La fam dei Paisàan (alias sgajùusa, che vòol dìi 'na fam dèl dùu o dè l'ostrega o dèla madòna)
Era la quotidianità, la fame. Altro che pane quotidiano o, per essere precisi, polenta quotidiana. I denti erano disoccupati e in perenne ricerca di lavoro. Anche un rurale salame, nonostante sia un piatto povero, era comunque considerato da ricchi per i veri poveri, qualcosa di molto simile a quando si scopre l'importo della pen$ione, $e mai questa un giorno arriverà.
Quindi, sognando, si illudevano e agognavano l'agognata pappatoria da dupràa cun la machina dè sgagnàa el bròot, di questo i poveri si dovevano accontentare, cose molto più parche, queste ad esempio... aspetta che metto il sotto-sottotitolo...
L'APPETITO VIEN DIGIUNANDO (ovvero la fame, argomento sconosciuto agli epigoni di M@astèrsièph)
I nostri contadini non conoscevano tabelle nutrizionali, apporti calorici, alimenti nutraceutici, ma avevamo una discreta dimestichezza con un argomento strettamente correlato, anzi due: uno, la fame, interprete principale della loro vita, malattia facilmente diagnosticabile e curabile con cibi autoprescrivibili ma non mutuabili; due, la miseria, degna deuteragonista.
Fame, in dialetto targato cierre, non è l'accrescitivo di languorino, è proprio fame, la fame dello Zanni per intenderci, fame accumulata da generazioni e di cui il povero paisàan in questione si faceva carico, avendo fame per sè e per il proprio albero genealogico, sovente stracarico di fronde. Fame, che in dialetto assurge ad un nome preciso: sgajùusa, traducibile "similcircaquasilmente" in impellenza fisica di mangiare, tipico di chi armeggia quotidianamente la povertà e la fatica.
Il loro esercizio ginnico, molto mattiniero, partiva col riscaldamento muscolare nella palestra che si chiama stalla, previo asciolvere con ingestione di polenta avanzata e latte (uno dei due caldi, uno dei due freddi, quello che la "cusin fransèes" appelle chaud-froid) o minestra rimasugliata o -roba da sciuri- pane e pancetta bollita, una generosa fetta -nomasi slèppa- con cotenna in acqua "bollida" e s'ciau (traducibile in null'altro).
Il più delle volte il menù riportava queste voci: pulèenta e üss vèert (polenta e uscio aperto, invero dietetico assai) pulèenta e còo dèi dìit (polenta e punta delle dita, con eventuale insperato apporto proteico in caso di autofagìa, ma per risparmiare anche su quello, l'onicofagìa [mangiàasè ì ungìi] era più in auge) pulèenta e aria fritùla o -lusso- pulènta e gratòon, gratòon in bàla (sorta di sopressata, ormai sparita, soppressa) o cun la pistàada. Eloquenti foto a corredo dell'articolo, fatte da un fotografo bravissimo (dove finisce il suo dito -il mio- inizia una Nikon) sono qui in alto e solo a vederle vi si alzerà il colesterolo.
I nostri affamati avi non sapevano che molti anni dopo avrebbero potuto chiedere le royalty$ (manca la e di €) ai grandi chef; ora costoro servono veramente tale ipocalorico piatto [irrorando l'aere attorno al tavolo di effluvi gnammerecci] senza nemmeno il contributo glucidico del pastìss dè melègòtt).
In certi locali stellati misclèn, ho visto servire, in piatti di ceramica Limoges, gratòon e pistàada, corredati da regolamentare polenta in dosi francobolliche. Questa mesaillance stride così tanto con la natura paisàana dei cibi, contestualizzata nel mondo corrusco stellato -ribadisco lo strafalcione- misclèn, che è come vedere uno spaventapasseri col vestito firmato da Armani. Èn cunsubiòtt, una discordanza, un pastiche, un insulto, 'na purchèria.
Torniamo al villico. A metà mattina, dopo un 5 orette di lavoro in stalla a mungere dalla vacca quella sostanza che il genio di Bergonzoni ha chimicamente siglato come Vacca 2 O (VH2O) e dopo che il tortuoso viaggio verso sud del cibo avvenuto in tanta e desolante solitudine, senza quindi la compagnia di quel confort food così in auge al momento (ma il nostro rude agricolo avrebbe optato per un confort wine e in dosi non omeopatiche) la sgajùusa batteva alle pareti dello stomaco con quella fastidiosa insistenza tipica dei venditori porta a porta.
