10 ottobre 2021

Fu il cremasco Antonio Riboli, uno dei più celebri duellanti

Il fenomeno del duello e l’impulso a duellare sono esistiti sin dai primordi dell’umanità. Del resto, in quasi tutte le specie animali è diffuso il combattimento tra individui, in genere maschi, che si affrontano per la sopravvivenza, il territorio o il diritto di accoppiamento. Noi uomini abbiamo sempre duellato per le stesse ragioni ma, da un certo momento in avanti, lo abbiamo fatto anche per motivi specifici e tipici della nostra specie. Ad esempio, un nostro tipo di duello è stato quello giudiziario, “per prova della verità”, di matrice germanico-barbarica e consistente in un giudizio di Dio concesso dal giudice per risolvere liti civili o criminali. Un altro tipo di duello è stato quello in torneo, “per prova di forza e di valore”, diretto a mantenere in allenamento quanti esercitavano il mestiere delle armi. Qui parleremo invece di un ulteriore tipo di duello, quello d’onore, inteso a ottenere o fornire riparazione a offese o torti lesivi del senso dell’onore. Il che ci porta subito a dire che questo elemento, l’onore, ne costituisce il fondamento e la spiegazione. L’onore è stato oggetto di innumerevoli studi, ricerche e trattati e in questa sede, per ragioni di spazio, non è possibile diffondersi maggiormente sul tema. Basti qui citare un testo che si pone il problema della possibile sopravvivenza dell’onore e del senso dell’onore nella nostra epoca: di James Bowman, “Breve storia dell’onore”, del 2006. In ogni epoca storica e in ogni società umana il duello d’onore è caratterizzato da regole precise e consolidate, da un rapporto più o meno critico con la legislazione generale dell’ordinamento vigente e da una ritualità formale essenziale, quasi liturgica, necessaria alla sua stessa validità sostanziale. Nel duello d’onore, sempre molto rituale, la forma è sostanza.

Un secolo nel quale il duello d’onore si è espresso in modo quantitativamente e qualitativamente notevole è stato l’Ottocento, un secolo molto passionale e nel quale il senso dell’onore ha guidato molte emozioni civili, patriottiche e sentimentali, con conseguenti duelli rituali dagli esiti più o meno gravi e spesso letali per uno dei duellanti. Anche se oggi sono in pochi a saperlo, uno dei più celebri duellanti dell’Ottocento fu un cremasco, anche se in realtà era di San Bernardino, che allora faceva Comune a parte: Antonio Riboli. La sua è una storia che vale la pena di essere raccontata. È la storia di un’epoca diversa, con uomini diversi e valori diversi da quelli di oggi.

Nato nel 1834, arrivato ai vent’anni, Antonio deve prestare il servizio militare, che allora significa arruolarsi sotto la bandiera austriaca. Diserta e ripara in Piemonte. Lo fa perché si sente italiano, patriota e, soprattutto, volontario. Sui volontari del Risorgimento la letteratura è sconfinata e spesso l’enfatizzazione del loro ruolo è stata confacente a certe mode storiografiche repubblicane ancor oggi in auge nelle scuole, nell’editoria e in determinati Istituti storici. Nel caso di Antonio, lui è un volontario vero, sincero e deciso a inserirsi in una struttura militare ufficiale, non a unirsi a bande, “colonne” e corpi franchi vari. Dal Piemonte va a Genova, dove suo cognato Domenico Buffa è allora Intendente Generale. Buffa è stato pochi anni prima, insieme a Michelangelo Castelli ed Enrico Martini, uno dei principali artefici del connubio tra Cavour e Rattazzi (più per parte di Rattazzi, gli altri due più per parte cavouriana). Il suo rapporto di affinità legale con i Riboli di San Bernardino potrebbe quindi avere collegamenti con un altro personaggio della storia risorgimentale cremasca, che a San Bernardino aveva residenza e vaste campagne. Ma le indagini sono ancora in corso, per cui limitiamoci a dire che Buffa aiuta Antonio, se lo tiene vicino per un po’ e poi lo convince a rientrare nel Lombardo-Veneto, accettando la leva austriaca. In cambio, Antonio evita le punizioni del caso, anche grazie alle implorazioni della madre. Il “supplizio delle verghe” non era cosa da poco, anche per un fisico temprato come il suo. Deve però arruolarsi, sia pure a malincuore, nell’esercito austriaco.

