L'uccisione del maiale. El rìis cun le véerze mate
Da bambino mi capitò più volte di trovarmi in cascina, a casa di mia zia, al momento dell’uccisione del maiale e di questo “rito” drammatico, ho ancora un ricordo vivissimo.
Il maiale, a quei tempi, veniva fatto ingrassare fino a raggiungere una dimensione che rendeva stretto il porcile nel quale era stato allevato: se ricordo bene, si parlava di un peso attorno ai due quintali, peso raggiunto, quasi esclusivamente, alimentandolo con gli scarti della cucina e dell’orto delle due famiglie che lo allevavano.
Arrivava il giorno nel quale il norcino (èl masalèer) si rendeva disponibile; noi bambini, particolarmente eccitati, ci svegliavamo che era ancora notte, udendo le grida stridule del maiale che, liberato nell’aia, faceva alcuni giri di corsa voluti (così mi dissero allora) per fargli scaldare la muscolatura.
Poi veniva bloccato e ucciso e noi ci tappavamo le orecchie per non sentirne le ultime urla strazianti; appena intuivamo che il “dramma” era concluso, uscivamo all’aperto per seguire, con grande curiosità le precise e frenetiche operazioni successive. Trovavamo il maiale già appeso con una carrucola ed il norcino che, usando l’acqua calda, ottenuta col grande paiolo della fornace (la furnesèeta), normalmente usato per i periodici lavaggi delle lenzuola (la bugàada), toglieva in fretta la peluria dalla cotica.
Contemporaneamente provvedeva a far colare il sangue che sarebbe stato usato lo stesso giorno per preparare la “torta”, prelibatezza che avremmo gustato nei giorni successivi, accompagnata da belle fette di polenta abbrustolita, col treppiedi, davanti al fuoco del cammino.
Tutti, salvo noi bambini, erano impegnati ad aiutare il norcino nello svolgere tutte le operazioni necessarie: mentre le donne pulivano e preparavano le budella per salami e cotechini di varia pezza, era importante macinare in fretta la carne, porla nel grande mastello di legno, condirla con sale, pepe e vino con aglio macerato, mescolarla a lungo con le mani e tanta energia, per amalgamare bene le parti grasse, abbondanti nel vero salame, cremonese, con la carne magra, e insaccare l’impasto mentre era ancora caldo. Il seguito sarebbe lungo da raccontare: la divisione delle povere parti residue di carne da mangiare fresche, la stagionatura, importante perché i salumi prodotti sarebbero stati parte fondamentale del nutrimento per un intero anno, la salatura del lardo, alto 4 o 5 centimetri, che doveva avvenire lentamente; mentre era steso, rappresentava una tentazione continua per le nostre merende (golosità che oggi risulta forse incredibile).
Una sola cosa, mi sento di aggiungere: da quel maiale, gli unici pezzi importanti non utilizzati per salami e cotechini, erano le due spalle che venivano fatte stagionare, cotte a turno dalle due famiglie e suddivise secondo l’appetito di ognuno: persino in questo mi è rimasto il ricordo di una grande solidarietà, molto diffusa quando si era poveri e sparita, forse, con il benessere.
Rìis cun le véerze màte
Legato alla uccisione del maiale è anche un piatto tipico del periodo: el rìis cun le véerze màate. Verso la sera dell'uccisione del maiale, si metteva sul camino la pentola con acqua e sale con dentro le ossa del maiale. Poi si schiuma e si cola il brodo in una pentola più piccola. Si preparano il sedano, le carote e le verze tagliate a listarelle. Quando le verze sono cotte si butta il riso (due pugni per ogni commensale). Prima di togliere dal fuoco il riso, si versa anche una scodella di pesto di salame fresco e saporito. Ancora pochi minuti di bollitura, poi tutto è pronto. Il riso si accompagna con vino rosso.
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