20 febbraio 2023

E con gli avanzi: el cifùut, la bertulìna, la bertuldìna e la chisòola

Ancora una puntata de "L'appetito vien mangiando" con il cibo riusato in una serie di ricette provenienti dalle memorie di cremonesi, calaschi e cremaschi raccolte da Agostino Melega. 

El cifùt e le focacce cinerine 

Attorno a quel camino, attorno a quella bocca di fuoco, mentre molti anni fa si raccontavano storie ai bambini, si svolgeva pure un altro rituale: quello della preparazione di rustiche focacce o schiacciate, cotte sui carboni accesi o sotto la cenere de ‘l sòch, del ceppo, del ceppo di legno e del clan, il ceppo della “cenere degli avi”. Ed è possibile ipotizzare che i singoli avanzi destinati a bruciare nel fuoco - fuoco concepito come l’Avo per antonomasia  -, siano stati poi usati per comporre impasti da cuocere e consumare in condivisione con lo stesso mondo dell’Aldilà. Impasti a base di farina di farro, di miglio, di melica, di frumento ed infine de melegòt, di granoturco, nei secoli successivi alla scoperta dell’America da dove il mais venne importato per la prima volta in Europa. E’ possibile arguire che queste mescolanze di cibo residuo, lavorate nella dimensione del rispetto religioso dei defunti, abbiano potuto esercitare una funzione propiziatoria e apotropaica, al fine di allontanare le negatività dalla casa, in comunione stretta con chi non era più presente in materia ma solo in spirito. Una di queste ciambelle, testimoni di rituali familiari di condivisione profonda, era el cifùt, un impasto formato con "avanzo di minestra con aggiunta di burro, farina e zucchero. Veniva messo in una teglia o avvolto nella carta da zucchero e posto sulle braci".

Del cifùt ci viene ricordato anche un altro impasto: "acqua, farina, crusca, con gli avanzi dell’impasto della sfoglia per le tagliatelle". Abbiamo pure una terza variante:"Pasta avanzata con aggiunta di uova, sale, olio, pepe. L’impasto veniva messo sotto forma di ciambella, poi fatto cuocere sotto la cenere per tre quattro ore. Quando era pronto si doveva soffiare o togliere con una spazzolina la cenere caduta sopra".

La bertuldìna

Altra focaccia era la bertuldìna, un impasto di polenta avanzata, alla quale "veniva aggiunto lievito e fatta friggere. Una volta fritta veniva cosparsa di zucchero" . Essa era diffusa anche nel Cremasco, ma con una variante nell’impasto. Infatti lì viene definita: "Specie di focaccia in uso nelle campagne, fatta di farina di granoturco e frumento con ripieno di frutta cotta". 

La bertulìna

Invece la bertulìna era composta "col riso avanzato nel pranzo, mischiato con farina bianca e gialla e deposta nel focolare." Un altro impasto da citare è quello che era chiamato murùuza (amorosa), fatto con la pasta avanzata. "Si metteva la pasta asciutta residua in una teglia, si aggiungeva un po’ di pomodoro e la si faceva scaldare sulla cenere". Dove abbiamo un preciso riuso della polenta è la chisóola del Casalasco, conosciuta come la chisöla dulsa at pulénta (schiacciata dolce di polenta). Così viene ricordata la sua ricetta: "S’impasta un po’ di polenta avanzata con la farina bianca e si fa una schiacciatina rotonda, si preme con la punta delle dita per fare i “buchi” e si fa friggere nello strutto. Infine una spolveratina di zucchero". 

La chisòola

Questa schiacciata, molto apprezzata negli equilibri alimentari d’un tempo, oltre che con gli avanzi di polenta veniva ottenuta con il pane condito con burro e frutta. Essa veniva restituita con gli interessi a chi l’avesse messa a disposizione. Non deve meravigliare, infatti, che sia rimasto nella memoria collettiva un proverbio che dice: "pàan in préestit, chisóola rendìida (pane in prestito, chisóola restituita)", ossia che è d’obbligo restituire più di quanto si è ottenuto in prestito. Una cosa è certa: con la chisóola veniva messo un tappo alla sgajùuza, la perenne e diuturna fame.

A Cingia de’ Botti, ci viene detto che i chisóoi erano "focaccine fatte con farina, acqua, lievito, strutto di maiale (in mancanza del burro), poi mangiati con intingoli". Mentre i chisulìn "venivano preparati con: polenta avanzata, farina bianca, zucchero, latte. Si schiacciava la polenta con la forchetta, si aggiungevano gli altri ingredienti, per ultimo il latte e si impastavano un po’ per volta . Si lavorava con le mani fino a formare delle polpettine piatte che venivano fritte nello strutto". A Crema, i chisulì, piccole focacce dolci, venivano a loro volta preparati per la ricorrenza del Carnevale, con l’uva passa cotta in olio bollente. 

In questa dimensione di varianti dialettali per cibi con lo stesso nome ma aventi impasti diversi, va pure ricordata la chisóola óonta (la focaccia unta), a base di ciccioli di maiale e deléech (strutto), preparata ogni anno per il 17 di gennaio, nel giorno in cui si celebrava e si celebra Sant’Antonio Abate, protettore degli animali e dei fabbri, nel giorno d’inizio del Carnevale cremonese. 

Sul rapporto fra vita e ritualità religiosa, folklorica ed alimentare, abbiamo raccolto un altro segno che rimanda ad un orizzonte arcaico e mitico. Per l’ennesima volta è quello di una fine focaccia, il cui impasto risultava annerito nella cottura a causa dei gratòon, i piccoli ciccioli di maiale inseriti. Per tale motivo essa veniva definita fügàsa gratùna, cotta molti anni fa nella cenere in quel di Cingia de’ Botti. Con i gratòon venivano amalgamati farina, lievito, olio ed un po’ di latte avanzato.

La foto è di Antonio Leoni ed è stata realizzata a Castelponzone negli anni Settanta



Agostino Melega


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