28 maggio 2024

La Besumèera. Per parlare di Vescovato, vescuàdin, benedét e chissola

Besumèera, era l'unico piatto di carne che si poteva permettere solo chi era così povero da non avere nemmeno l'alito caldo.

Attenzione la lettura del "pezzo"(che l'è bèl lùunc, ciàpètè 'na stèmana dè fèerie) e la visione del video può aumentare il colesterolo, non a me, già alto di suo (e infatti i nani di Biancaneve, almeno quello, di alto, lo vorrebbero)

Tòh ciàpa il video, girato a casa mia, della besumèera, piatto fatto coi ritagli di carne anatomicamente (che non vuol dire non nucleare) meno nobili, la cui preparazione è stata documentata grazie ad una idea dei fratelli Lumière. https://youtu.be/SoEj3sO6ZO8?si=6qeBzmkCYm_6wSSO

BESUMÈERA

ingredienti (così illudo il direttore che vuole la ricetta)

Una mucca che ci lasci la pelle

Un macellaio che la convinca ad indossare un altro vestito e che scarnifichi quello precedente

Un vescovatino che conosca la ricetta e quel macellaio.

NOTE DIETETICHE

La besumèera è autoprescrivibile e non mutuabile

Prodotto da autosomministrazione per via orale

Abitualmente si prende durante i pasti

Ingerire con poderoso e rurale lambrusco

Non contiene olio di palma

NOTA DEL G. I. C. N. S. P. D. C.

(Nota del Goloso Impenitente Che Non Si Preoccupa Del Colesterolo)

L'è buna!

ALTRE NOTE

Do

Re

Mi

Fa

Sol

NOTA DOLENTE

Ahi!

Quando han girato il video doveva essere una sola puntata e invece hanno registrato tre puntate mirate fuoco!

Nel video mancano, very purtroppament, le note qui s8....

CASA DI LILLUCCIO BARTOLI (daghè n'uciàada alla chiosa finale -e anche a qualche foto- comprenderai com'è fatta e come funziona: tutti fanno una casa e si chiudono dentro, io la apro a tutti gli amici chissà perchè nessuno vegano e idem astemio) LUOGO DI BOCCE BOCCE (BISBOCCE) E SOLO PER AMICI NON ASTEMI.

NON TROVERETE L'INDIRIZZO DI QUESTA CASA A MENO CHE VI PERDIATE NELLA CAMPAGNA E ABBIATE LA SVENTURA DI CONOSCERE IL PROPIETARIO.

BARTOLI RINGRAZIA CHI LO HA RIPRESO ED HA AVUTO IL CORAGGIO DI GUARDARLO RITROVANDOSI COL MORALE RASO AL SUOLO CHE NON È UN TAPPETO DI STOFFA PREGIATA.

La besumèera, un piatto perduto nel tempo che nessuno ricorda più (e che uso come scusa per parlare di Vescovato).

Inutile cercarlo nell'appiattimento dei menù odierni livellati dal benessere.

Piallando la miseria, quanta nostalgia abbiamo persa nei trucioli!

"Besumèra" voce dialettale della bassa cremonese, più correttamente si scrive "besumèera", non correttamente besumera. Piatto recuperato dagli scarti della macellazione, più propriamente dalle pelli scuoiate. Si raschiava quel poco che il "bechèer" (macellaio) lasciava attaccato e con molte erbe (basilico menta rosmarino salvia alloro) si cuoceva lungamente in pignatta con burro (ab antiquo strutto) tutti gli odori dell'orto (carota porro cipolla aglio sedano prezzemolo) conserva di pomodoro, spezie (noce moscata chiodi di garofano pepe) e generose spruzzate di vino per ore ed ore, fino ad offuscarne gli afrori per non cogliere le nuances della concimaia ad essa più adatte che non al desco. E' probabile che il nome derivi dal rafforzativo di unt (unto) che diventa bèsunt (bisunto) dato che di vera carne nello scuoiare la bestia non ne rimaneva molta a favore del grasso. Può darsi che per la felicità di finire nella besumèera il soggetto mucca non stia più nella pelle.

