19 settembre 2025

Sudore e parole dei poeti dialettali cremaschi

La pianura cremasca appartiene alla regione climatica padana e, fino a mezzo secolo fa, presentava un clima continentale con inverni rigidi ed estati moderatamente calde. Oggi, tuttavia, il riscaldamento globale ha alterato profondamente questi equilibri, rendendo difficile una classificazione precisa.

Negli ultimi decenni, il territorio cremasco ha vissuto significative trasformazioni economiche: da una tradizione agricola basata su terreni fertili e allevamento del bestiame, è passato a un’economia industriale caratterizzata da un tessuto produttivo frammentato, dominato da piccole e medie imprese.

Questa struttura industriale, pur dinamica, ha reso il Cremasco più vulnerabile alle crisi economiche globali, con molte aziende che hanno subito rapidamente le fluttuazioni del mercato. Di conseguenza, tali cambiamenti hanno inciso profondamente sulla vita lavorativa degli abitanti e sulle prospettive economiche del territorio.

Il lavoro è cambiato... e con lui il linguaggio
Il lavoro odierno è spesso frammentato, precario, tecnologico e meno radicato nel territorio. Il dialetto, invece, nasce dalla comunità agricola e artigiana. Parlare del lavoro moderno in dialetto può risultare estraniante, quasi antitetico al senso originario di quel linguaggio. La letteratura dialettale cremasca che si è interessata dei lavori risponde a tre culture ben distinte fra loro e non parimenti sviluppate con il passare del tempo: dal mondo dei campi a quello delle fabbriche, a quello dei servizi. 

Il mondo contadino ha avuto i suoi cantori, i suoi grandi cantori, che però non erano i contadini. I lavoratori dei campi non avevano il tempo né la voglia e tantomeno la capacità di scrivere poesie. Il duro lavoro generava in loro sudore, non immagini e sentimenti lirici. Essi vedevano senza dubbio le bellezze del loro mondo: le vivevano, ma non le descrivevano. Non potevano nutrire nessun rimpianto di una vita passata in povertà. 

Erano solo le persone che avevano studiato a cantare la bellezza dei campi e la formale dignità del lavoro. La poesia nasceva da chi sapeva leggere e scrivere: i nostri autori infatti erano in gran parte maestri elementari. Spesso il lavoro dei campi veniva da loro descritto con sentimenti di ammirazione, con compiacenza, con esaltazione. 

Le poesie degli "imparati", anche se erano poco conosciute dai lavoratori dei campi, avevano per i contadini un che di meraviglioso e quasi di sublime: un Meazza, ad esempio, era per loro una specie di Pascoli: bisognava averne rispetto, ma si può dire che essi amavano i nostri autori quasi esclusivamente per sentito dire.

 Il mondo rurale comunque veniva visto con occhio lirico e cantato con sincera commozione dai poeti colti che spesso componevano versi indubbiamente poetici, dominati da sentimenti di nostalgia per i tempi passati, dove tutto era buono ed era bello e di rimpianto per un mondo che nella realtà non era mai esistito.

La poesia affascinava i contadini e non era una cosa rara che nelle stalle, fra le bagule e le pastòce, un narratore recitasse anche poesie imparate a memoria da qualche altro cantore che a sua volta le aveva imparate nello stesso modo. Tradizione commovente e affascinante che fa ripensare agli aedi dell'antica Grecia: le forme della comunicazione poetica non muoiono mai! Qual era il genere più popolare, più amato e quindi il più conosciuto? Senza dubbio quello comico–realista con struttura narrativa che si riferiva al mondo del lavoro.

Autori dialettali cremaschi

La nostra scelta non si limita a presentare un solo poeta, ma vuole dare spazio a più autori dialettali cremaschi, offrendo a ciascuno l’opportunità di essere testimone delle attività del territorio, senza criteri di merito.

Il preambolo introduce la voce dei poeti locali, riportandoci all’uso del dialetto cremasco. I componimenti raccolti provengono in gran parte da autori che, oltre un decennio fa, ci affidarono tre loro poesie di argomenti diversi per un volume di memoria storica che, tuttavia, non ha mai visto la pubblicazione, come già accennato nei precedenti articoli.

Accanto al nome di ciascun autore verrà indicato anche il paese d’origine, poiché la pronuncia del dialetto varia sensibilmente anche a poche centinaia di metri di distanza. Di conseguenza, anche la grafia adottata nei testi scritti risulta differente.

Ribadiamo ancora una volta l’importanza di riportare fedelmente i testi degli autori, evitando di applicare arbitrariamente regole di scrittura definite a posteriori.

Per introdurre questa miscellanea di poeti che raccontano, nei loro versi, la vita e i lavori degli abitanti, abbiamo scelto la locuzione "Tre spane da taré", che, seppur in chiave ironica, rappresenta la suddivisione della proprietà agricola cremasca, caratterizzata da appezzamenti di terreno non troppo estesi.

La canzone, in dialetto misto a un italiano dialettizzato, invita la ragazza ad accettare come futuro marito un pescatore di rane, che le garantirebbe sempre cibo in abbondanza. Nel ritornello "Tol, tol bagàia", viene quantificata l’estensione del campo  di proprietà del futuro sposo.

Al g’a tre spane da taré, 

 lü ‘l sügöta, lü sügöta, 

Al g’a tre spane da taré,

 lü ‘l sügöta, anànc e ‘ndré 

Sposalo sposalo ragazza – Lui ha tre spanne di campo/ e continua e continua. / Ha tre spanne di campo / e continua avanti e indietro.

