9 maggio 2023

Quarant'anni all'acquedotto. "El gabiòot", la pianta di fichi e il sindacato (2)

...Ho sempre avuto paura dell’altezza e si avvicinava il momento che avrei dovuto mettere mano a quell’allacciamento aereo. La terna di fili correva alta, ancorata agli isolatori sostenuti dalle grandi mensole poco sotto al cornicione di gronda. Una distanza dal suolo vertiginosa. Il solo pensiero che avrei dovuto mettere mano fra quei fili mi terrorizzava e mi angosciava l’avvicinarsi del tempo che avrei dovuto dichiarare la mia incapacità-impossibilità a svolgere quel lavoro. Ero assunto da pochi mesi e non volevo che quel fatto mi mettesse in cattiva luce. Come si dice, per la preoccupazione “non dormivo neanche di notte”. Non volevo che la dichiarata mia incapacità a svolgere quel lavoro diventasse oggetto di chiacchiericcio od altro. Non era il capo del mio servizio ma di quello “elettrico”, aveva a disposizione mezzi ed operai in grado di fare quello che avrei dovuto fare io e mi rivolsi a lui. Non avevamo mai avuto l’occasione di incontrarci ma lui sapeva della mia assunzione all’acquedotto. MI ricevette, “asciutto” ma cortese, nel suo ufficio. Io , con estrema sincerità, gli dissi della mia difficoltà e del perché mi rivolgevo a lui. MI ascoltò, fece qualche domanda del tipo “perché non si rivolge al suo capo servizio”? e avutane risposta disse, alzandosi, segnale che il colloquio era finito: “tranquillo Serventi che in linea ci mando i miei” e la cosa restò fra noi ed anche questo non fu una cosa da poco...Siamo entrambi in pensione e quando ci incontriamo parliamo dell’AEM ma anche di politica. Lui proviene dal cattolicesimo popolare ed io da uno dei filoni, quello comunista, del socialismo, ma su tante cose concordiamo. In uno dei nostri incontri gli ho parlato di quel nostro primo incontro di tanti anni fa. “Non mi ricordo” rispose.

Il fico non era ancora stato tagliato ed un giorno il capo fece cogliere, da uno di noi che era di buon comando, un certo numero di frutti. Ornati con foglie della stessa pianta e composti che li ebbe in un bel cestino disse al collega di portarli al direttore. Questi abitava al villaggio Po e la bicicletta permetteva un andare e venire rapido. Così in poco tempo il collega fu di ritorno; in una mano aveva ancora il cestino con i fichi. Gli si fece incontro il capo che, accortosi che il dono non era stato consegnato chiese se non avesse trovato nessuno in casa. “No, No” rispose il collega “c’era la moglie, ha detto che lei ha l’ordine di non ricevere niente da nessuno”. In più d’uno pensammo che quei frutti li avremmo mangiati noi ma ci sbagliammo. I fichi finirono messi in vendita nel negozio del fruttivendolo poco oltre la chiesa di santa Maddalena scambiati, barattati con altri generi che non crescevano nel giardino dell’acquedotto. 

Non c’era lo spogliatoio. Gli operai appendevano le loro cose a chiodi “cancanini” piantati nei muri perimetrali del “gabiòot” come veniva definito in gergo il locale di pochi metri quadri che ospitava anche strumenti di lavoro. I servizi igienici erano costituiti da un unico cesso alla “turca”.

Quando “el gabiòot” venne raso al suolo il parroco del tempo dalla chiesa di S. Imerio si precipitò munito di antiche mappe a rivendicare la proprietà dell’area. Non so quanto durò né se ci fu contenzioso. L’area divenne parte dell’oratorio e, giudicando da quel che riesco a capire sbirciando dalla strada, il passaggio delle aree dall’una all’altra parte continua.

