30 maggio 2023

Quando per far merenda non c'erano gli snack...

Il termine merenda deriva dal latino cioè dal gerundio del verbo del verbo merere, ovvero meritare; originariamente non rientrava infatti nel piano dei pasti giornalieri “obbligatori” e bisognava meritarsela, aver fatto qualcosa che valeva una ricompensa. Sarà anche per questo che per i bambini di una volta (ma anche per quelli di oggi)  il momento della merenda è sempre stato uno di quelli più attesi. Negli anni cinquanta arrivò il "mottino", una sorta di panettone mignon, poi negli anni sessanta il "buondì", poi la "brioss", la "girella", la "fiesta" e così via. Ma prima, cosa si mangiava?

La merenda non era riservata solo ai bambini. Anche chi andava nelle osterie faceva merenda.  "Giravano nelle osterie i venditori di ceci, di castagne calde, di lupini, di "gallette" con la "cavagna" al braccio e il misurino per la vendita" scrive Gino Priori.  

Nella Cremona di una volta "fàa merèenda" voleva dire aver raggiunto lo scopo cioè quando, dispanando con l'arcolaio, i fili della matassa si avvolgevano attorno al fuso.

Ma com'era la merenda di un tempo quando non c'erano snack o merendine?

Ecco come ne "La crema di Crema", scritto dai due sacerdoti cremaschi don Pier Luigi Ferrari e don Marco Lunghi, si racconta il rito della merenda dei lavoratori o dei bambini e di come variava a seconda delle stagioni e della disponibilità dei frutti con un giorno, per San Michele in cui ci si asteneva tradizionalmente dalla merenda.

"Un capitolo minore, ma non meno importante è costituito dalla merenda pomeridiana caratteristica soprattutto del periodo estivo, in particolare del tempo della fienagione e della raccolta dei cereali, e cioè del momento più intenso dei lavori agricoli. Era considerato un pasto minore a base di nutrimenti più leggeri, quali "al mines", una scodella di pane casereccio inzuppato nel latte appena munto, "la rüsümada", ottenuta dalla ciara d'of sbatida con l'aggiunta finale del tuorlo spruzzato di zucchero; "al zabajù", risultato da la burèla d'of sbatiba con mes gös da söcher e mes gös da marsala, il tutto messo a cuocere in un tegamino. Tale prodotto alchemico era considerato anche un elisir di lunga vita con proprietà terapeutiche nei casi di malattia, di convalescenza o di gracilità fisica.

Dal canto loro gli uomini impegnati nelle fatiche estenuanti delle “faccende” o gli operai al termine del turno pomeridiano trovavano opportuno trascorrere questa piccola pausa nell’ambiente fresco e amichevole dell’osteria vicina, dividendo il loro relax tra "quatre ciacere, an stafù da i e na giambèla con na fèta da salam". Nel campo invece j'ubligac e i giurnader che j'era a fora sotto l'implacabile canicola del sole di luglio e di agosto, ovvero al rebatù dal sul, trovavano un momentaneo sollievo all'arrivo di qualche ragazzetto che portava dalla cascina al fiasch o ‘l butigliù da l'acqua fresca che veniva letteralmente tracannata mentre soto la murunada i lavoratori erano intenti "a tergere" il "nobile sudor"

Nella stagione invernale, cessate le grandi fatiche agricole e accorciandosi le giornate con il conseguente anticipo dell'orario di cena, la merenda veniva sospesa, tradizionalmente in corrispondenza con la festa di San Michele (29 settembre), data sancita da un preciso proverbio: a San Michel la merenda la ula 'n cél.

Restava invece costante la merenda dei bambini che, usciti da scuola, ricevevano dalla mamma un alimento che doveva sostenere la loro fase di crescita con prodotti corrispondenti alle varie stagioni: fich sec col pa, al pom cach, l'öa anes o 'I clinto, in genere prodotti degli orti domestici.

In ambienti cittadini invece si acquistava dal vicino bottegaio na feta d'angüria o da melù, na fetina da patuna o un più prosaico ciculatì da quindes, col vantaggio della annessa figürina, un'accoppiata che offriva il doppio vantaggio di placare la fame insaziabile del bambino e di offrire lo strumento per un tipico gioco che terminava con l'alea del bianc o figüra".

La foto è di Faliva

 


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