Abbiamo scelto da un’antologia   quella che non è mai stata pubblicata, ma più volte citata negli articoli precedenti scritti per queste edizioni on line, le composizioni di alcuni autori cremaschi.

Spesso si magnificano i tempi andati, ma forse ci dimentichiamo della vita di allora: il contadino non aveva l’aiuto delle macchine; non aveva orari di lavoro, non aveva certezza del raccolto della sua attività e nessun rimborso in caso di eventi meteo avversi. E la sua famiglia era legata come lui alla resa della terra: non era certo un’isola felice quella sulla quale insieme vivevano. Certo, sapevano accontentarsi di quel poco che avevano, a differenza della società di oggi.

Eta da Paizà 

Vinicio Sangiovanni – Offanengo 

Bastàa chèl póch che gh'ìem per ès cuntént 

sa urìem bé e sa ütàa la zént 

 

Bastàa 'na fèta da pulenta frègia

co 'n pó da strachì o 'na crösta ègia

per fàga fà cito a la nòstra fàm

töt gh'éra bù... col pà pò 'l cùl dal salàm

                              … 

Scudìem la sìt co l'acqua ciàra di fòs

sa stimàem con chèi quatre stràs adòs

 

An fasì da séchiróle per fà cós al pà 

ligàt co' na strupèla purtàem a cà.

 

 Vita da contadino  –  Bastava quel poco che avevamo per essere contenti/ ci volevamo bene e ci aiutavamo gli uni con gli altri // Bastava una fetta di polenta fredda/ con un po’ di formaggio o una crosta vecchia/ per far tacere la nostra fame// Tutto era buono… col pane anche il fondo del salame. // Ci dissetavamo con l’acqua fresca del fosso/ ci ammiravamo/ con i nostri quattro stracci addosso// Un fascio di rami secchi per cuocere il pane/ legati con un laccetto del salice  li portavamo a casa.

Il camparo era un ruolo fondamentale nelle comunità rurali, soprattutto nelle zone dove l'irrigazione era essenziale per la produzione agricola. Si occupava di controllare i canali, regolare il flusso dell'acqua e garantire che ogni agricoltore ricevesse la giusta quantità per le proprie coltivazioni. 

In alcune regioni, questa figura esiste ancora, anche se oggi la gestione delle risorse idriche è spesso affidata a enti pubblici o consorzi di bonifica.

Al camper

Lina Panzetti  –  Bagnolo Cremasco 

Va, 'n da la nòc tempestada da stèle, 

an òm sulitare

col sò badil an spala;

ga fà ciar an chignol da lüna

e le tante lüzürole

che 'nturne le ga bala.

Al va 'l camper,

cumè dumà, cumè jeer, 

cumè töte le nòc

da l'estat.

 

 Il camparo (L'addetto al controllo delle acque irrigue) –. Va nella notte tempestata di stelle, / un uomo solitario/ col suo badile in spalla; / gli fa luce uno spicchio di luna/ e le tante lucciole/ che gli danzano intorno. // Va egli/ come domani, come ieri/ come tutte le notti/ dell'estate.

I lavori sotto i portici delle cascine

Questa pratica faceva parte di quella cultura rurale che ha segnato il ritmo delle stagioni e la vita delle comunità contadine. Nelle sere d’autunno, la comunità si riuniva sotto i portici delle cascine per svolgere un compito prezioso: togliere i scartòs, le foglie, dai fusi del granoturco. 

Questo lavoro, svolto con gesti antichi e ripetuti, era fondamentale per preparare il raccolto alla conservazione e all’uso alimentare: i torsoli vuoti si usavano per accendere il camino, mentre le foglie più belle servivano per impagliare le sedie o finivano nei sacconi dei materassi, che venivano rinnovati ogni anno, rendendoli gonfi, soffici e scricchiolanti.

 E non era solo un’attività agricola, ma anche un momento di socialità. Le persone, sedute in cerchio, chiacchieravano, raccontavano storie e tramandavano tradizioni. Il suono delle foglie strappate si mescolava alle risate e al brusio delle conversazioni. Le famiglie, amici e vicini di casa si univano per lavorare insieme e condividere un momento di festa. La spannocchiatura veniva spesso accompagnata dai giochi di bambini, dai canti e dai  racconti dei più anziani, diventando un'occasione per socializzare e rafforzare i legami comunitari. 

Oggi è un’operazione contadina ancora viva, ma come una tradizione, come un'attività ricreativa, spesso organizzata in eventi agricoli o percorsi didattici per bambini. 

 Cale sere 'n mès ai füs

 Bernardo Dossena – Izano 

Setembre 'n casina 

sa scartòsa al melgòt

E léra bèl truas, 

per le casine,

a scartusà.

Al fàa apéna séra

e pian pianèto, 

quasi silensiusa

riàa la zént.

Nisû l'era 'nvidàt!

Nisû l'era pagàt!

Utas per tradisiù,

quasi 'n miràcol,

sa tiràa 'ndré nisû.

 E tam… e tam... e tam,

vü dopo l'otre, i füs duràt,

i saltàa nüc

a fa 'n bel möc.

                … 

 E 'ntant i bagai i sa diertia, 

a fa le tàne e a scundés

an mès ai scartòs e scartusì,

dopo però i fàa i cünt 

con i più dai bisì.