Non resiste molto. Infatti fugge di nuovo oltre Ticino, questa volta con i fratelli Massimo e Franco Fadini. Franco, l’eroe di Montebello, sarà poi decorato con medaglia d’argento al valor militare. Sta per iniziare la seconda guerra d’indipendenza e Antonio si arruola nel reggimento Piemonte Reale. Diciamo qualcosa su tale reggimento, Piemonte Reale 2, perché questo è il numero assegnatogli tra i sei Reggimenti di Cavalleria “storici” carloalbertini (Nizza 1, Piemonte 2, Savoia 3, Genova 4, Novara 5, Aosta 6). Ricostituito nel 1814 su sei squadroni, Piemonte Reale combatte nel 1848 a Pastrengo, Santa Lucia e Sommacampagna, poi nel 1849 alla Sforzesca e quindi a Novara, nella “fatal” giornata. Allo Stendardo viene così concessa la prima medaglia d’argento al valor militare, oltre a 17 medaglie d’argento individuali e 12 menzioni onorevoli (ricompensa poi equiparata alla medaglia di bronzo al valor militare). Questo è il reggimento in cui entra Antonio, un reggimento di Cavalleria pesante, di linea, tanto che per un certo periodo è denominato anche di corazzieri. Piemonte Reale, il cui motto è “Venustus et Audax”, durante la seconda guerra d’indipendenza combatte sulla Sesia e a Vinzaglio e meriterà poi una seconda medaglia d’argento allo Stendardo per i fatti del Garigliano nel 1860.

Antonio impara in questa militanza di Cavalleria, sui terreni di guerra e nelle frequentazioni cameratesche militari, quel codice d’onore e quella visione del mondo e degli uomini che lo portano presto a diventare un intransigente duellante. È ormai un ottimo soldato, anzi un ufficiale (nel frattempo lo è diventato sul campo), un provetto cavaliere e, soprattutto, un’ottima lama, sia di spada che di sciabola. Per lui, come per molti uomini del suo tempo, soprattutto militari, a ogni torto subito si deve rispondere con una sfida a duello. Chiunque offenda il suo senso dell’onore, deve offrire riparazione col sangue. E la quantità di sangue, vale a dire il punto fino al quale il duello deve arrivare, è commisurata alla gravità dell’offesa, secondo delle regole molto chiare e ben definite. Ad esempio, nella terminologia del duello si va dal “primo sangue” a un “ultimo sangue” dall’evidente significato. Pare che Antonio abbia il primo duello importante con un suo concittadino, subito dopo la fine della seconda guerra di indipendenza, durante un suo temporaneo rientro a San Bernardino. Questo concittadino sfoggiava l’uniforme dell’esercito piemontese, pur avendo militato fino a poco prima in Boemia sotto le bandiere austriache. Va detto che allora, anche a Crema, non mancavano i voltagabbana, che fino al giorno precedente erano stati caldi sostenitori dell’aquila bicipite e ora esibivano ostentati sentimenti di italianità. Fatto sta che Antonio duella con questo suo concittadino e lo vince all’arma bianca.

Nel maggio 1860 Garibaldi salpa da Quarto e inizia l’impresa dei Mille. Quando Antonio lo sa, decide di lasciare per il momento l’esercito piemontese e raggiungere Garibaldi. L’occasione gli è offerta dalla spedizione Medici. Unitosi alle formazioni in camicia rossa, Antonio combatte con Garibaldi le principali battaglie contro l’esercito borbonico e gli è riconosciuto il grado di sottotenente delle “Guide” garibaldine. Una delle fonti sulle sue attività militari durante quella campagna è “Cose garibaldine” di Giuseppe Cesare Abba, pubblicato nel 1907. Quello di Antonio è un caso molto interessante e piuttosto raro nel nostro Risorgimento: è un ufficiale dell’esercito piemontese che rimane fedele ai valori e ai canoni di quella ferrigna ufficialità e che tuttavia si lancia in un’impresa così avventurosa, mantenendo poi di Garibaldi e del “garibaldinismo” un alto concetto e una notevole stima. Forse è l’amor di patria a consentirgli una simile sintesi, in anni nei quali i contrasti tra l’esercito regolare e i reduci garibaldini sono spesso acerrimi, tanto da causare forti polemiche in ambito militare, scontri parlamentari animati e accese battaglie giornalistiche.

