16 maggio 2022

Le ricette delle antiche osterie: la Sapa, el Savùur, el süüch. Quando dell'uva non si buttava via niente

Le ricette delle antiche osterie: dell'uva non si scartava niente. Siamo fuori stagione, d'accordo, ma dopo aver letto le ultime indicazioni di Andrea Fontana della sua splendida rubrica (da Cremona alla scoperta del vino) dove si parlava di fermentazione e di pigiatura (leggi l'articolo) ho ritrovato una serie di appunti che voglio condividere con voi e che raccontano di come la vite dia uno dei frutti più generosi in natura, anche per la cucina. Quando nelle nostre campagne le vigne la facevano da padrone, dell'uva non si scartava niente come per il maiale. Per carità ancora adesso oltre al vino sono ancora ricavate le grappe dalle graspe, l'olio di semi dai vinaccioli e altro. Ma quello che accadeva nelle vecchie osterie cremonesi e in tante case di campagna sembrava quasi un miracolo. Vediamo quello che raccontano i nostri appunti.

L'agresto: Oggi è assolutamente sconosciuto. Si usava uva acerba, di preferenza la "iadga" e lugliatica, raccolta verso la fine di luglio. Schiacciata l'uva, si faceva bollire il mostro, separato dalle graspe, riducendolo a un terzo. Messo in bottiglia si usava tutto l'anno come condimento agro, al posto del limone o dell'aceto, specialmente su carni grasse e per fare salse verdi. I contadini chiedevano il permesso al padrone di coglierne un po' ma qualche volta prendevano anche quella un po' più matura che non sarebbe loro spettata. Da qui il detto "fàa l'agrest" nel senso di compiere un piccolo furto. Scomparso l'agresto è rimasta la frase alterata nel tempo: "fare la cresta" deriva da lì?

Vino d'uva lunina: parente stretto dell'agresto. L'uva lunina non esiste, è quella presa di notte, al chiaro di luna, poco prima della vendemmia. Qualche "sporta" qua e là nei vigneti, piccoli furtarelli. Ne risultava un vino diverso, dal gusto aspro, acerbo e di qualità indefinibile proprio perchè preso da uve di qualità diverse.

Sapa: si otteneva anch'essa dal mosto. Si versavano dieci litri di mosto bianco, filtrato ma non fermentato in un recipiente facendolo bollire per 12 ore fino a ridurlo a un terzi. Si lasciava intiepidire e quiondi si imbottigliava ottenendo uno sciroppo dolce, denso, vischioso che serviva, allungato con acqua come bibita dissetante d'estate e d'inverno si spalmava  sulla polenta abbrustolita o per guarnire dolci e crostate.

Savùur: la base era simile a quella della Sapa ma vi si aggiungevano mele cotogne, pere, altra frutta spezzettata, scorze di limone e d'arancio seccate per togliere la pellicola bianca che avrebbe portato un sapore amarognolo. Dopo 12 ore ne usciva una vera e proprio marmellata che veniva riposta in vasetti e conservata.

El süüch: Era un po' differente da quello che ancora oggi si fa. Si usava il mostro, bianco o rosso, Mentre metà si faceva bollire, l'altra metà si usava per stemperare farina bianca fino ad ottenere una specie di colla che veniva lentamente aggiunta al mosto e fatta bollire. Versato in padelle finiva per solidificare con la consistenza di un budino e, una volta seccato al forno, poteva durare mesi senza problemi e si masticava in bocca come fosse chewing-gum.

Ecco la ricetta del Sugo (El süüch)

Ricorriamo alla sapienza culinaria di Lidya Visioli Galetti.

Ingredienti: 6 bicchieri di mosto di uva rossa appena pigiata, 6 cucchiai di farina, 5 cucchiai di zucchero.

Miscelare bene la farina con lo zucchero, quindi stemperare con un poco di mostro, evitando che si formino grumi, e procedere versando a poco a pocoil restante mostro e amalgamare il tutto. Fare poi addensare a fuoco lento, sempre mescolando. Versare in uno stampo non molto profondo o in tanti piccoli stampini monodose e, una volta raffreddato, rovesciare su un piatto di portata o sui singoli piattini. Una variante interessante potrebbe essere l'utilizzo di uva anzichè del mosto.

Nella foto del 1924 clienti e titolari nel cortile dell'Osteria "la büsa" e una donna serve ai tavoli


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