Quelle sere in mezzo ai fusi – Settembre in cascina/ si scartocciava il granoturco/ ed era bello trovarsi, / per le cascine a scartocciare. // Appena si faceva sera/ piano piano/ quasi silenziosa/ arrivava la gente. // Nessuno era invitato! Nessuno era pagato! / Aiutarsi era una tradizione/ nessuno si tirava indietro! E tam… e tam… e tam… / uno dopo l’altro i fusi dorati, / saltavano nudi / e facevano un bel mucchio. // E intanto i bambini si divertivano/ a far le tane e a nascondersi/ tra foglie e foglioline, / dopo dovevano fare i conti/ con i morsi degli insetti.

Ancora prima che arrivasse l’autunno le ragazze venivano ingaggiate dai fattori delle cascine per grattugiare i fusi. Il termine "gratine" non è un termine ufficiale o storico, ma piuttosto un termine utilizzato nel Cremasco per un lavoro agricolo riservato anche alle donne, che contribuivano a svolgere un’attività agricola anche in lavori fisicamente più impegnativi e la loro condizione era spesso peggiore di quella degli uomini e con minore retribuzione.

Le gratine 

Fausta Donati de Conti  –   San Michele 

 

Ma par da sent amò söl marciapé

i sàcui che ciucàa dale gratine; 

le fàa dal sò paés la strada a pe

e le gratàa 'l melgòt 'n dale casine.

I füs a du pèr du 'n dale sò ma

i 'ndàa a finì coi gnòch 'n d'un batarì;

cresìa sota i genòc al möc da gra 

e giugàa 'n sö la mida i bagaì.

               …

 Quand le pasàa, la grata cuntra 'l fiànch, 

le palanche scundide 'n dal curpèt, 

söi caèi le gh'ia 'n vèl da crösca biànch 

e sa fermàa la zent per strada a vèt.

Alura töte 'nsèma le cantàa,

le fiole col pensér al sò murùs;

antant che 'l coro 'l sa desluntanàa,

andàa zo 'l sul e sa perdìa la 'us.

 

 Le sgranatrici Mi sembra di sentire ancora sul marciapiede/ gli zoccoli che risuonavano delle gratine; / venivano a piedi dai loro paesi/ grattugiavano il granoturco nelle cascine. // I fusi a due per volta/ nelle loro mani andavano a finire nei tutoli in un attimo; / cresceva sotto le ginocchia il mucchio del grano/ e giocavano tra i tutoli i bambini. // Quando passavano la grata contro il fianco/ i soldi nascosti nel corpetto/ sui capelli avevano un velo della crusca bianco/ si fermava la gente per strada a guardarle. // Allora tutte insieme cantavano/ le ragazze col pensiero al fidanzato; / intanto che il coro si allontanava, / tramontava il sole e si perdeva la voce.

 

Un lavoro quello delle gratine faticoso come quello delle mondine (vedi  articolo su Cremona sera del 9 giugno 2025, per la poetessa cremasca Tina Sartorio Bassani) che resta nella memoria di chi lo ha svolto, per tutta la vita e non solo per la fatica, ma perché era una delle poche opportunità di lavoro per le donne in un’economia povera.

Le gratine da Pianench 

Palmina Zucchetti – S. Maria della Croce 

                      …

Adès sèm an dal Dumela 

e me so… na citadìna!

Però anche me

g’ho fat la gratìna… 

Urmai la grata, l’è söl sulér:

l’è dientada ‘n furester. 

 Pö nüssü i sa la ricorda

la passa pö gna per la ment.

… e chesta l’è la vera storia 

da le gratìne da Pianench. 

 Le gratine di PianengoAdesso siamo nel duemila/ e io sono una cittadina! / Però anch’io ho fatto la gratina…// Ormai la grattugia è in solaio: / è diventata un’estranea. // Più nessuno se la ricorda/ non vien nemmeno più in mente/ … e questa è la vera storia delle gratine di Pianengo.

 

In passato, nelle zone padane l'anno lavorativo dei contadini terminava dopo la semina autunnale. L'usanza dei contadini di cambiare posto di lavoro nel giorno di San Martino, l'11 novembre, era legata alla scadenza dei contratti agricoli. Se il proprietario del terreno non rinnovava il contratto, il contadino doveva cercare un nuovo impiego altrove, il che comportava un trasloco per lui e la sua famiglia. La scelta del giorno di San Martino per il trasferimento aveva ragioni sia tradizionali che climatiche. L'11 novembre coincide con la cosiddetta "estate di San Martino", un breve periodo di clima mite dopo i primi freddi autunnali e il lavoro nei campi prevedeva un periodo di riposo. 

Questa tradizione è rimasta nella cultura popolare con l'espressione "fare San Martino  fa san martì ", che ancora oggi viene usata per indicare un trasloco o un cambiamento lavorativo.

Dispiazér antìch

Martino Biscotelli  –  Santa Maria della Croce 

 

Zént sensa tèra

e sensa càza

persùne dezulàde,

che làsa 'ndré

le sò fadìghe

mal ricumpensàde.

Pòre zént, sö stràde 'ngeràde,

adré a 'n car pié da mizéria.

Ùmbre dal pasàt.

Zént da la nòsta piàna

che sparìa

'n da la bùrda, a la luntàna.

San Martì da i témp andré,

dispiazér antìch.

Ùmbre, che ma pàsa 'n da la mént,

al vündes da nuémbre.

