21 dicembre 2025

Testös: cotechino suin generis

Appeso a testa in giù, nella foto d'anteprima è ritratto il donatore del testös, portatore sano dello scibile porcellesco del suiniverso terracqueo (anche se io prediligo il terralambruschico) stillante umori ed effluvi non fruibili in fotografia.
 
Non devo aver fatto danni abbastanza se ancora mi invitano a cene celebranti frutti desueti, di quell'albero da sfrutto (e da strutto) che è il maiale. Il frutto in questione è il testös e scriverlo correttamente è un busillis, quindi è una contestabile interpretazione; la parola testös suona meglio in bocca quando c'è il testös in persona.
Trattandosi del testös, io tratto del testös in questo trattato che poi ho bistrattato, nella maniera verificabile qui sotto.
Nome: testös. Professione: cotechino -special reserve- per sibariti; nato prevalentemente a Cremona, dove vive benissimo in pochi rari esemplari. Il WWF non l'ha ancora protetto, ma Molinari di S. Savino, dell'omonima premiata ditta di onoranze funebri suine, sì. 
Talvolta. 
Ahimè non sempre.
 
Fategli gli occhi piscioni e mosso da motivi di cristiana pietà, magari vi verrà incontro. Sarà poi un piacere avere da scontrarsi col suo prodotto e in caso di colesterolo basso, dargli una ritoccatina all'insù.
Lo si può trovare (è per pochi eletti: ordinatelo prima, la sua attesa ne esalterà il piacere) nella ex sua quasi salumeria-meraviglieria-cotechineria-salamelleria dè San Savìin, alla regolamentare distanza uditiva delle campane del Torrazzo, oltre la quale non ha libera circolazione, come Corrado Barberis con poetico intuito, ha scritto per il cotechino "vaniglia".
 
Se avete "lette" le virgolette, dopo che le ho virgoscritte, allora saprete che la vaniglia non c'entra un beneamato fico secco: è un modo di dire per sottolineare quanto dolce e delicato sia questo prodotto del mio amico porcello (siamo amici per la cotica) dovuto al fatto che, illo tempore, Saronni -il suo demiurgo- avendo una copiosa richiesta di cotechini da consumarsi subito (trattandosi di cibo ricco di lipidi... un tipico caso di fat-food) alleggerì il dosaggio del sale e conservanti vari, dato che in città avrebb avut vit breviss. Ora Ambrogio ha ceduto diritti e ricette a Ca' dell'Ora sulla Josephine road, all'altezza di San Giacomo, ora Lovara, un tempo al Campo.
 
Lo si potrebbe definire, il cotechino "vaniglia" (D-E-T-T-O vaniglia) un cotechino da città (ecco perché deve sentire le campane del Torrazzo) mentre quello salato normalmente ricopre il ruolo di rude e rurale salume di campagna.
C'è chi -non conoscendone la genesi- è arrivato a fare davvero il cotechino con la vaniglia la cui risultanza è equi(n)parabile a portare in tavola la mozzarella in carrozza con una carrozza (trainata dagli asini che fanno il cotechino con la vaniglia).
 
Il testös vive ristretto in questa zona, solo nella stagione invernale e per rifugiarsi dal freddo -furbissimo- si rintana nelle pentole, dalle quali esce, dopo l'amp-lesso con l'acqua bollente (parentesi dovuta all'autocompiacimento per la battuta) per accoppiarsi con la polenta e -insaziabile- dare pure (di patate) una bottarella ai valori del colesterolo.
 
Nella pignatta (pig-gnatta) entra sforacchiato dagli stuzzicadenti (che poi rimarranno conficcati) così il porco diventa porcospino, dopo che lo chef si sarà trasformato in torero e con vari olè!!! gli avrà piantato le banderillas nelle ex vive carni.
Dopo quattro ore di bagnetto caldo, lo trascinerà -volente o bollente- nel piatto di porcellana (che non è un filato di lana di porcello col quale si fa il pig-maglione) dove svelerà la sua poesia, declamandola più che a strofe, a scrofe.
Un vero distributore di colesterolo, ma dipende dalla quantità autosomministrata, evitabile ordinando dell'Emmental e mangiandone solo i buchi...
 