Terminata la spedizione garibaldina, Antonio viene reintegrato nel reggimento Piemonte Reale e riprende la sua militanza nell’esercito piemontese, che dal 1861 diventa esercito italiano. Nel frattempo, i reggimenti di Cavalleria già nel 1860 erano diventati 17, dai 9 che erano poco prima dell’inizio della seconda guerra d’indipendenza. Come Cavalleria di linea: Nizza, Piemonte Reale, Savoia e Genova. Come lancieri: Novara, Aosta, Milano, Montebello, Firenze e Vittorio Emanuele. Come cavalleggeri: Saluzzo, Monferrato, Alessandria, Lodi, Lucca, Ussari di Piacenza e Guide. Nel 1863, stabilizzatisi gli squadroni e gli organici reggimentali, si arriva nel complesso, nei periodi in cui non c’è mobilitazione bellica e quindi senza richiamo di ulteriori effettivi, a circa 21.000 uomini, dei quali circa 900 ufficiali, come si rileva dagli annuari militari del tempo. È a questo punto, quando ormai il Regno d’Italia è diventato una realtà istituzionale e il nuovo Stato nazionale assume una fisionomia unitaria, che si diffondono gli episodi di intolleranza reciproca tra gli appartenenti all’esercito, specie se ufficiali, e i reduci garibaldini. In questo senso, uno dei fatti più rilevanti, anche per l’eco generale che ne deriva, riguarda proprio Antonio Riboli.

Alla fine del 1861, alcuni ufficiali dei Lancieri di Montebello stanno pranzando all’Albergo della Posta di Parma, città nella quale il reggimento è di stanza in quel periodo. Le vivande vengono servite su dei piatti che recano istoriate le gesta di Garibaldi. Uno di questi ufficiali, di accesa fede monarchica e sdegnoso delle imprese garibaldine, lancia le stoviglie fuori dalla finestra. Forse è solo un gesto scherzoso, di quelli che oggi definiremmo come una goliardata. Ma l’autore del gesto è un ufficiale molto in vista, il duca Sforza Cesarini. Parma è una città in cui il “garibaldinismo” è molto sentito. Si sparge subito la voce dell’accaduto, si creano tafferugli e ne nascono polemiche di piazza che rischiano di sfociare in tumulto. Il colonnello del reggimento, il conte di Pralormo, ha il suo bel daffare per sedare gli animi. Ci riesce solo con gran fatica e non del tutto. Gli alti comandi militari decidono di spostare altrove i Lancieri di Montebello. A Torino i generali Medici e Sacchi discutono con i colonnelli Cairoli e Acerbi sul da farsi, per placare definitivamente l’agitazione creatasi. È allora che arriva al generale Sacchi un telegramma del colonnello Spangaro, da Mondovì. La notizia è che il sottotenente Antonio Riboli, sconosciuto ai più, ha sfidato a duello tutti gli ufficiali dei Lancieri di Montebello che vorranno raccogliere la sua sfida, per difendere l’onore di Garibaldi e delle formazioni garibaldine, avendo lo sfidante combattuto a fianco del Generale come ufficiale delle sue “Guide”. Il fatto suscita scalpore nell’ambiente militare e non solo. La sfida è posta con tutte le regole e i crismi delle tradizioni duellistiche e secondo le prassi in uso nell’esercito regio. Otto giorni dopo, il duca Sforza Cesarini raccoglie il guanto di sfida e manda i suoi padrini a prendere accordi. Per un caso fortuito, uno dei due padrini è il tenente Fadini di Crema. L’altro è il capitano Cappelli.