San Martino Gente senza terra/ e senza casa// persone desolate, / che abbandonano/ le loro fatiche/ mal ricompensate. // Povera gente, su strade ghiaiose, / dietro a un carro colmo di miseria. / Ombre di un passato. // Gente della nostra pianura, che spariva/ nella nebbia, da lontano. // San Martino dei tempi passati, / dispiaceri antichi. // Ombre che mi passano nella mente, / all’undici di novembre.

Nel territorio cremasco grande diffusione e indiscutibile importanza, ha avuto e continua ad avere l'artigianato: è considerato da sempre un lavoro tradizionale, necessario alla vita quotidiana.

L'artigiano creava oggetti d'uso comune, che avevano un altro scopo oltre la semplice decorazione: gli articoli così prodotti avevano spesso importanza culturale e/o religiosa e comunque presentavano alcune qualità estetiche. 

L’arte tessile è stata senza dubbio una delle attività artigianali lombarde tra le più rinomate in particolare per la lavorazione della seta. Fino alla metà del secolo scorso söi sulèr delle cascine cremasche si allevavano i bachi da seta, come contributo economico supplementare per le famiglie contadine.

L'artigiano

Mario Pagliari  – Offanengo 

A laurà, sa cumincia da bagài 

le ma düre, piene da cai.

L'impurtànt l'è 'mparà 'l mester 

ma prima da töt, al duer.

Saì rubaga 'l mester al padrù

l'è 'n arte, 'na sudisfasiù.

L'ü i la sa lunga la pastòcia

anche se da solc... poch 'n secòcia.

Cent, mela i na fa da strade 

certament lunghe le giurnade;

ma per pudì tirà a campà

büsogna piegà la goba e… laurà.

L'artigiano A lavorare si incomincia da ragazzi/ le mani dure, piene di calli. / L'importante è imparare il mestiere/ ma prima di tutto il dovere. / Saper rubare il mestiere al padrone/ è un'arte, una soddisfazione. / Lui la sa lunga la storia/ anche se di soldi... pochi in tasca. /   Cento, mille ne fan di strade/ certamente lunghe le giornate: / ma per poter tirare a campare/ bisogna piegare la schiena e… lavorare.

 Il lavoro in fabbrica

Anche il mondo della fabbrica ha avuto posto nella produzione poetica cremasca, ma i suoi temi e le sue intenzioni comunicative sono state del tutto originali. Gli autori, sempre operai, affrontano soprattutto la realtà della loro condizione, della vita vera. Crema e il Cremasco sono state e sono, sedi di molte piccole industrie che, anche se vanto della nostra terra, non sono certo una soluzione ottimale per i lavoratori.

Éta da fabrica

Francesco Mauri – Ripalta Guerina 

Lüs bianche e frède, 

repàrt rumurùs,

òm sunnulént, 

laurà nuiùs...

Al turno da le cinch

gh'èm cuminciàt: 

sa spèta 'l capo

che 'l ga da cuntrulà.

Sa dèrf la finèstra

per got l'aria frèsca

e 'l sul che nas:

l'ünica ròba natüral

che gh'èm!

Cuma sa fà 

a mia ribelàs?

Vita di fabbrica  –  Luci bianche e fredde/ reparto rumoroso, / uomo sonnolento, / lavoro noioso... // Il turno delle cinque/ l'abbiamo cominciato:/ si aspetta il capo/ che deve controllare. // Si apre la finestra/ per godere l'aria fresca/ e il sole che nasce: / l’unica cosa naturale/ che abbiamo! // Come si fa/ a non ribellarsi?

Una delle incognite del lavoro in fabbrica era la paura di perdere il posto di lavoro: un ammortizzatore come la cassa–integrazione era percepito come un preludio al licenziamento perché spesso poteva anticipare una riduzione permanente del personale. 

 Casaintegràt 

Maddalena Rossini – Montodine 

Ta sa séntet tranqìl, quànt gh'è 'l laurà

ta pénset e ta prugètet chèl che sarà

ma 'n bèl dé, sénsa gnà tòrt e gnà rezù

ta rèstet an casaintegrasiù.

Töte le certèse và a fàs benedì

ta sét pròpe pö m'è fàghela e ché dì

féc, bulète, spéze, gh'è töt da pagà,

i bagài che và a scóla, gh'è apò da mangià.

Gh'è apò da istìs, per mia 'ndà 'n gìr biót

töt gh'è càr, gràtis gh'è pròpe nigót.

Gh'è da pregà 'l Signór da malàs mia

perchè cüràs sénsa sòlc l'è 'n agónia.

Cale póche palànche le pàr rià mia

e quànt i ta ia dà, le bàsta mia

la "riqualificasiù", ròba bèla

ma ché... ga ól ótre che chèla

Cassaintegrato Ti senti tranquilla, quando c’è lavoro/ pensi e progetti ciò che verrà/ ma un bel giorno, senza torto né ragione/ ti trovi in cassaintegrazione. // Tutte le certezze vanno in fumo/ non sai proprio più come farai e che cosa dire/ affitto, bollette, spese, c’è tutto da pagare, / i bambini vanno a scuola, bisogna pur mangiare. // Bisogna anche vestirsi, per non andare in giro nudi/ tutto costa caro/ gratis non c’è nulla/ c’è da pregare di non ammalarsi/ perché curarsi senza soldi è un’agonia. // Quei pochi soldi sembra che non arrivino mai/ e quando te li danno, non bastano. / La riqualificazione è una bella cosa/ ma qui… ci vuol altro che quella.

