21 settembre 2021

Cremona, la storia a tavola. I pirlìin e il budino del vescovo

Cremonasera parte con una nuova rubrica dedicata alla cucina del nostro territorio. Il titolo è "L'appetito vien mangiando..." e sarà una carrellata su ciò che offre la nostra tradizione, la nostra storia, le nostre specialità e le novità in cucina in tutto il territorio. Ovviamente cercheremo sempre di avere un occhio alla storia e alle curiosità. D'altra parte le frequentazioni millenarie delle nostre terre lo dimostrano.

Il traduttore dall'arabo Gerardo da Cremona già intorno alla metà del 1100 si imbattè nel "Libro dei medicinali  semplici e dei cibi" di Ibn al-Wafid. E si può far risalire a Gerardo la prima cognizione organica sull'uso dei cibi, delle loro ricette, da sottoporre all'attenzione di tutta Europa. Gli studi vennero poi ripresi da Giambonino e costituirono la base di una grande tradizione medico-gastronomica formatasi a Cremona e che trova ancora oggi espressione conosciuta nel torrone, nella mostarda o nelle frittelle. La nostra tradizione, d'altra parte, ha echi ancora più lontani, addirittura nel passato di Cremona come colonia romana: pensiamo al "consommé" che altro non è che lo "jus consuptum o lo "iecur fictum" progenitore del patè di fegato così esaltato nel cremasco.

Nel corso dei secoli alcuni nostri piatti sono diventati caratteristci come il "marubino" (altrove tortellino, raviolo, anolino, agnolotto, agnolino ecc.) nel quale l'umanistra cremonese Platina nella sua ricetta "Piatto di carne" ci fornisce addirittura l'origine facendolo derivare da "marrone" perchè come la castagna ha un involucro (di pasta) e un ripieno (di carne). La ricerca sulla tavola raggiunge poi il suo apice nel Rinascimento visto che il prototipo di tutti i banchetti di nozze nasce il 25 ottobre 1441 sotto il Torrazzo per celebrare il matrimonio tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza, un evento come l'unione tra le due casate milanesi andava celebrato nel migliore dei modi.  Il pranzo fu probabilmente di almeno un centinaio di portate innaffiato da abbondante vino cremonese (allora la coltivazione della vite nel territorio sopravvanzava quella dei cereali di 3 a 2). Vi parteciparono nobili venuti da ogni parte che portarono poi in giro la tradizione della cucina cremonese. Il pranzo, che si teneva ogni anno nella ricorrenza delle nozze, venne soppresso dai Veneziani nel 1499 con un invito alla morigeratezza e per far dimenticare i nemici milanesi. Ma il diktat dei veneziani e l'invito non ebbero un gran successo se un capitano della Serenissima stessa, Malatesta Baglioni, per il Martedì Grasso volle a Crema un pranzo di ben 1438 portate che finiva con i piatti di magro il primo giorno di Quaresima.

Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, aveva già celebrato la cucina e le tradizioni cremonesi e il suo libro a stampa edito nel 1475 il "De Honesta Voluptate et Valetitudine" fu il primo libro a stampa di ricette diffuso al mondo. Scritto in latino, venne tradotto in volgare, quindi in francese e tedesco. 

Il lusso delle tavole cremonesi era tale che le autorità (sia civili che religiose) emisero una serie di leggi (le leggi suntuarie) contro i i fasti a tavolo e il lusso limitando il numero delle portate delle carni e dei pesci, così pure le torte salate di pasta farcita, le "chizzole". Dominavano in tavola i primi: marubini, malfatti e tortelli ancora oggi specialità cremonesi.

Ovviamente tutto questo riguardava le tavole dei nobili. Ben diversa era la situazione della stragrande maggioranza della popolazione, per tanti secoli alle prese con la fame e l'indigenza e quindi con storia e tradizioni ben diverse.

 

 

                                                                                         I PIRLIIN O I PIRLEEN

Non si trova quasi più nelle fornerie della città ma un tempo era un pane facile da trovare ovunque a Cremona o nei paesi della cintura. Giorgio Maggi, ricercatore e già professore di chimica, ci aiuta a ricordare questa specialità cremonese.

Pane dolce a pasta brioche mista a latte che ricorda la forma del pane ferrarese ottenuto attorcigliando due “pistole” (pane attorcigliato su se stesso della lunghezza di 15 centimetri). Il pirleén è conosciuto sia nella forma salata che dolce, “il pirleén feén”. Purtroppo è un pane dimenticato dai suoi abitanti non nel nord della Lombardia dove, ad esempio a Lecco, è chiamato semplicemente “il cremonese” mentre in altre zone è chiamato “brichèt” perchè ricorda l'antica forma degli acciarini.

Usato soprattutto come dolce è costituito da un impasto di burro. Il nome del pane cambia accento a seconda della parte della città in cui si trova: pirleén in centro, e pirliìn in periferia (a li porti). La derivazione lessicale del nome è evidente deriva da prilare (girare su se stesso).

La ricetta dei pirleèn mi giunge dalla lontana attività della forneria Radi di piazza Marconi, attiva sino agli anni Settanta. Nel diario di Angiolina Radi, sorella di Cleto che teneva il negozio con Maria Croce, si legge dunque la ricetta: lasciare a lievitare 250 grammi di farina, acqua tiepida con 50 grammi di lievito di birra. A lievitazione avvenuta si impasta successivamente con 750 grammi di farina, 300 grammi di burro, 70 grammi di zucchero, latte e sale quanto basta. L'impasto sarà prolungato e costante. Si lascia lievitare ulteriormente, quindi si divide il pastone in una cinquantina di palline. Si spiana ottenendo una sfoglia dello spessore di circa 1 centimetro. Si avvolgono i vertici opposti, e si dispongono a croce.

Una variante che mi è arrivata fortunosamente da un manoscritto, è quella del cosiddetto Pan Brioche (Pan Brioss nel testo), non compaiono uova sostituite dal latte e lo zucchero è sostituito dal miele.

Giorgio Maggi

                                                                                          LA RICETTA DELLA NONNA (1920 circa)

                                                                                          Il budino al limone per la visita del vescovo

 

La ricetta risale agli anni Venti del Novecento e proviene dal quaderno di nonna Adele di Casalbellotto, frazione di Casalmaggiore. Quando il vescovo andava nelle parrocchie per la visita pastorale, tutto il paese si dava da fare per l'accoglienza. Così nelle case si preparava anche il pranzo per il vescovo Giovanni Cazzani (dal 1914 al 1952 vescovo di Cremona).

Ecco il budino che si preparò in quella occasione.

Numero 7 uova intere, grammi 300 di zucchero, il sugo di 3 limoni, una cartina di zucchero vanigliato, un bicchierino di liquore d'arancio. Lavorare il composto per tre quarti d'ora circa, poi versarlo in uno stampo e cuocerlo a bagnomaria con fuoco sopra. Ricordarsi di ungere lo stampo con il burro.  

 

Nella immagine il dipinto di Vincenzo Campi "La cucina". Guardate il gran daffare che c'era tra chi uccideva il maiale, chi puliva la cacciagione, chi preparava i primi e altro. Osservando la piattiera si nota come tutti i piatti fossero in peltro, a Cremona la sua lavorazione era un'eccellenza.


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