La carne riciclata: la trippa, i gratòon, le pùlpete, la besümèera
Dopo il riuso del pane e della polenta nei diversi modi che abbiamo illustrato, ecco come la tradizione delle nostre case permetteva i riciclo della carne. Ricordiamo che Agostino Melega ha raccolto notizie e ricordi attraverso testimonianze dirette, spesso raccolte nelle case di riposo.
Nelle case contadine, si utilizzava durante la stagione invernale la carne degli animali da cortile che si riuscivano ad allevare, soprattutto quella di maiale e di oca, che veniva messa sotto grasso in grandi olle. Ricordiamo anche le verdure disposte in salamoia o sott’aceto in botticelle di legno, oppure fatte seccare all’ombra. Si parlava di rape, zucche, fagioli, cipolle, aglio, peperoni.
La prima ricchezza rimaneva comunque il maiale, la cui carne e il lardo macinati insieme in un unico impasto, portava poi ad assaporare salami, salamelle, cotechini, coppa e spalla. Inoltre, la povertà spingeva ad usare tutti i frutti della terra cuocendoli in grosse pentole, con pezzi di carne degli animali allevati. Ne nasceva un tipo di bollito che si mangiava con una fetta di pane, con panbiscotto e che poteva nutrire per l’intera giornata. Il giorno dopo si usavano tutti gli avanzi e così si parlava di zuppa di carne e verze, di polpettone, di polpette.
Nei giorni di festa si faceva uno strappo alla regola, preparando ravioli e tortelli che erano fatti con due sottili sfoglie che contenevano gli avanzi di carne macinati e pestati. Il grasso dell’arrosto condiva la pastasciutta e veniva usato come condimento anche per le minestre.
Una storia di altri tempi, molto lontani da noi, racconta che i signori dei feudi medievali eliminassero, con l'arrivo dell'autunno, parecchi dei loro animali per risparmiare foraggio e granaglie. E ordinassero che solo la carne venisse conservata nella ghiaccia dei loro castelli. Ed infine – ecco il punto – buttassero via tutte le frattaglie, cioè le interiora (intestini, cuore, polmoni, reni) e la testa, gli orecchi, i piedi e la coda delle bestie macellate. Avveniva così la corsa dei poveri per accaparrarsi questi pezzi. Da lì si dice siano nati i piatti di avanzo della cosiddetta cucina povera, tra i quali più conosciuta nel Cremonese è la büzéca, la trippa, preparata sempre in umido e mai asciutta.
La büzéca (la trippa)
La preparazione della büzéca viene così descritta da Ivalda Stanga: "Prima si faceva bollire, divisa in pezzi, per due ore; si toglieva dal paiolo, si faceva raffreddare e col coltello la si puliva togliendole i residui, fin che appariva la parte bianca. Si tagliava a pezzettini e cuoceva di nuovo con verdure per alcune ore. Il profumo metteva festa in casa e piacere grande nel mangiarla". La ricercatrice fa notare che "la trippa non è mai uguale perchè quattro sono le diverse parti dell'intestino".
I gratù, i gratòon e j òs de nimàal (i ciccioli cremaschi, quelli cremonesi e gli ossi del maiale)
Del maiale, come abbiamo già accennato, non si sprecava proprio niente. La carne doveva durare un anno e veniva conservata con il sale o insaccata. La studiosa Annalisa Andreini, Tradizione e modernità da Crema al Mondo, precisa: "Anche i peli e le ossa venivano conservate per il brodo, la vescica era utilizzata per insaccare il cotechino e c’era una “pellicina” del petto particolare scelta per insaccare il “salame speciale” da mangiare nei giorni di festa" .