Nella raccolta di poesie cremasche sono stati accettati anche testi con pseudonimo dell’autore o anche anonimi, perché sembrava più opportuno dare la possibilità anche a chi non volesse rivelarsi come autore di testi poetici. Anticipammo forse la privacy?

Altro problema del lavoro in fabbrica per i cremaschi di allora, ma anche di oggi, era ed è, che il territorio cremasco non ha avuto grandi fabbriche, se non negli anni ‘60 con la presenza dell’Olivetti a Crema. Il lavoro bisognava cercarlo soprattutto nelle ditte meccaniche o metalmeccaniche del milanese, rendendo di fatto l’operaio un pendolare.

Vita da pendulàr

Pinca 

                   …

'Na matina d'invérne gh' éra la néf 

vó al tréno, cumè 'l sòlit töt trafelàt;

só an ritàrd, ʃlunghe 'l pas, ma 'l pas l'è gréf. 

Da ché gh'è vèrt, ma söl punt amò saràt.

                     …

 "Biʃögna scaalcà," dis vü; che situasiù! 

"Pruèm," 'ncumìncia 'l prim e 'l va da là. 

Adès töi i è pasàt: al tréno l'è 'n stasiù; 

mé rèste ültem e tóca a mé ris–cià.

 

'Nda 'l mumént che cérche da schià le punte 

vü 'l vé sóta per ütàm e dam la mà.

"Isé ta ègne adòs... pròpe adès che ténte ..." 

Lü 'l sa scòsta e.… còl paltò rèste 'nfilsàt.

 

Parie 'n salàm tacàt véa, e 'l dificil 

l'éra chèl da liberàm, perchè i altre 

i curìa cumè tante bale da füʃìl

 per ciapà 'l tréno, per mìa turnà 'ndré.

 

Vita da pendolareUna mattina d’inverno c’era la neve/ vado al treno, come al solito di corsa; / sono in ritardo, allungo il passo, ma il passo è pesante. / Da questa parte è aperto, ma sul ponte è ancora chiuso. // “Bisogna scavalcare” dice uno; che situazione! / Proviamo, inizia il primo e va al di là. / Adesso tutti sono passati: il treno è in stazione; / io sono l’ultimo e tocca a me provare. // Nell’attimo in cui tento di schivare le punte/ uno viene sotto per aiutarmi e darmi una mano/ “Così ti vengo addosso/ proprio adesso che ci provo” … / Lui si scosta… e col cappotto resto infilzato. // Sembravo un salame appeso e il difficile/ era come liberarmi/ perché gli altri correvano come le pallottole di un fucile/ per prendere il treno, per non dover tornare indietro. 

Qualcuno per migliorare la propria condizione sociale, riprendeva gli studi e frequentava la scuola serale per adulti. 

Scole serài

Mario Pseudonimo 

 

Quant che go finìt la quinta 

"basta scole" ghie giüràt:

me papà co' la sò grinta 

mia d'acòrde 'l ma pestàt.

 

Jo ciapàde 'n töi cantù 

ma a la fine go vensìt; 

che restàe 'n gnurantù 

da pèr me ma so suegnìt.

 

L'éra mèi a giürà mia, 

so tiràt adòs di guài: 

fae dal dé 'n tipografia, 

po' a San Piero, le serài.

              …

Go mia fat al dirigént, 

n'uperàre so restàt:

ma da chèi che 'n da l'ambiént 

mèi da j'altre j'è pagàt.

 

Scuole serali Quando ho terminato la quinta elementare/ “Basta scuole” avevo giurato: / mio padre con il suo carattere, non era d’accordo/ e mi ha picchiato. // Le ho prese in ogni parte, ma alla fine ho vinto. / Che restavo un ignorantone / da solo l’ho capito. // Era meglio se non avessi giurato/ mi sono tirato addosso dei guai: / stavo di giorno in tipografia, / poi a San Pietro le scuole serali. // Non sono diventato dirigente/ sono rimasto un operaio/ ma uno di quelli sul posto di lavoro, / più pagato degli altri.

Oggi la società è alle prese con la situazione che si crea per le immigrazioni. Forse si dimentica che anche noi siamo stati migranti alla ricerca di un po’ di fortuna, e che il fenomeno migratorio ha interessato  anche nel passato il nostro territorio.

Emigranti stagionali

Me zio Giuanì

Agostino Cantoni – Trescore Cremasco 

Me zio Giuanì, la primaéra dal trentòt,

per stà mìa sémpre a cà a fà nigót, 

l'éra partìt sóta 'n'impresa da le Quàde 

per laurà an Abisìnia a fà le stràde.

Al gh'ìa la dóna da mantègn e trì bagài 

e l'éra stöf da mangià sémpre pà e ài! 

La paga l'era bùna, gh'éra da guadagnà 

e po'... i dizìa, tànce negrèt da civilizà.

I la mandàa a cà des dé ogni sés mìs 

e quand al riàa la sìa töt al pais.

Chèi che 'ncuntràa me zìa i sa sentìa dì:

"L'è 'n viàc e prèst al rìa al me Giuanì".

