno per le candele.

Venne anche la volta della vicina chiesa ed il tetto della canonica del Migliaro quasi crollò colpito da uno“spezzone dirompente”. Gli “spezzoni” piccole bombe per bombardamento aereo erano di due tipi, “incendiari” e “dirompenti”. Il bombardiere le usava a discrezione, secondo l’effetto che voleva ottenere. A volte, la notte, in lontananza si vedevano lampi e bagliori rossi che si accendevano e che si spegnevano in continuazione. Io e Pino li guardavamo dalla finestra della nostra camera che era in alto, al primo piano, ed in quel punto ed in quella direzione le piante non si frapponevano all’orizzonte. Quando oltre ai bagliori si sentivano anche più vicini i rombi scendevamo, andando a cercare protezione sotto la volta dell’ingresso secondario della cascina, oltre le stalle dei buoi e dei cavalli, luogo ritenuto il più sicuro. Ognuno portava quel che aveva di più caro da salvare ed io, che in quelle settimane avevo imparato a camminare con i piedi scalzi, portavo in mano gli stivali del collegio, alti alla caviglia, neri e con i ganci per le stringhe. Per non offrire facile bersaglio, in quelle notti chiare di luna avevamo cura di non attraversare l’aia dove saremmo stati certamente visti dai piloti,magari scambiati per soldati che andavano appostandosi e forse, per questo, mitragliati. Raggiungevamo il nostro rifugio camminando accostati all’alta siepe del giardino del padrone, nella penombra.

L’estate e l’autunno erano le stagioni nelle quali si accumulava in casa quel che sarebbe servito per superare l’inverno, fino alla stagione del nuovo raccolto. Al primo piano, nella stanza a fianco di quella dove dormivo,sul pavimento era ammucchiato il frumento dell’ultima trebbiatura e presto sarebbe stato affiancato dal granoturco che maturava più avanti, ad agosto inoltrato ed a settembre. Dal soffitto penzolava un filo al quale era appeso un grosso trancio di lardo, segno della probabile uccisione del maiale nel novembre passato. Nei cassetti di un comò era riposto l’ultimo pane biscottato che non avrebbe superato l’autunno, e già si parlava di rifarlo. Sentivo che se ne parlava a cena; bisognava prenotare l’uso del forno che era comune con tutti gli altri abitanti della cascina; dare una certa quantità di grano al mugnaio perché, dopo averne trattenuta una parte per il suo compenso, riportasse la farina necessaria; accertarsi della disponibilità del panettiere a venire con la gramola. Incerta era la quantità di grano che il fornaio avrebbe voluto a compenso del suo lavoro e di questo si parlava, riportando esempi e cose sentite. Qui, a Terra Amata, ancora era in uso una residua forma di baratto: si scambiava la “roba” con altra “roba”, chi non aveva altro da scambiare offriva il proprio lavoro in cambio della “roba” della quale aveva bisogno e nella permuta non compariva il denaro. Era così per il latte che con il pentolino andavo a prendere alla stalla; per la foglia dei gelsi indispensabile a nutrire bachi i da seta, alla legna minuta ed ai tutoli per i fuochi del camino e del forno; all’orto; al luogo dove allevare il maiale ed al diverso grano per le farine. Quando quella mattina scesi dalla camera dove dormivo la farina con l’acqua era già stata impastata e la gramola in movimento. La gramola, un marchingegno costruito con robusto legno, serviva ad amalgamare omogeneamente l’impasto. Era, la gramola, una specie di tavolinotto basso sopra il quale, manovrando una leva, si alzava ed abbassava in continuazione un traverso di legno. Nello spazio che si apriva fra il piano del basso tavolo ed il traverso in movimento, il fornaio posizionava, girava e rigirava l’impasto in sincronia con il movimento di chi manovrava la leva, fino ad ottenerne un’ amalgama omogenea. E la leva ed il movimento per manovrarla, erano simili al movimento della leva del mantice dell’organo di Sant’ Agostino che sperimentai in anni più tardi. Il forno, caricato con legna di fascine e tutoli che non facevano braci, si riscaldava al loro fuoco vivace ed quello di quei legni sottili e quel che restava era solo cenere. Spentosi il fuoco, il piano del forno venne ripulito dai pochi detriti. Infornato il pane da biscottare non rimase che aspettare e la speranza era che la temperatura del forno fosse quella giusta in modo che il pane biscottasse rimanendo bianco, senza arrossarsi per eccessivo calore. IL pane venne tolto che era pomeriggio inoltrato, cavato dal forno con una pala sottile e larga dal lungo manico e depositato delicatamente, affinché le forme non si rompessero, in un cesto rivestito con un lenzuolo bianco e coperto con i lembi dello stesso telo affinché raffreddasse lentamente. Al residuo calore del forno vennero messe a cuocere alcune forme di pane da consumarsi subito e le “chisòole” con lo zucchero. E alla sera ed il giorno dopo fu festa.