Inoltre, la stessa Andreini ci spiega la genesi dei gratù, i quali vengono riferiti, su Folclore Cremasco, a tutto ciò che rimane della pelle fritta di oche, polli, ecc.. Ebbene la Andreini dice che "anche delle oche non si sprecava niente, ad eccezione delle unghie che venivano gettate (...). La carne dell’animale era tagliata a brasole, a braciole, e conservata nelle ole, vasi di terracotta, immersa nel grasso sciolto. Le zampe erano cucinate e accompagnate con la polenta mentre la pelle dell’oca, tagliata a pezzettini, si friggeva e con essa si formavano degli appetitosi grumi di grasso fritto chiamati gratù". Nel mentre, a Cremona, i gratòon sono i ciccioli di maiale che, abbinati alla polenta, venivano a definire la pulèenta cu’i gratòon. Quando le ossa complessive del maiale vengono spolpate, in italiano vengono definite ossi, e di rincalzo a questo lemma al maschile vi è il dialettale cremonese òs de nimàal. Infatti quando questi ossi "venivano spolpati per fare il macinato, venivano cotti e mangiati a scòta dìit" (caldissimi).
Le pulpéte de càarne (Le polpette di carne)
Dalla carne non consumata uscivano polpette:"si preparava un impasto riutilizzando la carne avanzata (manzo lesso e carne di maiale), con uova, patate, e formaggio poi fritte nell’olio". Altre ricette in uso prevedevano sia l’aggiunta del prezzemolo, sia "del pane trito (pan grattato), uova, e patata lessa, aglio".
Caren consa e stüfaat (carne condita e stufato)
A Volongo, viene definita “caren consa” quell’impasto ottenuto da "avanzi di carne tagliata finemente con cipolla tritata e dadini di formaggio tipo Emmental, un po’ di olio d’oliva, sale e a piacimento, pepe; il tutto mescolato per un piatto assai appetitoso". Da Cingia de’ Botti è giunta pure la segnalazione dell’uso dell’avanzo di carne bollita, con passata di pomodoro e verdure dell’orto (zucchine, peperoni, verze, cipolla), per la preparazione de’l stüfàat, dello stufato.
Le frattaglie di pollo, il lesso e il loro riuso
Scrive Gentilia Ardigò:"Con le frattaglie della gallina (testa, budella, zampe, punta delle ali, si faceva un ottimo intingolo". A sua volta, Alfredo Azzini ricorda che con i colli e le creste di gallo si preparava el regüt de còo e còoi, “il ragù di capi e colli”, i cui ingredienti oltre che il pomodoro, le carote e le patate, erano appunto i colli, le creste e le minuta di pollo, ossia budella e lo stomaco del pollo stesso, detto masóola , mazzuola.
A proposito d’intingoli e di ragù, Elide Paternieri Polenghi ci ha detto che era tradizione preparare la pietanza gustosa de’l pucìin (intingolo in dialetto), "con le rigaglie di pollo, ossia col cuore, il fegato, el magòon (ventriglio), gli intestini, “le uova” - attributi maschili del gallo -, le creste, i bargigli, e poi il burro, un po’ d’aglio, verdure - cipolla, pomodoro ed aromi, quali la salvia, il rosmarino, il prezzemolo". El pucìin, l’intingolo con le rigaglie di pollo, veniva arricchito con le patate. "Gh'éera de lecàase i dìit" (c'era da leffarsi le dita!) mi ha confidato Giulia Scarinzi.
Il lesso avanzato, al lès, veniva riciclato tagliandolo a fettine e coprendolo di limone.
Li lunzi dla galina (fasce di grasso della gallina)
Sul libro Gli scutmai e la memoria, riguardante gli ambienti del Casalasco, leggiamo l’uso de li lunzi dla galina, delle fasce di grasso all’interno della gallina che si utilizzavano come burro. "In un tegamino si rosolano bene li lunzi tagliate a pezzetti con una cipollina e uno spicchio d’aglio. Quando i ciccioli vengono a galla, sono pronti da scolare e si schiacciano bene per tirare fuori tutto il grasso. I ciccioli si mangiavano con la polenta calda e il grasso si metteva in un vaso e si adoperava per fare il brodo e l’arrosto".