Mio zio Giovanni –  Mio zio Giovanni nella primavera del trentotto, / per non stare sempre a casa a far niente, / è partito con un’impresa di Castelnuovo/ per lavorare in Abissinia a costruire le strade. // Aveva la moglie da mantenere e tre bambini/ ed era stanco di mangiare pane e aglio! // La paga era buona, c’era da guadagnare/ e poi… dicevano, c’erano tanti negretti da civilizzare. // Aveva una licenza di dieci giorni ogni sei mesi/ e quando tornava lo sapeva tutto il paese. / Quelli che incontravano mia zia si sentivano dire: / “È in viaggio e presto arriva il mio Giovanni”.

Immigrati stagionali

Le castègnine

Antonia Denti – Campagnola Cremasca 

               …

Ricòrde i temp andre quant 

riaa da la muntagna le castègnine.

Le giraa a pee per al paìs

col caretì pie da sàch da castègne

e le uzaa: "castàgnine, castàgnine!”.

 

La zent la curia fora da cà 

con al melgòt da barataa, 

pari melgòt pari castègne. 

           …

Le castègne l'era cal fröt 

che ga piasia prope a töc

e a la sera dopo sena 

sa le metia sö la stüa 

a fale rüstì e 'ntant

che sa disia al ruzàre

ogne poch sa le giraa con le maa

e a la fine quant iera còce

le mangiaem apò con le ma tece. 

Le castagnanti Ricordo i tempi passati quando/ arrivavano dalle montagne le castagnanti. / Giravano a piedi per il paese/ col carrettino pieno di sacchi di castagne/ e gridavano: / “Castegnine, castegnine”! // La gente correva fuori da casa, / col granoturco da barattare, / una misura di granoturco con una misura di castagne. // Le castagne erano un frutto/ che piaceva a tutte le persone/ e la sera dopo cena/ si mettevano sulla stufa/ per farle arrostire e mentre / si recitava il rosario/ ogni tanto si giravano con le mani/ e alla fine quando erano ben cotte/ le mangiavamo anche con le mani nere.

Migranti di oggi 

'L granelì

Pio Ferla – Credera Rubbiano 

 

L'éra partìt dal desèrt

per circà 'n pòst,

sö la stràda da ciapà l'éra incèrt,

alùra 'l sà fidàt dal vént cumè guidadùr.

                    …

La miséria 'l gh'éra lassàt,

tànte persùne che scapàa da la guèra,

adès amò chèle 'l gh'a ritruàt:

amò disperàde e 'n pé per tèra.

                  …

Al speràa che ca la póra zént

la gh'aarès truàt cumpassiù,

che le nassiù, cuma gh'a fàcc al sò amìs vént,

le gh'aarès truàt la giösta solussiù. 

Al speràa da truà amìs nóf

per pudì giugà con lùr,

ma gh'è nigót da nóf:

con ca la póra zént

argü sa fàcc püssé sciùr.

             …

Il granelloEra partito dal deserto/ per cercare un posto migliore, / sulla strada da percorrere era incerto, / allora si è affidato al vento come guida. // La miseria aveva lasciato, / tante persone che scappavano dalla guerra, e senza nulla/ ora ancora quelle ha ritrovato: / ancora disperate e senza ancora nulla. // Sperava che quella povera gente/ avrebbe trovato compassione, / che le nazioni, come aveva fatto l’amico vento/ avrebbero trovato una giusta soluzione. // Sperava di trovare amici nuovi/ per poter giocare con loro/ ma con quella povera gente/ qualcuno è solo diventato più ricco.

Contadini, operai ed artigiani, i è chèi che laùra, cioè sono quelli che producono beni materiali, ma ci sono anche lavoratori che prestano semplicemente dei servizi e  i è chèi che laùra poch, chèi che fa 'n mestér,   così li classificava ingenerosamente la popolazione: sono i liberi professionisti, i negozianti, i bottegai, gli ambulanti. Da questa concezione della realtà nascono poesie di impianto narrativo ricche di vivaci ritratti e di gustose "storielle".

Commercianti a km. 0 

L'urtulana

Agostino Cantoni – Trescore Cremasco 

La ghia l'urtaia a Caergnaniga 

tera da rae, raanei e remulàs

che, cuma disia 'na bela cansuneta,

i custaa tre palanche al maz.

                  …

Gh'era amò fosc quand la riaa a Crema, 

la scargaa tote le so ses ceste

mese 'n bela mostra sol bancù

al mercat d'erbe, 'n Piaza Trieste

 

L'era la prima a finì le scorte: 

virz, barbabietole e spinas

“Ce che cumpra chè al me banc, 

con tre palanche gan do du maz”

             …

Gh'è riat an om vers le undes 

al vuria cumprà quatre sigole

Ma dispias, jo bea endide töte 

ga no amò do sota la sculadüra...

ma je bea prenutade da tant temp 

da 'n bel bagaj che stà a Lusura.

 

Da pierù gha ne po gna ü,

le soche jo finide l'otra sera, 

chei che prope i vol mangiale 

i va a cumprale a Pasarera!

L’ortolana Aveva l’ortaglia a Capergnanica/ terra di rape, rapanelli e crescione/ che come diceva una bella canzonetta, / costavano tre soldi al mazzo. // Era la prima a finire le scorte: / verze, barbabietole e spinaci: / “A chi compra al mio banco/ con tre soldi gliene do due mazzi”. / È arrivato un uomo verso le undici/ voleva comprare quattro cipolle. / “Mi dispiace, le ho già vendute tutte, me ne sono rimaste due sotto la scollatura/ ma le ha già prenotate da tanto tempo/ un bel ragazzo di Lusura. // Di peperoni non ne ho più uno, / le zucche le ho finite l’altra sera, / quelli che proprio vogliono mangiarle/ vadano a comprarle a Passerera”.