Il granoturco da noi lo si coltiva ancora, lo vedo dall’alto dell’argine quando vado in bicicletta, rigoglioso, perfettamente allineato in solchi diritti che macchine gigantesche hanno scavato. Anche prossimo alla maturazione mantiene integro il suo fogliame e la cima, che nei giorni di Terra Amata sarebbero stati da tempo tolti e dati in pasto a mucche e buoi. Perfetti ed uguali sono anche i fusi: rigorosamente due per ogni gambo. Poi una macchina ancora più grande, lenta ma continua, svolge tutte le operazioni che un tempo richiedeva prevalentemente il lavoro delle donne. Ed un rimorchio porta via il frutto pronto per l’essicatoio. Ma al tempo di Terra Amata non era così. In uno scandito ordine di tempo ed in fasi successive il grano, dopo la seminagione, andava sarchiato, privato del fogliame, mutilato della cima,raccolto e con dei cesti portato fuori dal campo, caricato sui carri, scartocciato, trebbiato, messo ad asciugare. Erano le donne che alla mattina stendevano il grano sull’aia perché il sole lo essiccasse. Ogni famiglia compartecipante stendeva il proprio grano e l’aia si ricopriva di tanti riquadri colorati, divisi fra loro da stretti camminamenti. Ed in quei riquadri scorazzavano fameliche le galline a beccare sempre nel riquadro del vicino e ne nascevano piccole liti. Alla sera, per evitare che l’aria della notte lo inumidisse di nuovo, ognuno ammucchiava il proprio grano coprendolo con teli di sacco. Non vi era compenso in denaro per il lavoro svolto ma una iniqua divisione del raccolto: tre quarti al padrone ed un quarto al compartecipante e la parte del padrone doveva essere portata nel suo granaio, il punto più alto della casa dove lui abitava, servendosi di una scala a pioli. Era la così detta “compartecipazione” dove la proprietà forniva le sementi e la famiglia bracciantile, compresi i ragazzi, tutto il lavoro necessario. Ed era un lavoro svolto prevalentemente dalle donne senza diritti o tutele. . Solo in anni futuri nelle piattaforme rivendicative per il rinnovo dei patti colonici vennero inserite richieste specifiche a tutela del lavoro delle donne compartecipanti. Poi la compartecipazione,uno dei residui feudali in agricoltura, sparì.

Con quello del granoturco passò anche il mio tempo campagnolo. Ad ottobre si sarebbero riaperte le scuole e rientrai in collegio con qualche giorno d’anticipo. In quel tempo di chiusura il collegio era stato saccheggiato, non seppi mai con certezza se da tedeschi o da brigata nera. A dire di Delfanti, che passò parte di quell’estate in istituto, furono i fascisti. I camion, questo era stato il suo racconto, non passando per la strettoia del cancello, aspettarono in strada. I letti di ferro dipinto d’azzurro vennero calati; cuscini, lenzuola e materassi,dalle finestre, gettati nel cortile . Noi dormimmo nei letti e sui materassi di crine che l’Ente Comunale d’Assistenza ci mandò prelevandoli dai magazzini del “dormitorio pubblico Broggi e Simoni” alla confluenza di via Larga con via Cadore e quell’inverno pidocchi ed altri parassiti furono tanti. (2-fine)

Leggi qui la prima parte del racconto

 

Ennio Serventi


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