Che il testös sia il nome di un cotechino (cotenchino secondo Sugo Tognazzi) non è di difficile intuizione se i friulani chiamano musetto lo stesso insaccato: l'accezione testa-muso non dovrebbe impegnarvi le RAM del cervello più di tanto, se non già utilizzate in attività decerebranti, come fare i guardoni per vedere in tv reality fintissimi, dove la sola realtà è la finzione. 
Una contraddizione dei termini: come grappa analcolica, guerra umanitaria, fuoco amico (quello sotto la pentola).
 
L'accostamento testös-musetto, l'ho fatto solo per comprenderne il significato; se scendiamo sul campo dei sapori, dei valori e della preziosità dell'insaccato, allora il paragone va fatto considerando il porcello un'ostrica nel cui scrigno si cela comodamente una perla. Quando si parla di porci comodi...
 
Un salume ricco, per sciuri (chi era ricco era patrizio, nobile, raffinato, colto, filantropo, ora è solo palancoso, stellestriscioso e s'ciàu).
Un patrizio cremonensis, Cavitelli, gli ha tributato odi (assurgendone a ruolo di aedo) oltre che a ben più prosaiche attenzioni, meritandosi una viuzza di Cremona, un budello; quasi logico, parlando di insaccati. 
Il testös non si ammanta certo della plebana livrea di un infimo, dozzinale, industriale involucro di cellulosa, né si adatta ad entrare nel bindone equino o nel diritto di manzo, ma esige il budello naturale (meglio fidarsi dei propri) che mani esperte, rudi, avranno ripetutamente lavato in acqua e aceto, rilavato e ririlavato in un budellwash a gettoni.
 
Parentesi splancnica (ostia che termine!, ma se non lo uso adesso, non potrò usarlo mai più) vertente su budelli viscere & company: a Cremona, quando il cotechino viene insaccato nell'intestino cieco si autobattezza ciöta o ciüta, cieüta, ciœta, così come testös diventa testeuzz, testüs, testeüs, testœs, testeös, tèstös (per l'accentazione corretta si dirimerà la vessata quaestio a fil di spada, col prof. Mortoni, mantvan, sgubadur, pasient, e san, e pütost che dla cultüra l'è fiöl dla natüra e il prof. Barbieri, cremunées s'cèt (schietto) & ciöt fàt e finìit (perfettamente compiuto, azzeccato).
Leggasi: se per un accento devo rimetterci il piumaggio, mi defilo, altrimenti mi infilano. Per una soluzione democratica, approfittate del self service degli accenti qui accanto: ë ê è é ö õ ø ô œ û ü ù ú.
 
Dicono che a smettere di fumare ci si senta meglio. Balle; quando Giovanna d'Arco smise di fumare, non si sentì affatto meglio. Nel nostro caso, il fumo fa benissimo al porcello, soprattutto quando diventa speck.
Piccola amenità ulteriore sulla ciöta: quando alla fine dell'estate i canali irrigui avevano svolto il loro compito di abbeverare il granoturco (e non altro, che non si sognassero, un giorno, di diventare navigabili fino a Milano!) veniva loro ridotta la portata con la stessa semplicità con la quale si tagliano i fondi quando si promulga una finanziaria, lasciando all'asciutto i pesci nel primo caso e a $€cco i contribuenti, nel secondo.
 