L'urtulà 'n dal fòss

Bruno Mondini – S. Bernardino  

Söbet... le ùs le corr al paìs.

Sa dis: – Pì, l'urtulà, l'è 'ndat 'ndal fòss! 

Sumar e tumarèl, töt a balì

an sö la strada bröta per i Dòss...

Che scalògna: l'è roba da nun crèt! 

Curbèle d'insalata e da zermòi, 

tumàtes, sèlem, cèste da curnèt... 

pö nigót! Che fadìga per regòi!

Per ste sentér sa passa a mala pena:

da sà e da là gh'è tant da fussadèl

che ündes mes a l'an l'è sempre 'n piena.

Adès che cuminciàe a fa 'n po bèl –

al dis Pì – dòpo tanti an da dèbet,

 me toca too amò car e sumarèl! –

 

L’ortolano nel fosso Subito… le voci corrono in paese. / Si dice: “ Pi, l’ortolano, è caduto nel fosso! / Asino e carretto, tutto perso/ sulla strada brutta per i Dossi…// Che sfortuna: roba da non credere!” / Cesti di insalata e di germoglio, / pomodori, sedano, ceste di cornetti / più niente! Che fatica per guadagnare. // Per quel sentiero si passa a fatica: / al di qua e al di là ci sono dei fossi/ che undici mesi l’anno sono sempre in piena. //”Adesso che cominciava un buon periodo/ – dice Pi – dopo tanti anni di debiti/ mi tocca ancore comprare carro e somarello!”  

 

Welfare cremasco

 

An ciel gh'è 'na stelina. La sa ciama Natalina! 

Anna Stabilini – Castelnuovo  

         …

Natalina da Culèta

sempre 'ndala butighèta!

La ricorde prope issé

col scusàl ligàt dadré

con an modo issé garbàt

l'era sempre prunta a dat.

 

Ghìet d'i guai a trà 'n castèl?

la ghìa prunt al fagutèl!

E 'n librù scundit dadré

ch'i la sia 'ndoma le:

e la dervìa 'l sò cassèt

per ütà i puarèt. 

 

In cielo c’è una stella Natalina di Coletta/ sempre in bottega. / La ricordo proprio così/ col grembiule legato dietro/ con dei modi così garbati/ era sempre pronta a dare. // Avevi dei guai a pagare gli arretrati? / Aveva pronto un fagotto per te. / E un librone nascosto dietro(al banco) / che conosceva solo lei: / e apriva la sua cassa / per aiutare i più poveri.

 I professionisti

Al dutùr Ansèlmi

Alessandra Cerioli – Ombriano 

 

L'è riàt al paeʃèl 

amò quaʃe ʃbarbatèl,

l'éra gióen e anche bèl... 

però a vèdel a pasà

pèr le vie d'Umbrià

an Lambrèta e còl capèl

che 'l gh'ia 'n fiòch cumè 'n baciòch 

al paria quaʃe 'n biròc.

Pò 'l s'ha tòc ana Giulièta 

lénta 'mè 'na biciclèta 

pèr andà a viʃità

i malàt chi la ciamaa.

E mé nóno  an gran turù  

pas pasèt, còl sò bastù, 

töc i dé 'ndaa dal dutùr 

e 'l turnaa sénsa dulùr...

Al dutùr, pèr pusà 'n bris,

'ndaa da séra cò i amìs,

ma se argü staa mia tant bé,

söbet prunt a saltà 'n pé 

al curia dal sò malàt. 

             …

E la ʃént da Umbrià, 

chèi malàt e pò chèi sà,

 i pól mai dimenticà

'l sò dutùr, la sò buntà. 

Sè, perchè le sò premüre

i éra mèi... da cént püntüre.

Il dottor Anselmi – È arrivato al paesello, / ancora sbarbatello, / era giovane e anche bello… // Però a vederlo passare/ per le strade di Ombriano/ in Lambretta e col cappello/ che aveva un fiocco come un battacchio/ sembrava quasi un calesse. // Poi si è comprato la Giulietta/ lenta come una bicicletta / per andare a visitare/ i pazienti che lo chiamavano. / E mio nonno   un grande scocciatore/ passo passo col suo bastone, / tutti i giorni andava dal dottore/ e tornava senza più dolori. // Il dottore per un po’ di riposo, / andava di sera con gli amici, / ma se qualcuno non stava tanto bene/ era pronto ad alzarsi e correre dal malato. // E la gente di Ombriano/ quelli malati e quelli sani/ non possono mai dimenticare/ il loro dottore, la sua bontà. / Sì perché le sue premure/ erano meglio… di cento punture.

 

 Fino al secolo scorso gli abitanti di ogni paese del cremasco si erano guadagnati un soprannome, che li identificava. Interessante sarebbe spiegare l'origine di questi soprannomi, ma non è cosa semplice: essendo per lo più nomignoli offensivi, crediamo siano stati appioppati da popolazioni   antagoniste, nemiche e rivali. Sono quindi di origine assai antica, quando ogni comune o gruppo abitativo faceva a sé. 