Circolò la voce che la cabina elettrica “Maddalena” avrebbe cessato di funzionare e svuotata. Noi operai puntammo gli occhi su quei locali che avrebbero potuto ospitare spogliatoio e servizi igienici. Alla direzione formulammo la nostra richiesta che immediatamente divenne una “vertenza”. IL capo servizio richiedeva che quei locali fossero dati in uso a lui per farne il garage per la sua auto. Nella mia qualità di membro della commissione interna del settore toccò a me andare in direzione a sostenere le nostre ragioni. Argomentai ma il direttore, che non era più quello dei fichi, tagliò corto e disse: “a me non interessa cosa fanno gli operai in attesa delle otto. A me interessa che siano puntuali e diligenti al lavoro”. Noi non mollammo e la cosa finì sul tavolo della commissione di amministrazione dove io tornai ad argomentare le nostre ragioni. La spuntammo noi, ma al capo servizio, anche lui non era più quello dei fichi, la cosa non andò giù e se la legò al dito.

Io il contratto di lavoro lo sapevo leggere, sapevo cogliere le sottili distinzioni delle declaratorie che parevano dire la stessa cosa ma ne dicevano una diversa ed il significato delle parole che non conoscevo lo andavo a cercare sul vocabolario. Così ero certo del mio diritto ad essere inquadrato almeno in una categoria superiore e la rivendicai. Ne parlai al sindacato, anche se intuitivamente sapevo di accordi riservati fra il suo segretario e l’azienda che riguardavano l’inquadramento di quelli come me. Da quel colloquio capii che non avrei avuto il suo sostegno. La direzione dell’azienda rispose negativamente alla mia rivendicazione ed io ricorsi alla Magistratura del Lavoro. Questo significava mettermi contro anche al parere del sindacato che in quegli anni sembrava volersi togliere il maglione per infilarsi la giacchetta. Io, anche se in pensione, sono ancora iscritto al sindacato che per alcuni anni del passato, sempre a livello basso, “di base” si diceva, ho anche rappresentato. Quel piccolo scontro, quell’indiretto citare in giudizio anche il sindacato lo interpretai come il tentativo di…….. ma lascio perdere che per questa strada andrei lontano e da un’altra parte.

Fra carte bollate, tentativi di conciliazione, udienze preliminari ed avvocati la vertenza giudiziale con l’AEM andò avanti per un paio d’anni. Le parti dovevano produrre anche dei testimoni a sostegno delle proprie tesi. Testimone per l’AEM era il capo servizio dell’acquedotto che o negava o avocava a se la ogni responsabilità, pronto a giurare che io avevo operato sempre sotto la sua indicazione e diretta sorveglianza. Io lo affrontai nel suo ufficio intimandogli di dire la verità. A testimoniare a mio favore si rese disponibile il sempre ricordato Vittorio Casana, (Vittorino per molti di noi) dirigente responsabile dell’ufficio tecnico. E’ stato, penso resterà per sempre, l’unico capo servizio disposto a scontrarsi con la direzione e la commissione di amministrazione dell’AEM per una questione di inquadramento riguardante un operaio. Il giudice avanzò una sua proposta di compromesso: mi sarebbe stato riconosciuto l’inquadramento in categoria superiore, che era quello che rivendicavo, ma avrei dovuto rinunciare ad una parte degli emolumenti arretrati che chiedevo. Per una questione di principio, avrei preferito una sentenza che esplicitamente sancisse la mia ragione e condannasse l’azienda, il mio avvocato sostenne che dovevo essere realista e pragmatico. Il tutto finì con un atto “transattivo” che il legale mi consigliò di accettare con argomentazione che guardava lontano e lasciava intravedere un futuro curriculum di successo: “ottenere una categoria oggi è il presupposto indispensabile per ogni futuro ulteriore avanzamento di carriera” cosa che non si verificò mai. Quella medio-bassa categoria operaia che nelle esemplificazioni contrattuali era indicata con la sigla B/2, mi accompagnò fino al pensionamento e di anni ne passarono moltissimi. (2-continua)

Leggi qui la prima parte

La fotografia è di Giuseppe Muchetti

 

 

Ennio Serventi


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commenti


Carmine Lazzarini

9 maggio 2023 12:34

Sempre preziose le memorie di un amico come Ennio.

claudio

10 maggio 2023 17:33

Concordo, come già scritto in passato in merito al realistico racconto di Serventi, con il giudizio ora espresso dal signor Lazzarini.