Veniva allora in suo soccorso un medicinale di pronto intervento: si chiama salame; dal blister della sua confezione usualmente serrata con legami suin generis, venivano estratte due pastiglie autosomministrabili per via orale, placando un poco i sintomi della malattia ereditaria di cui s'è accennato. Se il dispensario dello speziale ne era sprovvisto, polenta e cipolla divenivano un succedaneo forzatamente gradito e con rurale humor ci si autocanzonava con "Quàant gh'è la fàam, la pulèenta la pàar salàm"
Il km 0 era di casa, nell'orto precisamente, dove senza saperne di apporti proteici, il nostro paisàan piantava e curava, fagioli, lenticchie, ceci e civaie varie che divenivano, una volte essicate, la scorta invernale necessaria a quei poveri mangiari, fatti di ingegno (un pizzico) inventiva (èn cicinìin) povertà ('na spòrta) miseria (èn carètt) kankeri (n'infinità). Solo la dignità era in dosi pletoriche.
Terminato il lavoro indoor, v'era da andare a tirare accidenti nei campi, vestiti come spaventapasseri e quasi con la stessa alimentazione di quest'ultimi. L'ora del merendez-vous coi famigliari portatori sani del vettovagliamento, arrivava a metà pomeriggio e senza le plasticatissime industrialissime confezioni richiamanti mulini dal colore alcuno. Constavano di quanto l'orto si era ingegnato a far crescere e quel rompidigiuno svaniva voracemente sotto forma di pane & pesche (& ciliegie & pere [cotte, talvolta, se durissime] & fichi & uva, non -sia chiaro- & & & ma o o o) o pane "sordo" (senza nientissimo, facile da reperire all'epoca) o il sempiterno pane (quàant la 'ndìiva bèen) con peperoni sottaceto, cetrioli sottoidem, curnètt in ajòon (fagiolini verdi in aceto e prezzemolo con aglio in dosi transilvaniche).
La carta dei vini vedeva il fiasco del vino rosso, più brusco che lambrusco, a mollo nella roggia, a guisa di glacette, e sgargarozzabile alla volèe.
La sera, poi, ci si ritrovava nel salotto della stalla, per avere accesso alla quale il telepa$$ del padrone riscuoteva un tot di ore lavoro nei campi a grati$, un tot di legna di piante capitozzate (in dialètt sòche, le più dure da tagliare, le lasciava amabilmente ai suoi sottosalariati) per il caldo gentilmente offerto dalle mucche (non per gli effluvi scatologicamente offerti dal sottocoda delle medesime) e un altro tot come contributo volubilmente dovuto ai suoi capricci, per il consumo della lampadina da 20 candele che altrimenti avrebbe depauperato le sue $ostanze. Taluni rientravano dalle spese soccorrendo la di lui consorte, nei di lei momenti di smarrimento.
In questo autogrill, tra donne che sferruzzavano, ciacolavano, nonni che raccontavano tiritèere, bambini che facevano i bambini e non i followers, si sgranocchiava qualche povero, rude, fuori pasto: potevano essere i ciucaròoi (castagne secche, una sola richiedeva una buona mezz'ora per essere masticata e questo la rendeva economicamente appetibile) un cifùt (un dolce da nulla con polenta avanzata e addirittura il grasso del cotechino tenuto da parte alla bisogna) la dulcamara, una radice similliquiriziosa, amara al gusto ma poi dolce al momento di farla seguire da un sorso d'acqua, o èn pùm picènìin, alias mela, nostranissima, cosmeticamente invendibile nei supermercati moderni, biologica e a km zero senza saperlo. Ah, se Adamo avesse mangiato la foglia!
Nato prevalentemente a Cremona (quindi queste cose le ha viste e vissute)
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commenti
Lilluccio Bartoli
30 novembre 2024 08:35
Una giornalista vera, non un ^€^__#€,"&%^ come me, al riguardo di quanto ho scritto, ha scritto...
Amaramente bello, racconti bene la miseria della campagna, sia miseria in senso €conomico che in senso di umanità che prima di vivere doveva imparare a sopravvivere. È un racconto dulcamaro (cit.) perché se ad una lettura superficiale può strappare un sorriso (ma non credo sia lo scopo dello scritto), leggendo tra le righe traccia uno spaccato crudo e amaro di quella misera povertà. E il contraltare di masterscièph e stellati vari (facile fare lo stellato col <>&€#&=_&/=÷ degli altri, verrebbe da dire) dà una nota quasi grottesca
Giuseppe FRANZOSI
30 novembre 2024 12:51
Giuro tutto vero dai racconti di mio papà, figlio di paisan e nipote di bergamin ma la parte più divertente.....quando il padrone rientrava dalle spese con le mogli dei paisan....sai quanti ignoti uno girano ancora adesso.😂😂
Lilluccio Bartoli
30 novembre 2024 17:02
Vedo che hai saputo cogliere! Se uno non sa cogliere... come si chiamano quelli che non cogliono?
Lilluccio Bartoli
1 dicembre 2024 08:48
Non difettandomi l'amor proprio, riporto un commento giuntomi privatamente...
Grandioso
Lo rileggerò con più calma
Troppe cose intelligenti e interessanti insieme… nn son abituato
A presto