Ad Alessandria, sulle rive della Bormida, il duello si svolge all’arma bianca e il duca ha la peggio. Antonio avrebbe potuto, grazie alla sua abilità, infierire maggiormente. Ma si trattiene e i danni sono per l’avversario poco rilevanti. Dopo altri otto giorni si presenta il conte Balbo, come padrino del tenente San Martino d’Aglié di Valprato, aiutante di campo del generale Cucchiari. Questa volta i duellanti si battono lungo la cinta muraria di Torino. Antonio in questo caso non si trattiene e ferisce gravemente l’avversario, che risentirà per tutta la vita della lesione al polso procuratagli dalla lama del suo antagonista. Si sparge allora la voce che Antonio sia un “mestierante maestro di scherma” e che per questo abbia sempre la meglio. Per quanto amareggiato da questo tentativo di diminuire il suo valore come duellante, Antonio resta fermo nel proposito di tenere aperta la sua sfida agli avversari che intendono raccoglierla e, per troncare ogni equivoco, compie un gesto di grande coraggio nell’ambito del duello d’onore: lascerà sempre scegliere l’arma del duello all’avversario.

È a questo punto che compare il conte Canera di Salasco. I suoi padrini propongono ad Antonio un duello alla pistola, visto che il conte è un eccellente tiratore. L’accertamento della precisa identità di questo sfidante è ancora in corso ma si potrebbe trattare di uno dei figli oppure dei nipoti in linea collaterale del conte Carlo Canera di Salasco, vicinissimo a Carlo Alberto nei suoi ultimi anni di regno e firmatario del famoso armistizio. Se così fosse, ci troveremmo di fronte a un’altra coincidenza. Infatti si potrebbe trattare di uno dei fratelli o dei cugini di Maria Canera di Salasco, figlia appunto di quel generale e seconda moglie del conte cremasco Enrico Martini. Dal matrimonio, sciolto poi dalle autorità canoniche, era nata l’unica figlia legittima di Martini, andata sposa al conte Giuseppe Vimercati Sanseverino di Crema. Non si menzionano qui le avventurose vicende di Maria dopo lo scioglimento del matrimonio, che meriterebbero un articolo a parte, avventure che comunque la allontanarono ulteriormente dalla sua famiglia d’origine. Tornando allo sfidante conte Salasco, la sua proposta dell’uso della pistola appare molto pro domo sua. In ogni caso, Antonio accetta la sfida. Anche in questa occasione Antonio ha la meglio. Colpisce il conte al braccio ma poi il proiettile trapassa l’arto e va a perforare il torace. La ferita è molto grave, però l’avversario non muore. Guarirà a fatica, con molti stenti, successivamente.

Questa sequenza vittoriosa di duelli rende Antonio molto noto all’opinione pubblica. L’aver riscattato in modo così valido l’onore delle armi garibaldine lo fa diventare uno dei corifei delle glorie militari di quella parte di combattenti italiani che non appartenevano ai ranghi elitari dell’ufficialità più conservatrice. Ciò nonostante, la sua appartenenza a uno dei corpi scelti della Cavalleria italiana, la sua fedeltà alla Monarchia e alle insegne sabaude, il suo coraggio e il suo senso dell’onore nello sfidare cavallerescamente gli avversari gli assicurano anche la considerazione e l’apprezzamento di quella stessa ufficialità più tradizionale, oltre che dei suoi colleghi e superiori diretti.

In ogni caso, la risonanza di questi duelli comincia a mettere Antonio nel mirino della Giustizia. Non è possibile, per ragioni di spazio, descrivere qui il “doppio binario” che l’istituto del duello seguiva allora in Italia. Prassi diffusa se non anche doverosa tra i militari (il non raccogliere una sfida a duello senza opportune giustificazioni poteva avere conseguenze deleterie sulla carriera militare), il duello era sempre meno considerato dall’ordinamento giuridico e dalla legislazione penale come una sufficiente causa di giustificazione a fronte delle lesioni inferte e magari del decesso dell’altro contendente. In pratica, una prassi abbastanza tollerata e di fatto tutelata in certi ambienti diventava molto poco tollerabile giuridicamente e non più tutelabile socialmente in casi eclatanti e reiterati come quello di Antonio Riboli. Non era ancora entrato in vigore il codice penale del 1889 ma il problema del rapporto sempre più critico tra il tradizionale corpus iuris del duello d’onore, applicato di fatto nella società italiana, soprattutto in ambito militare, e il diritto positivo vigente per tutti i cittadini dello Stato italiano era già molto avvertito. Tra i numerosi testi sull’argomento, per maggiori indicazioni in proposito, si rinvia al testo di Marco Cavina, “Il sangue dell’onore - Storia del duello”, nelle parti riferite a questo periodo storico. Fatto sta che a un certo punto Antonio, forse consigliato in tal senso dai suoi superiori, decide di trasferirsi in Svizzera, dove resta per un certo periodo di tempo, in attesa che le acque si calmino e l’eco delle sue imprese si riduca entro limiti accettabili.