Aucàt da Casalèt

Antonio Sbarsi – Casaletto Ceredano 

 

Aucàt da Casalèt j'è scurmagnat,

e 'n verità la gh'è 'na qual linguassa 

che taja da fil e da costa... Da mat 

an vede mìa sö töta la gran massa.

 

Avvocati di Casaletto CeredanoSono detti avvocati   gli abitanti di Casaletto Ceredano, / e in verità c’è qualche lingua lunga/ che taglia sia per filo che per costa… Di matti/ non ne vedo proprio in tutta la popolazione.

Alcune forme di composizione poetica, per la loro stessa natura, sono state spesso musicate, divenendo momenti inalienabili della nostra cultura. I testi di queste poesie popolari derivano a volte da altri dialetti lombardi, dal milanese in modo particolare, ma significativamente sono stati "cremaschizzati".

Al magnano

Done done gh'è che ‘l magnano
che'l gh'a òia da laurà.

Salta fora ‘na spuzòta
còn an ma 'na pignata rota 

rota, zgepada

se al ma faria

 an mestér da galantòm
me se gh’e la daria 

da nascòst dal mè om.

Lo stagninoDonne donne c'è qui lo stagnino/ che ha voglia di lavorare. / Esce fuori una sposina/ con in mano una pentola rotta. / Rotta, spezzata. / “Se me la aggiusta/ proprio da galantuomo/ io ve la darei di nascosto da mio marito". 

La poesia comico–realista non appartiene solo alla tradizione dialettale contemporanea; essa nasce, e in modo illustre, con la stessa letteratura italiana. 

 Trasporti 

Per un esempio di questo genere nella produzione poetica locale, iniziamo dal poeta più noto. Federico Pesadori, riguardante la carrozza a noleggio.

Al nol da Risénch 

Federico Pesadori – Ricengo 

 

 Se 'l custès anche 'n marench 

tode 'l nòl che gh'è a Risench. 

Con d'un franch o poch da pö 

vègne a Crèma e turne 'n sö. 

Se gh'ó frèssa, però, me 

preferésse fala a pe.

 

Quand sa 'l sent a vègn luntá 

col 'l so plof e plif e plá, 

ta se a temp a di 'n rusáre

prim che 'n vesta lü 'l cumpáre; 

chè 'l caàl l'è pròpe quièt, 

s'è sücür cume 'n d'un lèt; 

e 'l cariás l'è tanto bú 

da pudí cargá 'n canú;

gh'è le rode mia tròp tunde 

che va vea a unde a unde, 

ma l'è còmod, sa sta be: 

va, va sö, ta 'l dise me.

La carrozza a noleggio di Ricengo Se anche costasse un marengo/ prenderei il noleggio che c’è a Ricengo. / Con un franco e poco più/ vengo a Crema e ritorno. / Se ho fretta però io/ preferisco andare a piedi. / Quando si sente venire da lontano/ col suo plof e plif e pla, / fai in tempo a dire un rosario/ prima che si riesca a vederlo arrivare; / perché il cavallo è proprio tranquillo/ si sta sicuri come in un letto; / e il veicolo è ben solido, / da poterci caricare un carro armato; / le ruote non sono proprio rotonde, / e procedono ondeggiando/ ma è comodo, si sta bene: / vai, vai su, te lo consiglio io.

Altro mezzo di trasporto: un pullman. Il nome del mezzo deriva dalla scurmagna (soprannome) degli abitanti del paese I pa mòi: pani inzuppati.

La Pamoia

Carlo (Carlatì) Livraga –   Vaiano Cremasco 

 

La Pamoia l'è bela, l'è bela,

gh'è Chinù che al par una stela

gh'è Sigala che al par un bambì

la Pamoia l'è nacia a balì.

A Milà pröm da partì

Cech Chinù col sò sigulì:

Sta atente o Gigì,

da mia nà do dal punt da Spì.

 Quand l'è stacia sö al punt da l'Adda

la Pamoia la s'à strüecada

Cech Chinù col sò sigulù

l'è nac do a brigulù.

La corriera La corriera è bella, proprio bella, / c’è Chinù che sembra una stella/ c’è Cicala che sembra un bambino, la corriera è fuori uso. / A Milano prima di partire/ Cecco Chinù col suo fischietto dice: sta attento o Gigì, / di non cadere dal ponte di Spino d’Adda. // Quando è arrivata sul ponte dell’Adda/ la corriera si è rovesciata/ Cecco Chinù/ è caduto a rotoloni.

Conclusione 

Un lettore potrebbe obiettare: i poeti dialettali cremaschi di oggi non parlano del lavoro? Perché mancano all’appello? Esaminiamo alcune possibili motivazioni:

– solo pochi poeti del terzo millennio continuano a usare il dialetto nella loro produzione poetica. La perdita d’uso del dialetto nei contesti formali e lavorativi ha reso più difficile usarlo per descrivere esperienze di vita professionale.

– il dialetto, lingua delle radici e degli affetti, fatica a parlare di badge, call center e smart-worching. I poeti dialettali cremaschi di oggi, cantano ciò che resiste al tempo: i temi legati alla memoria, all'intimità, alla terra, o agli affetti, che risultano più consoni alla musicalità del dialetto e alla sua forza evocativa. Il dialetto oggi è rifugio di ciò che è privato, sentito, nostalgico non di ciò che è produttivo.

E in questo silenzio sul lavoro, non c'è una mancanza, ma una scelta: quella di preservare il dialetto come lingua dell’anima, e non della frenesia. 

 

Graziella Vailati


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