Non si sognassero, un giorno, d'avere un ritorno dai soldi sanguisudati e sanguisugati dalle spire della dichiarazione dei redditi, perché la priorità va data alle grandi opere (vedasi ponti pensati a Pontida) scordandosi che per un povero cristo, magari anche solo aggiustare la casa (ad averla!) è una grande opera.
Quando si asciugavano i fossi, dicevo (Bugia! Scrivevo.) bisognava salvare il pesce nell'olio bollente dato che la sua natura lo vuole nell'acqua o nella padella. Nei fossi si faceva uno sbarramento con badilate di terra -la ciöta, ovvero diga, tura- e si portava al sicuro il pescato. Ciöta, sta per sbarramento. Intestino cieco* -chiuso- sta per sbarramento. 
 
* dal dialogo, avulso tra una supposta e un missile: "Beato te che vai cielo"
 
Cotechino nella ciöta sta per "s'arrangerà il dottore, vada sulla forca -io sulla forchetta- lui e il colesterolo".
Motivi di ulteriore cristiana pietà*, mi inducono a non scrivere un pensierino deferente agli schizzinosi che tolgono il grasso del prosciutto e poi, non solo non strizzano le patatine fritte (Il prof. Barbieri gongoli per lo sfoggio della litote) stillanti raccapricciante, venefico, grasso di palma, ma arrivano -o tempora o mores- a pucciarle barbaramente nella maionese, che notoriamente è priva di grassi.
 
* mi domando sempre perché alcuni nostri non correligionari, non contemplino il quadruzamponoide nei loro menù e poi si salutino con salàm. V'allah a capire.
 
Ndùm innàans. Pensare che la povertà era tale, che si usava l'acqua di cottura del cotechino per fare la polenta!.
Veniva sfruttata (l'avevo detto che era un albero da sfrutto) per approntare 1 ris8, o si toglieva il grasso rappreso per fare la bèrtulina, parente povera della sbrisolosa (sbrisolona per i targati Mn) nella cui ricetta poteva figurare qualche avanzo di minestra (lotta agli sprechi, ecologico recupero degli avanzi, cibo da avanzi da galera).
Poi, in palestra*, vedasi prima asterisco, poi asterischi**, avrebbero livellato i livelli.
 
* la palestra in questione (foto didascalizzate sopra il titolo, daghè n'uciàada) era open air, in méza ai càamp, gli attrezzi*** ginnici erano badili e forconi: con essi il colesterolo era mantenuto a livello e il benessere del tiratore di accidenti non si avvaleva di chacra, stonetherapy, massaggi sciatsu. Bastavano numerosi e convintamente sofferti kankeri.
 
** alla festa degli asterischi, una volta, si presentò un punto e non gli venne aperto: "Ma sono io! Ho messo il gel!" Gli fu aperto.
 
*** attrezzi come pala, vanga, badile & zappa. Fatti gli esercizi che avrebbero aiutato a mantenersi tonici, robusti, magri e incazzati neri per la miseria perfettamente intonata al colore dell'incazzamento, dovuto al fatto di lavorare il granoturco ed essere pagati a un quinto*.
 
Didascalia bis posticipata di foto sopracitata nei titoli. Veduta della palestra bucolica (georgica è "più meglio") in auge nei tempi addietro, quando il benessere non aveva libera circolazione, ma l'aveva unicamente a senso unico. 
Non essendo particolarmente ferrato nei ferri del mestiere usati per gli esercizi da svolgersi in questo campo, potrei candidarmi per coprire il ruolo di spaventapasseri.
 
* Cosa vuol dire "a un quinto"? Significa che tu paisàan (Fortitudo tua in brachio: di buono gli operai -come gli astici- hanno le braccia) mi lavori il campo di mais a gratis (che fa rima, anzi farina) e ogni 5 sacchi -perchè sono magnanimo- te ne regalo uno; il che, tradotto, significa non prendi una lira, ma ti paghi da solo col tuo lavoro eD IO, che non ho fatto un'ostia, mi tengo so£o il 400% in più di te.
Per comprendere meglio: una volta essiccato il granoturco sull'aia e portato in granaio (davanti al padrone, seduto, che contava i $acchi) si raccoglievano con la sgarnèera i chicchi rimasti, se ne facevano cinque minuscoli mucchiettini e quattro andavano al padrone, uno era tuo.
 