Affievolitasi l’eco mediatica dei suoi duelli, Antonio rientra in Italia. Viene reintegrato nei ranghi di Piemonte Reale, dove è successivamente promosso al grado di capitano. Succede addirittura che lo stesso reggimento Lancieri di Montebello gli proponga di entrare nei suoi effettivi. E questa è una riprova di quanto un certo spirito cavalleresco e una certa considerazione del coraggio e del valore fossero allora superiori agli eventuali rancori causati dalle precedenti contese tra ufficiali. Antonio apprezza molto questa proposta ma decide di restare in Piemonte Reale. Il suo comandante Galli della Loggia ci ha lasciato di questo suo Cavaliere parole di grande stima e un elogio davvero significativo. Anche da parte del tenente Gatti Casazza, collega di Antonio, abbiamo un ricordo che descrive molto bene il suo senso dell’onore e il suo stile impeccabile.

A un certo punto, ancora abbastanza giovane, Antonio decide di ritirarsi dalla vita militare. Sceglie di tornare nella sua amata campagna cremasca e di dedicarsi alla sua passione per l’agricoltura. E così, come agricoltore, vive per il resto dei suoi giorni, con qualche puntata nella vita politica locale (è anche consigliere comunale). Viene insignito della Croce di Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia e muore a 79 anni, nel 1913. In quell’occasione compare su di lui, in un giornale locale, un articolo commemorativo da parte del dott. Ernesto Pergami, che ci fornisce molte informazioni sulla sua vita e sui suoi duelli. Antonio Riboli viene a mancare alla vigilia della prima guerra mondiale, quando la Cavalleria del Regno d’Italia ha raggiunto l’apogeo per riconoscimenti sul campo e per numero di reggimenti: addirittura 30, con il trentesimo numero assegnato ai Cavalleggeri di Palermo. In quel momento, uno degli ufficiali del suo reggimento Piemonte Reale, da poco passato all’aviazione, si chiama Francesco Baracca e sta diventando un asso del volo militare. Molti ufficiali di Cavalleria scelgono in quel periodo la nuova Arma aeronautica (si pensi ad esempio a Gaspare Bolla o a Giulio Palma di Cesnola). Sulla fusoliera del suo aereo, il maggiore Baracca, che nel giugno del 1918 cadrà col proprio velivolo sul Montello dopo 34 scontri aerei vittoriosi, fa dipingere un cavallino rampante. Qualcuno dice che sia quello dello stemma di famiglia ma forse è quello da sempre raffigurato sull’antico Stendardo di Piemonte Reale.

Diverse informazioni contenute in questo articolo sono tratte dall’opera di Mario Marazzi “I decorati al valor militare di Crema e territori limitrofi”, del 2013. La fotografia in bianco e nero qui pubblicata è presa dal libro “Patria Esercito Re” di Leopoldo Pullè, del 1908. In questa fotografia compaiono alcuni Cavalieri del reggimento Piemonte Reale: i primi tre in piedi, cominciando da sinistra, sono Vincenzo Rossa, Luigi Cairoli e il conte Alessandro Panciera di Zoppola; i tre seduti sono Antonio Cattaneo, il conte Guido Visconti di Modrone e Antonio Riboli (l’ultimo a destra). Le altre fotografie riproducono la lapide e la tomba di Antonio Riboli nel cimitero di San Bernardino.

Pietro Martini


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