La minüüda (la minuta)
Nelle classi borghesi della città di Cremona, ed immagino anche fra i ceti più abbienti del contado, era d’uso che la cameriera-cuoca (la “Tata”) trascrivesse su di un quadernetto le ricette tradizionali di famiglia. Ho potuto leggete uno di questi quadernetti e vi ho trovato un cibo di risulta: la minüüda (la minuta), un piatto composto da filoni (apparato linfatico), lancetti (forse animelle), creste di galletto e fagiolini (ghiandole genitali). Acclusa, vi ho letto pure la ricetta: "Bollire i componenti della minüüda per 4/5 minuti con cipolla, sedano, garofano, sale, vino bianco e 2 fettine di limone, 1 goccina di aceto, 1 cucchiaio di farina bianca. Si cola e si lascia raffreddare. Togliere le verdure, poi friggere in più olio e burro e fegato tagliato a pezzetti, sale e pochissima conserva. A fine cottura un po’ di marsala (1/2 bicchiere)".
El fricutëgn (il fricottino)
Giampietro Tenca racconta che “alla Motta”, ossia presso il suo luogo natio, a Motta San Fermo, frazione di Casalmaggiore, "i residui di carne o di pollo avanzati, (ma a volte anche senza di essi) si mettevano in una casseruola con un po’ di conserva, una noce di burro e tante patate e fagioli, che allora non mancavano mai". Se il fricutëgn non veniva consumato del tutto, la sera dopo si replicava incrementandolo con nuovi rimasugli, e via via fino all’esaurimento, "cioè fino a quando non rimaneva proprio nulla in cui pudì puciá, poter intingere, la polenta o il pane".
La fartada (la frittata) e la frittata contadina
Ancora da Cingia de’ Botti perviene la segnalazione del riuso della carne per l’impasto della fartada, ossia della frittata così chiamata nel Casalasco. Detto impasto era composto da "uova, formaggio, verdure e carne avanzata macinata".
Accanto alla fartada si ricorda pure la “frittata contadina”, preparata "con avanzi di carni bollite miste, aggiunta di uova, formaggio, sale e prezzemolo".
A proposito di frittate che dire dell'intera loro fattispecie? La domanda retorica è di Ezio Tira di Volongo, il quale fornisce pure la risposta: "Le frittate sono delle vere e proprie raccogli-avanzi, ricettacoli, contenitori di qualsiasi rimanenza perchè in esse si può mettere di tutto".
Ooch in teràgna (Oche in terragna)
Nel Casalasco, inserendo in quest’area la cultura alimentare della “regona di San Daniele Po”, vi era la tradizione di utilizzare in modo avveduto ed appropriato pure la pelle dell’oca. Questa veniva adoperata per produrre dei gratunìin, dei piccoli ciccioli, la cui bontà, secondo Elide Paternieri Polenghi superava quella dei gratòon di maiale. I più bei pezzi di carne dell’oca venivano fatti cuocere nel grasso dei ciccioli con un pizzico di sale. Quando la carne era cotta, la si metteva in una pentola di terracotta e la si copriva con il suo grasso. Si riponeva al fresco per tutta la durata dell’inverno. Quando la carne era finita, si usava il grasso rimanente per condire la verdura da mangiare con la polenta calda.
La besümèera (la sudiciona)
La besümèera è una voce dialettale della Bassa Cremonese, e sta ad indicare il piatto recuperato dagli scarti della macellazione, più propriamente dalla pelle scuoiata. A parlarcene è Lilluccio Bartoli, esperto della storia tradizionale dell’alimentazione cremonese. "Si raschiava quel poco che el bechèer (il macellaio) lasciava attaccato al manto della bestia e con molte erbe (basilico, menta, rosmarino, salvia, alloro), si cuoceva lungamente in pignatte con burro (ab antiquo strutto), e con tutti gli odori dell’orto (carota, cipolla, porro, aglio, sedano, prezzemolo), conserva di pomodori, spezie (noce moscata, chiodi di garofano, pepe) e generose spruzzate di vino, per ore ed ore, fino ad offuscarne i tremendi afrori. E’ probabile che il nome derivi dal rafforzativo del termine ùunt (unto), che diventa bezùunt (bisunto), perché la materia recuperata era per lo più del grasso. Di vera carne ne rimaneva veramente poca".
Da Ecolibri, "La tradizione del cibo salvato" di Agostino Melega
La foto dell'uccisione del maiale è di Giuseppe Morandi
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti