Polenta & gösafèr*, figlio quasi legittimo del pestilenziale garum** dei romani, con due madri: genitore 1, la miseria, genitore 2, una povertà tale che, se uno avesse incontrato se stesso, si sarebbe fatto la carità.
* Non lo si può chiamare piatto, è un espediente per ingannare la fame e soprattutto il portafoglio: consta di rimasugli di pesce (poco) olio (meno di poco, costava!) aglio (parecchissimo era "a gratis") aceto (abbondante, lo si faceva in casa e l'èera mija crùump) prezzemolo ('na bràanca, l'era 'n dèl'òort, a km zero, lo stesso identico numero del $a£do,oo)
** Salsa (eufemismo) a base di interiora di pesce lasciate fermentare al sole. Era facilissimo trovarne le anfore al buio.
Gösafèr, voce dialettale traducibile come "affilaferro", strumento -di solito una pietra- atto a molare una lama, rendendola più affilata. Detta pietra, i nostri contadini, l'avevano sempre appesa alla cintola, pronta alla bisogna, appena la falce dava segni di cedimento. Ciò avveniva molto prima che, coi prodromi del cedimento della falce, si potessero ipotizzare i disastri che, per empatia, sarebbero successi anche al martello ed alla loro joint disadventure.
Etimologicamente si dipana da aguzzare, rendere affilato, in dialetto güsàa, verbo irregolare in quanto sovente usato come congiunzione. Per una esaustiva disamina della questione, i nostri pisàan, non sapendo leggere il kamasutra*, ne apprendevano i rudimenti dalle figure.
Tale pratica intersecatoria avveniva solo se ammantata dalla fede, e con una certa frequenza, cosa evincibile dagli stati di famiglia, piuttosto affollati, dell'epoca.
Certuni si concedevano qualche extra attenendosi ai dettami del tàant l'è mijà savòon che èl sè cünsüma e ossequiando l'assunto qui riassunto: erano felicemente sposati, ma non tra di loro.
Al conseguente atterraggio della cicogna, il passeggero veniva registrato come figlio di padre ignoto e madre mignota.
*Grande fu la delusione, da fotografo, quando scoprii che il kamasutra aveva più di 36 pose.
Il nome gösafèr è proprio quello di un piatto il cui ricordo è inchiodato alla miseria più nera, quella che aveva libera circolazione nei tuguri dei paisàan, quando lo scorrere del tempo era impiegato ad imbastire il pranzo con la cena, sgranando rosari imprecando kankeri e non a inebetire il contenuto della scatola cranica davanti al televisore (davanti, ovvio, perchè dietro la visione è piu monotona).
Ricetta: procuratevi una fame vera dopo una vita di stenti che farebbe considerare un lusso anche solo avere l'alito caldo, provate a zappare nei campi sotto ogni tempo, sotto padrone e sottopagati, provate ad avere un nugolo di bocche da sfamare, dei vestiti laceri, una casa senza riscaldamento e con la moquette in terra battuta. Provate tutto questo (o aspettate di conoscere l'importo della pensione) e avrete l'ingrediente principale di questo piatto: la miseria.
Ora procuratevi un'aringa affumicata (Clupea harengus: Cremona è romana dal 218 avanti c'è posto) comprata barattando uova o farina (soldi? non ci si vedeva dalla fame, figuriamoci se si vedevano i soldi!) dall'ambulante (vendeva anche amboline) che l'aveva sempre tra le mercanzie come insegna odorosa, unitamente alle sardine (Sardina pilchardus in latino, in lattina: sarda sotto sale adatta ai sottosalariati).
Bene, avete procurato la miseria e non sapendo che pesci pigliare tra una quadriglia con quattro pinne, una triglia con tre, una biglia con due, una maniglia con una, avete finalmente deciso per l'aringa?
Ecco la tavola già riccamente imbandita coi piatti dell'epoca. Basta aggiungere la polenta.
Allora appendetela con un filo al soffitto, fatela penzolare sulla tavola in modo che ciascun commensale (scrivesi commensale leggasi componenti famigliari emaciati, sporchi, denutriti e affamati conseguentemente) possa raggiungerla con agio (l'unico agio possibile) e per un mese soffregate delle fette di polenta su di essa con il chiaro intento di asportarne sì l'afrore, ma anche qualche molecola che possa finire sotto i denti, accompagnando la polenta nel suo viaggio verso sud, affinchè questo non avvenga in tanta e desolante solitudine.
E' passato il mese a mangiare polenta e odore di aringa, in otto a tavola? E' rimasta appesa al filo la coda e la testa dell'aringa e le succulenti lische?
Allora possiamo fare il gösafèr, il cui nome, per effetto traslato, viene dal gesto della polenta soffregata sull'aringa, come per la pietra sulla falce, come per il violino di capra che il coltello taglia come fosse un archetto, come il tira e molla che si tirava e mollava fino a farne una dolce matassa, come la raspadüra che prende il nome dalla raspa con la quale si scava il formaggio per asportarne le imperfezioni ed andare sul pulito (funzione usualmente perpetrata ai danni del contribuente dai funzionari dei fisco) o come il pirla e volta, dolce rurale girato e voltato per le merende dei piccini non avvezzi a playstation, pokemon, o merendine asettiche ed asfittiche.
Mi ripeto: gösafèr viene da aguzzare, acuto, acuminato, affilato, tagliente, e in dialetto, il termine "guzzare" viene pure usato come gioiosa congiunzione, carnale soprattutto.
Ma torniamo alla ricetta che avevamo lasciato in stand by. Ci ritroviamo, affamati, con la scheletrica aringa, piena di spine ma senza nemmeno una presa (piena di spine ma senza nemmeno una presa; dovrei scriverlo 225 volt) le facciamo rivivere i fasti di un tempo, rimettendola a nuotare nell'olio, dopo qualche bracciata la facciamo seguire dall'aglio in dosi antivampiresche, una tritata di prezzemolo ed una generosa sgorgata di aceto di vino vero, le faranno compagnia giusto il tempo di fare una vasca limitatamente al periplo della padella.
Voilà il gösafèr, piatto simbolo della miseria nera, un reperto fossile della povertà, una vera reliquia, salvata, prendendola per i capelli, mentre stava annegando nell'oblìo, dopo aver nuotato per secoli nel vastissimo mare della miseria più nera, toccando tutti i porti della fame che ognuno aveva e nessuno voleva.
Provandolo, ricordiamoci di quando la povertà la si divideva con tutti, mentre ora ognuno tiene il benessere per sè.
Tra le foto in alto, scodelle, desolantemente vuote, riempibili col "birèlu", vino (più acqua che vino) da poveri cristi, perfettamente adatto alla miseria del gösafèr. Per testarne l'accostamento, si può abbinarlo alla sola miseria, per la quale è sufficiente
la pensione di vecchiaia che avremo -se l'avremo- essendo certa più la seconda (vecchiaia) della prima (pen$ion€).
Chi, temerariamente, volesse azzardare il cimento di provare questa "specialità" imbocchi, da Cierre, la Via Bergamo (senza metterle la bavaglia) raggiunga, a Corte de' Cortesi, il Gabbiano e nel menù assieme ad altre tentazioni, proverà, assaggiando èl gösafèr, l'emozione del trovarsi imbarcato su un aereo Alit Aglia della Bagnacauda Air Lines.
Un (h)oste(ss) Lilluccio, che adora la liliacea.
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