Un sistema efficace che ha fatto proseliti nelle banche, nelle assicurazioni e nelle società per azioni, bravissime nel privatizzare gli utili e socializzare le perdite, secondo i dettami del motto "Ho vinto, abbiamo pareggiato, hanno perso".
 
Rewind. Testös: questa specialità la si fa (do re mi sol) principalmente con la testa del porcello (il nome testös è abbastanza trasparente) la qual cosa e per forza di cose, il quadrupede non comprende appieno. Perché, per questo, deve perderci la testa dopo averci lasciato la pelle, pardon la cotica? La medesima, verrà poi premurosamente raschiata dalle setole, mettendo a nudo il rosa porcellino ed ispirando quadri epici, come la maial desnuda.
 
Le parti, ovvero la testa tagliata a mano post ghigliottinatura di rito e carni magre, con quel quid in più dato dal muscolo della ganascia non particolarmente sviluppato come quello dei politici (sofferenti di manducatio insatiabilis) che entreranno a far parte del cast del testös, verranno macinate diverse volte, via via (non sono diventato balbuziente) con fori diversi, fino ad assottigliarle, amalgamarle con spezie che nemmeno sotto tortura il norcino vi rivelerà e poi mischiate virilmente a forza di braccia (il motto di Cremona è Fortitudo mea in brachio) fino ad intriderne intimamente ogni det-taglio.
 
All'atto pratico, quelle carni magre, sono la pasta del salame e questo svela la bontà del suino che non potendo essere una pasta d'uomo, interpreta benissimo la pasta del salame, riuscendo così a non fare la figura del salame.
La sceneggiatura del testös, che il regista norcino alias masalèer non perde mai d'occhio -sarebbe orbo- prevede rurali sgorgate di vino rosso che personalmente "assaggia" numerose volte; lo statuto dei masalèer non ammette, è tra le conditio sine qua non (si scrive condicio, ma a Cremona le T abbondano) norcini astttemi.
 
TTTra le cose ammesse al masalèer, incitamenti vari al personale addetto alla mis'ciada, con epiteti di indubbia efficacia, soprattutto perchè proferiti con in mano oggettini acuminati (o acumimorti?) che per loro intrinseca natura tendono a nuocere.
Fare equazione masalèer-ape regina, manovalanza-api operaie e renderà l'idea, anche se non si sa chi l'ha prestata. Per i duri di comprendonio il masalèer è colui che col suo insostituibile e prezioso contributo, si adopera affinchè il maiale, graziosamente, renda, la maiala, vedova.
 
Necessaire necessario per capire, del porcello, alcune sue sottigliezze. In questo è in gamba, anzi in prosciutto!
La fine di questo film, dopo l'ultimo ciack della rituale cena, capotavola il masalèer, centrotavola il defunto (talvolta la testa intera, che guarda caso si chiama testös) con protagoniste le verze màte (minestra di riso e pasta di salame fresco nonchè di verze che non si capisce perché debbano essere improvvisamente impazzite) e le ossa come comparse prima e scomparse poi (e qui mi sbava il prof. Mortoni) vede l'assegnazione dell'oscar di polenta al testös come miglior protagonista e alla polenta stessa medesima come deuteragonista, accompagnato dallo scroscio delle mandibole.
The end.
 
Uscendo, correrò il rischio d'essere investito da un testös, sarà un frontale durissimo, ma ho già pronto il modulo per la constatazione amichevole.

 

Lilluccio Bartoli


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commenti


Lilluccio Bartoli

21 dicembre 2025 08:27

Ostrega, se lo/a sventurato/a lettore/rice è arrivato/fin qui ed ha avuto il coraggio di leggerlo tutto, può insultarmi a piacimento e pure esagerando.