Uzéi scapàat, minéestra e pitàansa. Chiacchierata etimologica tra modi di dire e “pasti” di origine religiosa. Settembre nell'orto
Tornati dalle vacanze, eccoci di nuovo con la nostra seguitissima rubrica "l'appetito vien mangiando" tra ricette, racconti, tradizioni della nostra tavola. Partiamo con un vecchio straordinario scritto del professor Gianfranco Taglietti ritrovato nel mio archivio nel quale ricerca l'origine delle parole delle nostre abitudini alimentari tra dialetto, latino e storia. E subito dopo il mese di settembre nelle campagne cremasche. (M.P.).
Forse lo si dice più comunemente a Bergamo dove pulèenta e uzéi sono più comuni, ma anche da noi si dice di una certa pietanza. Se si va a caccia, e non si spara un solo colpo (oppure quell'unico colpo è andato a vuoto) si rimedia come si può. Si mette assieme un po' di carne, pancetta, salsiccia..., si fanno degli involtini, che si infilano in bastoncini, si mette al fuoco... e tutto è fatto!
Gli uccelli non ci sono ma è come se ci fossero. Con la polenta, un boccone prelibato! Non è proprio en bucòon de 'l prèet, ma poco ci manca. A quelli che aspettano si può dire, con solennità: “Venite, paratum est!”.
Alla fine del pranzetto si può dire Consummatum est, soprattutto in casa di persone devote. Continuando nei giochi di parole da testi sacri, trovo: sùna el magnificat, per dire “è mezzogiorno”, in cui il magni richiama el magnàa, mentre l'è l'ùura de la majòlica - che pure significa “è l'ora del mangiare”, non si gioca più sul magnàa ma sul majàa.
Restando nell'ambiente - per così dire - religioso, ci spostiamo nei conventi, dove si trova l'origine della parola pitàansa.
L'origine di questo vocabolo (non lo crederete!) è da ricercare nella parola “pietà”, nel “pietoso” compito dei frati conventuali di offrire (ancora oggi) un piatto di minestra a quanti hanno fame. A proposito di “minestra”, il termine richiama appunto l'atto del “ministrare”, di servire ai poveri, ai pellegrini, ai viandanti. La minestra non è gran cosa, ma è “quel che passa il convento”. La minestra del convento è passata alle case dei contadini e degli artigiani e, danoi ,ha-da sempre- sostituito la soupe francese, e la Suppe germanica, il pane intriso nell'acqua. Dàaghen na söpa è un'espressione non certo ammirativa, chè vuol dire 'annoiare con lunghi discorsi, cui sarebbe meglio dàaghe en taj.
Né la pietanza, dunque, né la minestra hanno origine gastronomica, ma ancora più originale (e inaspettata) è la base della nostra colazione, sia la prima, sia la seconda - che poi è il pranzo del mezzogiorno -. Ricordando un po' di latino, “colazione” deriva da confero, contuli, collatum, conferre, che significa “portare insieme” (in questo caso “vari cibi”). La colazione (la prima), per i contadini di un tempo, era abbondante e sostanziosa, relativamente - si sa - costituita magari da una fetta di polenta con una falda di lardo.
Andando più a fondo, si trova che il termine deriva dall'ambito conventuale. I monaci, alla sera, dopo aver ascoltato la lettura dei testi sacri, prendevano una frugale refezione. I testi sacri erano, in genere, una raccolta di vite dei Santi “messe insieme, raccolte insieme”, quasi sempre con il testo latino accanto a quello italiano; per cui siamo ancora nel senso di “mettere insieme”. Riassumendo: “far colazione” era un'espressione dei conventi, che poi fu fatta propria da chi dai conventi viveva fuori; anche in Francia, dove collation è un pasto frugale, anche se (lo trovo stampato) è più usato per il pasto del mattino “prendre le dejeuner”, cioè “rompere il digiuno”. Sempre dall'ambiente conventuale vengono altri termini: il nome di un liquore, da me sconosciuto, ratafià, che deriva dal latino rata fiat, = sia decisa (una certa cosa) e, quand'era decisa, ci si beveva sopra, a suggellare la conclusione. Pure di origine religiosa è prosit, che i tedeschi, quando brindano, usano come formula di buon augurio. E’ proprio la fusione tra pro sit, sia “pro”, cioè “sia di vantaggio”: dalla liturgia è passato alla sacrestia e, da qui, all’osteria.
Ed ora, con un “prosit!” ai lettori, chiudo questa chiacchierata etimologica, per la quale ho attinto dall'articolo di una rivista arrivatami in omaggio e che ho reso alla mia maniera.
Gianfranco Taglietti
SETTEMBRE, TRA ORTI E CAMPI (da "la crema di Crema" di Pier Luigi Ferrari e Marco Lunghi)
Settembre. I segnali di fine stagione produttiva si fanno in questo mese più evidenti a partire dagli animali che cominciavano a trasmigrare (An setembre le rundàne, an vutóbre j’otre usèi i va 'n du i sa che sa sta mèi) agli uomini che si liberavano dallo stretto assedio degli impegni estivi. I buoni villici potevano godere dei frutti abbondanti giunti a maturazione nei broli e negli orti (An dal mis da setembre da fruta ga n'è sempre) e si trasformavano in accaniti cacciatori inseguendo prede appetitose di volatili e di selvatici per lunghe ore adré a Sère e a traers a taré.
L'accorciarsi delle giornate e la diminuzione delle attività produttive modificava la stessa dieta del contadino che avvertiva minore urgenza di nutrimento rinunciando allo spuntino pomeridiano: A San Michel (29 settembre) la merenda la ula 'n cel. Intanto l'orto raggiungeva il punto massimo della sua produzione con una esplosione finale di fronde e di frutti che diffondevano forti profumi di aromi vegetali e incominciavano a tingersi dei vivaci colori dell'autunno. Fino alla metà di settembre si possono seminare i spinàs e l'insalata.
La fotografia è di Ezio Quiresi
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commenti
Francesca Ginelli
22 settembre 2023 06:13
Articoli molto interessanti. Vorrei sapere se nella tradizione Cremonese esiste un vino tipico. Grazie