26 settembre 2022

La tavola del contadino: pulèenta e pàan

La storia dell’alimentazione è un tutt’uno con la storia delle civiltà dei popoli. In essa si rifrangono i costumi, le abitudini, la cultura, la dimensione del sacro ed il rapporto che le diverse comunità si sono date nell’interpretazione del soffio vitale e divino che nell’energia del cibo si materializza.    

Il legame identitario con un territorio, lo spirito d’appartenenza si sono cristallizzati nel tempo anche attraverso i diversi modi con i quali le comunità hanno declinato l’approccio alla mensa e alla cucina. E, in attesa di esse, vale a dire in preparazione dell’incontro con l’alimento (sul desco, nel convivio, nel banchetto), si sono sedimentati – quel legame e quello spirito – pure nell’approccio con la terra arata e con i coltivi nei campi e con gli animali dall’allevamento. 

Così, contestualmente, si sono scanditi parimenti i ritmi dei giorni feriali e di quelli festivi. E con i vari tempi dei pasti, si sono fissate pure le pause della penitenza, dell’astinenza e del digiuno.    

Vuoto e pieno, crudo e cotto, dolce e salato, magro e grasso sono le icone di aggettivi funzionali propri del cammino dell’uomo che, in stato di salute, ha sempre chinato il capo, in chiave naturale e fisiologica, per gustare i prodotti alimentari posti sulla mensa. 

 E con quell’inchino, ora volontario appena prima del pasto, ora meccanico ed istintivo, ha segnato nella postura la sua dipendenza da una dimensione più alta, come per associare, col capo reclinato, il ricevimento del cibo con l’intimo ringraziamento che il cristiano eleva al Padre per aver ricevuto il pane quotidiano. E così anche l’incontro col cibo più semplice, più modesto, più ordinario diventa preghiera, nel momento in cui il gesto è sostenuto dal pensiero verso l’Alto.   

 Diventa motivo d’unione della parte col tutto, diventa contatto e sintesi fra materialità e spiritualità dell’individuo con la materialità e la spiritualità del Cosmo, diventa veicolo dell’uomo verso il Mistero, verso Dio. 

Dentro la complessità del rapporto fra costume, religiosità e cibo, in questa cornice così suggestiva, andremo ora ad esplorare i meandri della memoria collettiva per riavvicinare al presente un rituale proprio della casa contadina padana d’un tempo, portandoci con la mente verso quel microcosmo che animava nel Cremonese la vita di cascina. 

 Va subito detto che nella civiltà rurale, dei tempi lontani, i cibi non erano sofisticati come ai nostri giorni. Tutto veniva confezionato in casa. Nei campi si coltivava el melegòt (il granoturco) e ‘l furmèent (il frumento). L’orto donava la verdüüra (la verdura) e la fröta (la frutta). Quasi ogni famiglia allevava el nimàal o ròi (il maiale), un animale che offriva alla gente dei campi gràs e salöm (grasso e salumi). 

 Sull’aia si allevavano pùi (polli), nàadre (anatre) e òoche (oche), che donavano carne e grasso. Oltre alla carne, le oche offrivano pure le piöme (le piume) per fare i cuséen (i cuscini) e materàs (materassi) per il letto.

 In cucina non veniva gettato via niente. Le “grandi-madri”, le nonne, aguzzavano l’ingegno e con quel poco che avevano in dispensa riuscivano a creare, come per magia, piatti veramente speciali. Archetipo dell’alimentazione era ad ogni modo la pulèenta (la polenta) in tutte le sue molteplici varianti: pulèenta pastinàada (polenta condita); pulèenta càalda in sö’l fóoch (polenta abbrustolita); biàade de la pulèenta (la parte rimasta attaccata al paiolo); pulèenta scotadìit (polenta molto calda); pulèenta sùurda (polenta senza companatico); pulèenta cun i gratòon (polenta con i ciccioli).  

