8 agosto 2022

La tradizione del vino e del cibo nelle osterie cremonesi di fine Seicento. Ecco cosa si mangiava e beveva

Il 19 marzo del 2020 con la prima ondata di Covid se n'è andato Carlo Bertolini 75 anni, esperto agronomo ed enologo, diffusore della cultura del cibo, del vino e dell’agricoltura. Carlo era un grande ricercatore ed era riuscito a ricostruire cosa si beveva e cosa si mangiava nelle antiche osterie di Cremona. Con una accurata ricerca d'archivio era riuscito a riportarci indietro di qualche secolo. Pe ricordarlo e per continuare nella nostra ricerca, proponiamo il pezzo che ci aveva consegnato

Nel libro che sto scrivendo, “Cremona ed il suo vino”, un capitolo sarà dedicato alle osterie. Le osterie per secoli furono un luogo laico di socializzazione e di scambi di conoscenze. Le osterie significarono, genericamente, il luogo dove a pagamento, veniva offerto vitto, alloggio e stallatico. In esse sostavano viaggiatori, pellegrini ed a volte avventurieri e banditi. Le osterie erano spesso teatro d’incontro, di vicende tragiche e comiche, in esse circolavano le notizie circa fatti avvenuti vicino e lontano. Attorno ad esse ruotavano ballerine, artisti, meretrici e accattoni.

A Cremona, nelle osterie si beveva il vino locale in boccali di peltro, od in ciotole di ceramica invetriata. Molto raramente si disponeva di vini di importazione dai territori limitrofi. Il vino offerto era rosso, corposo, tannico e dal profumo vinoso, ottenuto da uve rosse nostrane. Si poteva bere anche aggiungendo una piccola quantità di miele per addolcirlo ed ammorbidirlo. Questo tipo di vino era salutare per far fronte alle condizioni igienico – sanitarie in cui allora si viveva.

Spiego il perché: in Città erano endemici il colera, il tifo e ogni tanto compariva la peste, l’ultima molto grave era comparsa nel 1630,così ben descritta dal Manzoni. Ebbene il vino si dimostrava essere una potente barriera contro le infezioni, ma, allora, non si conosceva il motivo.Fu, infatti, solo nel 1892, che il medico austriaco Alois Pick dimostrò che l’acqua inquinata da vibrioni di colera, può essere bevuta senza pericolo se è rimasta a contatto per almeno cinque minuti con 1/3 di vino. Azione analoga ha il vino sul bacillo di Eberth (del tifo), sui colibacilli, sulle salmonella, sui batteri della dissenteria e su quelli del paratifo di tipo A e B. Sappiamo oggi che nel vino è presente un polifenolo (molecola della componente colorante del vino) ad azione antibiotica: Il malvidolo. Tale sostanza che si trova nelle uve sotto forma inattiva e combinata ad uno zucchero, con la vinificazione e l’invecchiamento, viene trasformata ed attivata. Il malvidolo, da un punto di vista antisettico, si mostra 33 volte più attivo del fenolo. Ai polifenoli appartiene anche un composto detto resveratrolo, proveniente dalla buccia dell’uva a cui è attribuita un’azione antiossidante superiore a quella della vitamina C e della vitamina E. Il resveratrolo possiede inoltre  un’azione antinfiammatoria e antitumorale ed è un fluidificante del sangue: esso può rallentare l’insorgenza di placche trombotiche che ostacolano il flusso ematico vascolare. Vi ricordo che in certi momenti ,ancora oggi, è provvidenziale un bel vin brulé.

A secondo della stagione gli osti ci tenevano ad essere rinomati presso la clientela per i loro piatti. Qui, di seguito, desidero dare un elenco di portate che, allora andavano per la maggiore, e che giornalmente si potevano trovare nelle osterie. Ovviamente l’oste preparava quotidianamente uno, massimo due, dei piatti succulenti che sono qui sotto menzionati.

– Piccioni lessati ripieni di aromi e verdure dell’orto,serviti su fette di pane abbrustolito con midollo di “Cascio di Parma” (parmigiano)

– Braciole di vitella battute servite con salsa reale.

– Fegatelli di capretto avvolti in rete di maiale e cotti allo spiedo.

– Capretto in fricassea con salvia fritta.

– Uccelletti allo spiedo .

– Cappone lessato coperto di sedano.

– Pasticcio brodoso con vitella battuta.

– Bocconcini di mammella di vitella.

– Testine di capretto contornate con fritelline di sambuco.

– Polpettone di vitello con pinoli e noci.

– Quaglie allo spiedo in crosta di pasta sfoglia

– Galletto lardato arrosto con salsa di uva e melegrane.

– Rognonata di vitello lardato

– Pesce di fiume infarinato e fritto in olio di noci o lessato in acqua ed alloro

Come contorni venivano servite insalate di bietole rosse, cicoria, fagioli, fave e carote. La frutta era quella di stagione.

La cottura dei cibi era spesso eseguita in un grande camino a muro, utilizzando legna per fare la brace. Le operazioni di preparazione erano fatte a vista, così gli ospiti si inebriavano di profumi ed aromi. La cenere pulita, raffreddata e setacciata, fatta bollire con cinque parti di acqua piovana e filtrata con un telo, sarebbe poi servita per produrre la liscivia, necessaria per fare bucato.

Non dobbiamo pensare che la città di Cremona della fine del XVII secolo fosse un ambiente particolarmente accogliente e con l’aria buona. Tranne i collettori principali, le fognature erano, perlopiù a cielo aperto. Era poi consuetudine degli abitanti, versare liquidi e liquami sulla pubblica via. A questo vanno aggiunte le deiezioni degli animali, e le stalle per i medesimi. Per completare la scenografia va detto poi che non esisteva l’acqua corrente per la pulizia personale, e i servizi igienici erano fatiscenti.  Ne consegue che i cittadini si lavavano molto raramente e quindi avevano odori corporali poco gradevoli. Inoltre, il sapone non era facilmente reperibile, e d’inverno l’acqua  per la pulizia personale,che poteva essere contenuta in una secchia di legno, spesso ghiacciava in superficie.

Questo stato di cose, spiega la necessità di utilizzare l’incenso in Chiesa. Oltre onorare Dio, si profumava l’ambiente e si disinfettava l’aria.

In mancanza del sapone, si poteva far uso di rondelle secche di radice di saponaria che è una pianta pluriennale della famiglia del garofano, contenente sostanze detergenti e medicinali, dette saponine. I medici arabi la consigliavano per curare la lebbra e le dermatiti.

Le donne e gli uomini, quando era possibile, usavano dei profumi fatti in casa, mettendo le radici, i petali e le foglie profumate sminuzzate in un sacchetto di lino. Esso veniva immerso in un recipiente contenente una sospensione al 50% di acqua piovana ed olio. Gli oli essenziali rilasciati dal materiale vegetale si mescolavano con l’olio che galleggiava sull’acqua. Si lasciava evaporare l’acqua e l’olio profumato veniva filtrato.

Il dipinto è di Vincenzo Campi

Carlo Bertolini


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