Del piatto s'è persa la memoria rimanendone solo una traccia a Vescovato (Cr) fondata dai romani col nome primigenio di Vicus Decius, paese di giradùur (ambulanti) che mercanteggiavano pellame per le concerie tanto da essere soprannominati come vescuàdin màjacarugni: vescovatini mangiacarogne. La cosa è dovuta al fatto che raccogliendo pelli di animali appena scuoiati (come potrebbero altrimenti fare la besumèera?) vengono così canzonati dai paesi vicini che a loro volta vengono contraccambiati con colorati epiteti alcuni dei quali riferibili, altri meno. Per la cronaca anche i paesi limitrofi hanno la loro nomea: Fasulòon, quelli di Pescarolo, per l'attitudine al consumo di detto legume e non perché portati ad una facile creduloneria; dòramelòon a Cappella de' Picenardi per una burla dovuta ad una processione dove ignari si trovarono ad adorare un melone, pur non essendo la cucurbitacea ancora assurta alla beatificazione celeste; scànacrist a Cicognolo, per la scarsa propensione a varcare il soglio ecclesiale e ranèer, affibbiato, anzi anfibbiato, agli abitanti di Grontardo, per la comprovata dimestichezza ad ammanire i batraci.

Coloritissimi i soprannomi dei vescuàdìin, solo per citarne alcuni: Màjanùus, Pàan e oof, Càcanigra, Pànsa Rùzèna, ovvero Mangianoci, Pane e uovo (dall'abitudine alimentare dei soggetti) Caccanera, ad un certo punto attualizzato -anglicizzandolo- in Stercoblack (c'entra anche qui l'alimentazione, ma non è il caso di soffermarvisi) Pancia Ruggine, forse per la prerogativa d'avere uno stomaco di ferro?

Fatto storico, avvenuto a Ca' de' Stefani -ora inglobato in Vescovato e ai suoi abitanti le palle ancor gli girano- che sfido i vescovatini a conoscere; riporto pari pari (non sono balbuziente) dal libro "Descrizione dello stato fisico politico statistico storico biografico della provincia e diocesi di Cremona." di Grandi Sac(erdote) Angiolo. "Avvenne nel 1527 pur quivi orribile e miserando caso. Un certo uomo essendo d'assai molestato da un empio soldato, ospitante nella di lui casa, che persisteva in volere delle carni da mangiare, aspramente minacciandolo e fieramente percuotendolo perché non ne aveva, e nemmeno denaro per provedergliele, uccise per l'immane milite una sua figlia d'anni dodici ed un fratellino di questa d'anni otto e avendo le loro carni gliele presentò per il fiero pasto. Inorridito in un subito per un si atroce e barbaro misfatto, e più non potendo resistere alla foga del dolore che l'opprimeva, corse da forsennato a sommergersi nel fiume Oglio. Se sussiste verità di codesto fatto, riferito dal Cavitelli storico cremonese, è da pareggiarsi alle barbarie dei Druidi e degli antropofagi dell'interno dell'Africa e delle isole selvagge."

Don Angiolo Grandi nel suo libro del 1856 diceva anche degli abitanti di Vescovato: "…attendono, la più parte, al traffico sì delle nostrali che estere merci; ed in ciò sono così svegliati ed avveduti che per tale loro particolarità non si andrà errato l’asserire esser eglino distinti in fra tutti i cremonesi. Tutti negoziano; nulla manca perciò al borgo di quanto occorre al vitto, al bisogno comune ed anche al lusso".

Nei primi decenni del ‘900 il vescovatino assunse una sua caratteristica particolare, diffondendo il suo "marchio" anche in contrade lontane. Fornito di robusta bicicletta con doppio portapacchi e di bilancia, di parlantina sciolta e dialettica efficace (Vescovato era detto "el paèes de la rezòon" ovvero paese della ragione) batteva tutti i paesi del cremonese e delle province limitrofe, spingendosi anche nel Veneto e nel Piemonte.

Oggetto del suo commercio era la raccolta di tutti quei materiali che adesso vanno ad intasare le discariche. Il grido del giradùur li elencava condendoli con lazzi e riferimenti maliziosi.

"Cavéi, stràs, òs, còorda rùta, cavedéla, sìira, fùunt de bùta, bavéla, fèr rùt e pej de gàt, falòpi e dùni broti per nigùta". (Gino Olzi). Traduzione in circamenoquasi lingua italica: "Capelli, stracci, corde rotte, fondi di botte, ferri vecchi e rotti, donne brutte... per niente." Insomma prima di garantire un avvenire nella pattumiera a meritevoli oggetti e immeritevoli soggetti, dateli a me che, ve lo giuro, non ve li pagherò affatto.

Su Vescovato ho ritrovato anche questo, ma non ricordo dove e di certo non l'avevo perso io: Il territorio di Vescovato, non era considerato "cremonese", ma una enclave mantovana, essendo feudo imperiale affidato ai Gonzaga, e come tale godeva di particolare ed autonomo regime amministrativo soggetto direttamente all’autorità imperiale.

L’attività delle filande ebbe un periodo di grande prosperità attorno agli anni Venti e Trenta del XX secolo, quando impegnava in lavorazioni stagionali un migliaio di persone, soprattutto donne. E’ in quegli anni che la prosperità economica favorisce lo sviluppo edilizio del paese (nel gonfalone comunale rappresentate da tre bozzoli, unitamente al bastone pastorale vescovile) con la creazione di un nuovo accesso rettilineo in uscita da Ca' de' Stefani verso Montanara e la SS 10, lungo il quale sorgono eleganti edifici e villini di gusto liberty, gusto mai trovato nel frigo dei gelati, ma sicuramente conosciuto al fresco nelle patrie ed estere galere. L’attività più tipica del luogo, quella che definisce per antonomasia i Vescuadin, era quella del piccolo commerciante girovago, il giradùur. Sempre in giro con la tipica bicicletta attrezzata di capienti ceste, egli raccoglieva varie mercanzie: una sorta di raccolta differenziata porta a porta in cambio di pere cotte e pezzi di sapone, finalizzata al recupero e riciclaggio dei materiali più umili: dagli stracci alle piume, metalli, vetro e carta, pelli, ossa e scarti di macelleria, setole e rottami che alimentavano piccoli laboratori artigianali per la produzione di spazzole, pennelli, sapone, pelli conciate, dolciumi che ritroviamo ormai ovunque sulle bancarelle delle sagre paesane. 

La contrada ov'era la maggior concentrazione di tale graveolente mercanzia, ancor'oggi è nomata, con guascona ironia, Bèlaria, bella aria, non male nel paese dei màjacarugni. Il medesimo afrore lo si può cogliere anche sulla strada per Bagnarolo, quando si arriva alla Bùdèlèera (edificio ove lavorano budella per futuri salami, anche se a casa mia i salami non hanno un futuro) un apposito segnale olfattivo avvisa dell'arrivo nella località che potrebbe contendere il primato mefitico della contrada Bèlaria.

A comprovare il fatto che Vescovato era un coacervo di guitti, truffatori, mariuoli e burloni i cui geni sono giunti fino ai giorni nostri sarebbe interessante conoscere l'artista che dipingendo le marezzature marmoree della chiesa della Resca, vi ha inglobato (non certamento durante il cretaceo, data la giovane età del marmo -fintissimo- in questione) una lucertola, un gallo, un cane, uno scorpione e non so cos'altro dato che la chiesa è picta ovunque. Conosciuti invece sono alcuni elementi con scarsissima propensione al lavoro ma con spiccata simpatia alla gradevole e confortante presenza di palanche nelle proprie tasche, traslate colà e artisticamente separate dai legittimi proprietari divenuti, contro la loro volontà, ex proprietari. Avvenne così che una impresa che si chiamava Maialino rosa improvvisamente dovette cambiare il nome in Maialino al verde, che un sottrattore di altrui cose preferì per anni dimorare alle isole Tonga per non essere sfastidiato dalla benemerita e che un suo compare trasbordò un congruo carico di pneumatici prendendoli in prestito perpetuo senza recare il disturbo di avvisare la ditta legittimamente detentrice, acquisendo così il titolo di Conte Firestone. Ricordo personale: Alfredo Pedroni, per tutti Cilìpo, giradùur, di proverbiale scaltrezza ed altrettanta inattitudine a compiere quell'anchilosante operazione che è mettere mano al portafoglio se non è quello altrui. Quando chiese un mezzo cappuccino, il barista non si scompose: "Aspetto quello che ordina l'altro mezzo e te lo do.