 A produrre questo cuore dell’alimentazione contadina servivano tre ingredienti: pozioni di farìna giàalda (farina gialla), àaqua (acqua) e sàal (sale). Sulle pagine di un ricettario degli anni cinquanta del secolo scorso, abbiamo trovato la formula atta a creare tale archetipa e popolare portata, definibile in chiave poetica, a causa del suo profumante e caldo colore, come una sorta di “metafora del sole”.  Tale ricetta dice: “Si mette a fuoco dell’acqua in de ‘n paróol  (in un paiolo), in una quantità pari alla misura che si vuole ottenere della polenta. Quando l’acqua bolle, si sala con un poco di sale grosso. Poi si versa a pioggia la farina piano piano, sempre mescolando e badando bene che non faccia grumi. Quando l’impasto è abbastanza consistente, ma ancora molle, si lascia bollire per mezz’ora mescolando ogni tanto. Dopo mezz’ora si aggiusta di farina fino ad ottenere un impasto consistente ma non troppo duro e sempre mescolando si fa bollire ancora un’altra mezz’ora. Quando la polenta comincia a staccarsi dal paiolo vuol dire che è cotta. Si versa allora sul tagliere. Con la paletta bagnata d’acqua si liscia l’impasto, dandogli la forma rotonda e segnando nel mezzo una croce”. 

 Il rimando alla vita rurale d’un tempo ed il ricordo della pulentàda (“polentata”), con il ritrovarsi della famiglia a tavola in un giorno di festa di fronte ad un piatto di “torta di mais”, ci viene offerto da una breve poesia di Ivalda Stanga, maestra elementare di Soresina, in ricordo dei giorni della propria infanzia trascorsi in cascina. 

 Il titolo della composizione è “Na taulàda” (“Una tavolata”). Nei versi che andremo a leggere, insieme alla polenta troveremo citato pure el pès rustìit (il pesce arrosto), ottenuto durante la sgüra (la pulizia periodica dei fossi), i grügnòs (i radicchi), el vén de li ìdi, (il vino delle viti), na féta de pagnòch (una fetta di dolce casalingo di poche pretese). 

NA TAULÀDA

A primaéra

vurarèsi fàa

na bèla taulàda

ne l’èra grànda

de la casìna

cume na òlta:

na pulentàda,

el pès rustìit

de la sgüra,

e i grügnòs de l’òrt,

el vén de li ìdi,

na fèta de pagnòch...

e pò ciciaràa,

cüntàse sö li ròbi...

fìn che li stéli

li sbüša ‘l fùsch...

Ma la me šèent

la pöl mìa ‘egnìi:

adès la và legéra

per li stràdi de ‘l céel

sènsa cunfén!

UNA TAVOLATA. A primavera/ vorrei fare/ una bella tavolata/ nell’aia grande/ della cascina/ come una volta:/ una bella polenta,/ il pesce arrostito/ della pulizia dei fossi,/ i teneri germogli dell’orto,/ il vino delle viti,/ una fetta di ciambellone.../ e poi chiacchierare,/ raccontarsi le cose.../ fin che le stelle/ bucano il buio.../ Ma la mia gente/ non può venire:/ adesso va leggera/ per le strade del cielo/ senza confini!//

Nella casa contadina veniva preparato pure el pàan (il pane), con acclusi i propri “magici” componenti, che troviamo riportati in un vecchio ricettario: 

5 etti di farina bianca

30 grammi di lievito di birra

acqua - sale - olio

“Si fa sciogliere in poca acqua salata il lievito, si aggiunge la farina e si mescola bene. Si mette il composto in una zuppiera, si copre e si lascia a riposo in luogo tiepido per un’ora e più. Poi si aggiusta di sale e si lavora bene a lungo con le mani. Infine si confezionano i panini dalla forma desiderata. Si collocano i panini su una piastra unta di olio e si lasciano lievitare coperti al tiepido.

Quando saranno ben lievitati, si pongono nel forno, che dovrà già essere caldo. Quando si sentirà il profumo di cotto e se il pane è di colore dorato, spegnere il forno e lasciarlo al caldo almeno per cinque minuti. Se si vuole il pane al latte, si deve sciogliere il lievito nel latte tiepido”. 

 Va ad ogni modo detto che insieme al pane e alla polenta, un altro elemento di primaria importanza nell’alimentazione della famiglia contadina, vissuto come una sorta di “cassaforte alimentare”, era costituito dal maiale, da’l nimàal

Agostino Melega


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