Da vescovatini sapevano come pelare le proprie vittime, esattamente la stessa operazione  che bisogna compiere -pelando la pelle- per avere la materia prima della besumèera

Ecco così che estrinsecando "pelli, ossa e scarti di macelleria" si arriva all'approvvigionamento necessario per la besumèera. Un piatto di tale povertà ha non poche affinità con la "cioncia" anch'esso derivato dal quinto quarto, ovvero gli scarti della macellazione e che si preparava a Lucca; altrove -nell'aretino e nel senese- assume il nome di grifi. Una trattoria, il nome è un programma "Da Giulio in pelleria" a Lucca, guarda caso in via delle Conce, la serviva fino a qualche anno fa. Piatto di poco conto (vale una cioncia è il modo di dire) ma era l'unico che portava in tavola la carne quando questa era altrimenti introvabile dato il divieto di circolazione del benessere imposto solo per i villici. Quando si presentano le stesse situazioni si arriva alle medesime soluzioni: sul lago di Cabras, in Sardegna si fanno le barche in canna palustre con la coda tronca. Sul lago Titicaca, in Perù -e senza scambiarsi files via internet- galleggiano barche in canna palustre con la coda tronca.

Potrebbe esservi un nesso, tra Lucca e Vescovato: gli Estensi colà stazionarono e una tale Isabella d'Este maritata Gonzaga (guarda caso la signoria di Vescovato)... magari aveva uno scalco transfuga -sicuramente villico, data la scarsa propensione alla nobiltà del piatto- e portatore sano della ricetta.

Il fabbro (Bigiu èl frèer: Luigi il ferraio alias fabbro, di cognome Cottarelli, defunto nel 1975 nella sua bottega dove mai era arrivata la corrente elettrica) che me ne ha rivelato l'esistenza, mi diceva che la mangiavano nel "turgòol" cosa avvolta nel più fitto dei misteri.

Spiegazione sulla deontologia del fabbro: fabbro, mestiere che conobbe epoche gloriose ai tempi dei crociati, quando i legittimi proprietari delle chiavi d'accesso alle grazie muliebri -prudentemente munite di cintura di castità- non facevano un frequente o felice ritorno perché imprudentemente incappati in qualche infedele scimitarra moresca. Il prosperare dei vari cognomi Fabbri, Ferrari, in Italy; Le Febvre (per la cronaca, in dialetto locale, fabbro, si dice frèer) en France; Schmith, Schmidt, in Anglosassonia, sono lì a testimoniare l'arrovellarsi per rendere cornuti i guerrieri della terra santa, da parte di combattenti impegnatissimi -su fronti intersecatori assai più prosaici- in battaglie che usualmente hanno entrombi i contendenti, vincitori. 

La sua bottega (siamo tornati al fabbro) distava soli 50 metri da un vecchio macello e forse è per questo che ne era rimasto l'ultimo depositario. Quanti a Vescovato sanno che lì si trova una cappelletta con resti ossei, non certo spolpati per la besumèera? Quando Bigiu mi disse che sua nonna (la madre non aveva mai fatto la besumèera perchè le ricordava la fame più nera) la profumava con la menta, rimasi stupìto dato che, essendo quest'erba assolutamente estranea alla tradizione locale, mai l'avevo trovata tra gli ingredienti dei piatti indigeni. Mi chiese di seguirlo, 50 metri e dietro l'angolo del macello mi mostrò un ferace cespuglio di menta il cui afrore, smuovendone le foglie, ancora ricordo. Ciàpa e pòrta a ca'.

Non mi sono scordato del turgòol, l'avevo lasciato in stand by. Dirimerne il busillis ci si può solo provare trovando assonanze col truogolo, ma più verosimilmente -di ipotesi si tratta- di torcolo alias "tòrc" che Angelo Peri, nel suo vocabolario datato 1847, parla di "macchina di più guise per istringere comprimere spremere" come se quel "turgòol" servisse a togliere più grasso possibile data la preziosità del medesimo. Modo di dire dialettale è affermare che una persona schizzinosa "La sé làmènta del bròot gràss" considerando invereconda la cosa dato che di quel grasso si dovrebbe gioire, questione suffragata da "crèsèer in dèl bròot gràss" che sta a indicare il crescere nell'agiatezza esattamente come "nudàa in de 'l gràss" è il vivere nell'abbondanza. E' chiaro che il grasso non ha alcuna valenza negativa eccezion fatta nelle analisi quando si appalesa sotto la voce colesterolo e il suo valore si discosta dal prefisso per divenire un numero di telefono. 

Nota al lettore che si pone qualche domanda e al quale pongo (pongo, non plastilina) io qualche domanda: tra le domande che si possono fare o parole dalle quali desumere ipotesi etimologiche o quant'altro, vi potrebbero figurare quello che ti piazzo -caro lettore- qui sotto e sono tutti termini dialettali assolutamente veri, tranne la besumèera (inesistente su tutti i testi da me consultati e nessuno ne sa niente nemmeno a Vèscuàat, tranne il qui scrivente e il de cuius di cui sopra ma ora sotto(terra) scritta nelle varie forme besumèera besumèra, besumera. Trai spunto ed espunta quello che ritieni valido per la pastura atta ai boccaloni golosi che vo' cercando per saziarne la golosità intellettiva.

Besumèera: Solo ipotesi al riguardo delle origini del nome; l'unico testimone farebbe un salto di un metro per raccontarlo, ma gliene mancherebbe un altro per uscire allo scoperto. Ipotizzabile da unt besùunt ovvero molto grasso e cioè lo scarto maggiore della bestia macellata che in epoche lontane, dove il benessere aveva parecchi limiti all'accezione dei più (e anche di qualche meno) era apprezzato. Ora si assiste a siparietti comici dove si toglie il grasso del prosciutto e poi si pappano le patatine fritte senza strizzarle. Era pur sempre un notevole apporto calorico in periodi in cui il contado era così povero da non potersi permettere nemmeno l'alito caldo e men che meno problemi di linea. I seguenti sono tutti aggettivi attinenti, riportati tali e quali dai vari dizionari cremonese-italiano. Tu dimmi se con simili approfondite ricerche la besumèera non ha tutti i diritti di fare il suo trionfale ingresso (ingrasso starebbe meglio) nel gotha dei piatti perduti. Chi avrebbe mai detto che nel palinsesto delle golosità, un fabbro, avrebbe  messo in onda -e in chiaro- la besumèera?

Besuntàa: Ungere con olio o grasso 

Besuntamèent: Impiastricciamento di unto 

Besuntèen: Chi si sfrittella, ma anche sinonimo di sudicione 

Besuntèeri: Untume 

Besàs: Cosa di poco conto, come cioncia 

 

Repetita iuvant: la besumèera (besumèra, besumera) veniva servita nel turgòol piatto o pignatta di cui s'è persa ogni traccia ma che nel nome ha parecchia affinità con truogolo, la mangiatoia del maiale, cosa che sottolineerebbe (questa la sottolineo: sottolineerebbe) la natura poverissima di questo piatto dimenticato e sopravvissuto solo a Vescovato, paese di grandi singolarità culinarie e storiche dato che è stato per anni un territorio enclave dei Gonzaga completamente circondato dal cremonese pur non facendone parte. 

Questa singolarità, aumentata da parecchi ebrei voluti dai Gonzaga perché esperti nel commercio (l'enclave era zona tax free) ha fatto si che ancora oggi si preparino piatti sconosciuti solo un chilometro più in là, come i benedèt, pane dolce azzimo -chiarissima la derivazione ebrea- si fanno una volta l'anno, a gennaio, venivano portati sul sagrato ad essere benedetti, il fornaio Giulio Bonisoli li faceva anche per gli animali ai quali toccava questo dessert ai primi di gennaio. Ora non si danno più agli animali, ma parecchi bipedi se ne approvvigionano alla forneria che era di Loris Lugarini, sotto i gonzagheschi portici, forno depositario della ricetta unitamente a quello della chissola, un pane al burro di suadente morbidezza che ancora oggi sforna quotidianamente ma che non arriva a sentire le campane di mezzodì perché va a ruba molto prima. Altro piatto solamente vescovatino è la rustisàada che con la rustisciàda lombarda ha in comune solo il nome in quanto non parte da frattaglie da quinto quarto ma tra gli ingredienti figurano carne trita (un tempo di cavallo), piselli, il tutto ammanito in un puccino (intingolo) col quale accompagnare la polenta nel suo breve viaggio verso sud affinché non avvenga in tanta e desolante solitudine. 

Prodotto unico, come la turta dè nimàal sanguinaccio (non insaccato) targato Cr, fatto col sangue non si sa di quale gruppo. Personalmente, come fotografo, prediligerei il gruppo O rh diapositivo. Con lo stesso ingrediente ematico da versare copiosamente nella dichiarazione dei redditi, altrove ne fanno un dolce, il migliaccio, da cui il nome -torta- che comunque a Cremona torta non lo è affatto, ma da questo ne ha mutuato il nome. La turta dè nimàal comunque non la fa più nessuno e il suo santo protettore, San Guisuga, da tempo non è invocato se non dagli agenti dell'Agenzia delle entrate e perché mai la Slow food non ne abbraccia la causa, intercedendo? O -idem- i ceci al miele- dimenticato da tutti come le costiole -costine insaccate, un salume di costine con l'osso- di Pontremoli che solo a Ca' del lupo e solo un contadino si ricordava e che Alessio Lombardi ha salvato dall'oblìo? Bisogna saper scovare questi tesori nascosti, la Slow Food a Ca' del lupo ha tenuto corsi per la cottura nei testi, aveva sotto il naso questa introvabilità ma l'albagìa di chi crede di conoscere tutto non ha permesso di far uscire alla luce le costiole. 

Personalmente questa maieutica so esercitarla accarezzando la memoria delle persone, mostrando loro la mia autentica passione -vero amore e non interesse a intermittenza- verso quel vivere d'un tempo ammantato ancora dalla fierezza della povertà che queste reliquie celano e che vanno salvate prendendole per i capelli, mentre stanno annegando nell'oblìo, dopo aver nuotato per secoli nel vastissimo mare della miseria più nera, toccando tutti i porti della fame che ognuno aveva e nessuno voleva. 

Piatti dimenticati, come il "puc de l'anza brüna" di cui mi parlò Arnaldo Nolli dell'Alba di via Persico e del quale non ricordo nulla ahimè (i sintomi della vecchiaia sono tre: il primo è la perdita della memoria... non ricordo gli altri due.) o i gratòon dèla sisà màta (ciccioli dell'intestino crasso nel cui strutto si cuoce la sopracitata turta dè nimàal fatta col sangue del porcello appena -non è possibile altrimenti- scannato) o la drua della lunigiana (anche qui interiora) la tronda trentina e smegiàza veneta: tipo ribl tirolese -farina sbriciolata- o il pan muez o la cucchella una sorta di sorça valdostana (le più disparate verdure -talvolta anche frutta- alternate a lardo e burro cotte lungamente) o la "bèrna" dei pastori di Ca' de Lamagni. 

N.D.S.A.C.H.A.I.C (ovvero F).D.I.I.Q.F.

(Nota del similcircamenoquasi acculturato che ha avuto il... "fortuna" di imbattersi in questo fatto) 

Un giorno mi fermo lungo gli argini dell'Oglio a parlare con un pastore (avevo fatto altri tentativi, in precedenza, lungo gli argini del presepe, ma il dialogo non venne coronato dal successo, dato il rimanere del pastore silente e immobile come una bella statuina in mezzo agli armenti dormienti, teneri germogli belanti fino a quando sono abbacchi -poi abbacchiati- per brevità del futuro la cui declinazione vira velocemente più al trapassato che al remoto) e parlando del più e del meno -senza trattare dei poli delle batterie che comunque hanno sempre un lato positivo- chiedo della carne di pecora essiccata che i pastori (lo so, sono piuttosto preparato sull'argomento) preparano per il loro asciolvere all'insaputa dell'ASL che li ingalererebbe all'istante (e allora per il belare dei loro quadrupedi non da presepio perché non denunciarli per schiamazzi notturni in pieno giorno?) per seguire tradizione e natura che abitualmente rifugge burocrazia e immacolata igiene.

Il pastore, come da regolamento, regolarmente monoglotta, urla alla statuetta semovibile sua consimile di portargli, con la fine creanza che monsignor Della Casa -in persona- gli ha instillato sin da quando era solo terracotta, di portargli la bèrna. A questo vocabolo ho un sussulto: i romani chiamavano perna il prosciutto, il nome gli deriva dall'anca -perna- da cui la coscia essiccata prosciugata (da qui prosciutto) si teneva allegramente attaccata al legittimo proprietario che, affatto consenziente, era coartatamente costretto a rinunciarvi dopo consono trattamento subìto obtorto (capo)collo. Eterna gratitudine a Carla che spulciando il vocabolario cremonese del 1800 di Angelo Peri ha trovato alla voce bèrna: carne dell'infima qualità. Carnaccia.

Ergo quando una cosa attraversa i secoli immutata passa indenne dalle forche caudine etimologiche e ne mantiene il significato al contrario delle tasse che dal nome di battesimo di gabelle sono diventate Equitalia ente dissanguatore di finanze che con mezzi di tortura tecnologici -vedasi dichiarazione dei redditi- scremano i redditi facendo concorrenza sleale all'AVIS con la quale usano, in comproprietà, il santo protettore San Guisuga.

Altri piatti desueti non necessariamente affacciantisi sulla sponda eridanea: il vero "strinù" (salamella gettata virilmente non sulle braci ma nelle braci) o il "rustìin in bujàca" (pannocchia di granoturco anch'essa nelle braci) o le patate nel filo di ferro calate e appese nei forni della fornace, o "li fighèti" di pasta sfoglia gettate sulla stufa, o il "pendolon" della valle del Cismon, o le "patate e polenta smizzolà" dell'alta Anaunia, o il "beuchel" tirolese, o la faraona (oppure il filetto) legata allo spago e immersa nella pentola del lardo mentre si fa lo strutto; o il "delèech" d'oca con mele e cipolle, o il düro (zucchero e farina cotti fino a formare un filamento durissimo e che impegna ore ed ore a "ciucciarlo"), o la "bertolina" che a Cremona è una torta con gli avanzi di minestra (chiamata dai targati Mn "lobia" che è una sbrisolosa (a Mantova sbrisolona) durissima o muruzìina recupero dolce di avanzi di minestra di fagioli, così ha una spiegazione il perché i cremonesi venivano scherniti come mangiafagioli storpiando quel magna phaselus che era il nome -dovuto all'immagine in pianta- confacente il dicotiledone della città) mentre invece nel piacentino è una focaccia (se scrivo piadina mi fucilano a vita) fritta nello strutto e a Crema una torta coi chicchi d'uva (stesso nome per quattro cose diverse, mentre besumèera e cioncia sono la stessa cosa con due nomi diversi, esattamente come manzo alla California o manzo alla vecchia Trento entrambi accomunati da spremuta di mucca e aceto, oppure come le "lattughe" di carnevale che sono chiacchere, bugie, fregnacce, scarciofole, galani, cenci, frappe, grostoli, ecc ecc). 

Anche le interiora di agnello hanno nomi diversi per la stessa preparazione in spiedini avvolti nelle budella: spuntature, gnummerieddi, cazzmarr, marro, mugliatiello, turcinelli, stigghioli, sa cordula e, già che l'italico stivale è stato anche magna grecia, tòh ciàpa anche il nome ellenico: kokoretsi. Piatti maschi di tempi in cui il benessere era wanted che ora intasa il traffico delle tagliate con la rucola e delle piccole insalatine tiepide o del coniglio servito con le sue pesche glassate, dato che, schizzinoso com'è (il coniglio) glassa personalmente ottimizzando così il tempo che abitualmente risparmia sulla copula. Chissà se la besumèera, con altri nomi come la cioncia, è presente su altre tavole o definitivamente tumulata nel monumento eretto al piatto ignoto, luogo ritenuto più consono dei vari templi temporanei del mangiare firmato.

Pochi han saputo centrare lo spirito di casa mia (e del mio ovviamente). Una adorabile soggetta, enotechista non vegana e ovviamente non astemia, dopo una cena da besumèerafest nella mia casa barra osteria, ha scritto....

Metti una sera da un amico speciale: Lilluccio Bartoli.

"Già arrivare alla casetta con le persiane rosse e un maialino per segnavento è un viaggio. Passi in mezzo ad una campagna antica, con la strada quasi abbracciata dal grande mais e dai fossi, con qualche lepre che schizza fuori un attimo dall'erba e scompare mentre la sorpresa lascia subito spazio ad una sensazione di allegria quasi infantile. Ci sono vecchie cascine silenziose, con meravigliosi cespugli di alianto e folti intrecci di campanelle, così bianche e grandi da sembrare uscite dalla mano di un pittore. Svolti un po' nel folto e spunta la casetta, linda e sorridente, sì, sorridente, perché se punti gli occhi un attimo scorgi particolari deliziosi che non ti aspetti e ti fanno sentire un po' come Alice. Dentro è un tuffo al cuore.. dettagli inattesi, che parlano, raccontano, guidano, invitano. C'è la rete del culatello che non c'è più, per questo definito "evaso", il port'abiti a forma di gigantesca forchetta, tavoli da osteria con le sedie rosse, le macchine fotografiche "appese al chiodo", i nomi degli amici più cari sempre presenti perché incisi sul bordo del tavolo di legno, le candele rosse, le ciotole di terracotta, la tazzina fatta a scarpetta, i segnaposti con le iniziali, il quadro con la "Ciòosa" (chioccia) che vigila sui commensali , così come il gatto dipinto sul muro... Mi accorgo che più dei dettagli ricordo l'emozione, anzi, la commozione per essere dentro ad un sogno che Lilluccio ha coltivato per tutta la vita e che ha saputo trasformare in casa, un luogo dove ogni respiro parla di lui, della sua intelligenza, delle sue passioni, del suo incanto per il bello e per il buono. Quasi ovvio che sia un gourmet raffinato, colto, appassionato, profondo. Non c'è storia dell'artigianato culinario che lui non conosca. Pane, farine, sali, spezie, ortaggi, frutti, antichi elisir .. lui li ama e li conosce tutti, poi aggiunge un ingrediente speciale. Giovanna, il lievito di tutto questo. Entrare qui è una gioia. Tante piccole, immense cose di immensa bellezza. Le porto con me, e so che posso tornarci per ascoltare ancora, imparare ancora, conoscere ancora, condividere. Che bella serata, che bella amicizia. Che bella la bellezza."

Al che le ho risposto...

Fossi in Lilluccio Bartoli sarei lusingato dall'aver trovato chi ha saputo cogliere perfettamente (quelli che non sanno cogliere... come si chiamano quelli che non cogliono?) lo spirito che muove l'anima di questa casa che poi è lo specchio di chi ne conduce le redini.

Se fossi in lui, una persona come te -che con le parole ritrae icasticamente lo spirito di cui la casa è pregna e ne rende perfettamente l'animo- la metterei al Louvre.

Con tutta la stima e la devozione che debbo a Lilluccio Bartoli.

Lilluccio Bartoli


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commenti


Lilluccio Bartoli (Cosa devo farci? E' il nome vero!)

28 maggio 2024 14:13

Os3ga, il "pezzo" durante la lettura ti accompagna alla pensione. Chi arriva alla fine verrà premiato con A) un camion a colori B) una lavatrice a pedali C) un maglione D) lana

Pedroni Vanni

2 giugno 2024 14:21

Vorrei ricordare al Sign. Lilluccio Bartoli che il Sign. Alfredo Pedroni comandava mezzo cappuccino non per riaparmiare ma perche uno intero era troppo per Lui. Alfredo Pedroni ha fatto studiare 4 figli, a due ha preso casa a Milano agli altri la villetta a Vescovato. Io andavo a scuola con la Mini Minor egiravo con il Laverda 750, non mi sembra quindi vhe mio Padre fosse affatto pigro a mettere mano al proprio portafoglio. Alfredo Pedroni con la sua quinta elementare è riuscito a mandare un container di pelli in America. In Bell'aria poi per il male odore non è mai morto nessuno anzi, quindi prima di esprimere certi giudizi ridicoli è bene pensarci meglio. Comunque il dna di vescivatino non si compra. Ho si ha ho no. E tu mi sembra rientri nel secondo caso. Saluti

Lilluccio Bartoli

3 giugno 2024 08:49

Il mio intento, non era affatto quello di sottolinearne l'avarizia, e mi scuso se così è stato interpretato, ma lo spirito di vescovatinità (che per 8 anni di non residenza, non ho titolo di fregiarmi) tendente, nella logica del commercio, ad acquistare al meno e vendere al più. Tutto qui e solamente questo, come spiegato a voce a Vanni che comprensibilmente ha cuore la figura paterna, mentre io ho solo toccato l'aspetto vescovatino (essendone lui un prominente personaggio) nemmeno sfiorando l'amore filiale da lui profuso alle persone care.