13 marzo 2023

Evviva le magiòostre ma attenti ai maluàmen

Succede. Sì succede che, passati gli ottanta, ti accade una cosa strana ma bella. Stai conversando in italiano e – tàch! – ti esce un termine in dialetto cremonese di quando eri bambino. Sono parole o modi di dire che normalmente non uso, ma in quel frangente – tàch! – salta fuori. Forse perché sono termini più espressivi di quelli del dialetto attuale che traduce praticamente dall’italiano. Così, al negozio, si chiedono le fragole e non le magiòostre, oppure la ricotta e non la maschèerpa, le arance e non i pürtügàj. 

Non sono uno studioso del nostro antico dialetto: ben altri nomi si possono fare da Giovanni Lonati a Luciano Dacquati (mio amico e direttore), ad Agostino Melega, al professor Gianfranco Taglietti, autore di quel classico Dizionario. Io sono soltanto una persona che ama la propria città e che cerca di farlo in tanti modi. Come quando tracciai il profilo di 60 personaggi cremonesi doc.

Al pari delle figure emblematiche della città anche il “vero” dialetto merita di essere tramandato e, per quel che posso, cerco di farlo anch’io.

EL MALUÀMEN

L'altro giorno stavo dicendo a un amico di non frequentare un certo conoscente che ritengo non sia una brava persona e, subito, dalla bocca mi è uscita -tàch - la parola maluàmen. E' un termine che sentivo da bambino e così ho cercato di trovarne l'etimologia. A quei tempi ascoltavo spesso mia mamma e altre pie donne recitare il Pater noster senza conoscere il Latino. La preghiera termina con "Sed libera nos a malu. Amen". Non sapendo che ci fosse il punto (e non sapendo di latino) pronuciavano in fretta il finale: sed libera nos a maluamen...E ' possibile che significasse di liberarle dai mascalzoni che così presero questo nome. 

Giusta o non giusta, la spiegazione è verosimile. O a me così piace crederla. Chissà di quanti altri modi di dire si potrebbe trovare la genesi ma -come ho detto- non sono uno specialista della materia. Mi accontento di ricordare quei  termini che, pian piano, mi tornano in mente...Eccone uno che arriva  all'improvviso e mi ricorda l'infanzia.

EL BECHÈER

E' uno dei negozi dove andavo spesso chiedendo esattamente ciò che mi aveva ordinato la mamma. Compravo le bistecche dal bechèer, quello che oggi è chiamato macellaio o, al massimo "masalèer". Ma andavo spesso anche dal frütaróol che oggi è il fruttivendolo, per gli articiòch, le seréeše, i purtügàj, un po’ di sèler e perdèsem ( carciofi, ciliege,sedano, arance, prezzemolo). E, dulcis in fundo, dal butighéer modeste salumerie che oggi ti sorprendono con magnifici piatti gastromici e culatelli in bella vista. In tema di cibi si possono ricordare anche el chisóol e la bertulìna modeste ma gustose merende a base di farina.

GLI APPELLATIVI 

A quanto ricordo, il nome esatto era scütümàja, in pratica soprannomi che venivano generosamente distribuiti un po' a tutti. E ciò anche grazie al giornale saririco Padus che volentieri li pubblicava in forma anonima e che, tuttavia, centrava il bersaglio. Uno tutto preciso era detto piabrìna  e poi: slandròon uno che non aveva voglia di far niente, sgandüfiòon se si abbuffava sempre nei pranzi; a un cantante velleitario e stonato toccò persino 'Àašen de Maràasca' (una cascina dei dintorni). Per chi entrava e usciva di galera c'era il termine balabiòt e uno con poco cervello balàander. Una donna ben pasciuta la chiamavano sbumbašùna mentre di una dai costumi un po' facili si diceva l’è na giòostra.  Dell'ultimo, per ovvi motivi, ometto la traduzione: erano “i cülaléegher”.

I MESTIERI

Mentre il falegname corrispondeva al marengòon,  l'idraulico era el trumbèer.  Poi c’era el stagnìin che aggiustava le pentole, el bechèer - come già detto - il macellaio. E quando si voleva ravvivare un po' i mobili di casa, c' era el lüströr  mentre l'arrotino passava davanti alle case gridando: "Dóne gh’è rivàat el muléta!!!"

I MODI DI DIRE 

L' è gràs me ‘n ròi" (è grasso come un maiale) andava per la maggiore, oppure: “ ‘L' è fürtünàat tàa’me en càan in céeša”, che non necessita di traduzione. Un termine poco raffinato era riferito a un indumento stirato male: “El pàar stàt in de’l cüül a ‘n càan”. E anche questo non ha bisogno di spiegazione. Per indicare che non si contava niente, si diceva: “Cüntàa ‘me ‘n bàch de pulèer”.  Ed infine un modo di dire non politically correct, ma reso famoso da Tognazzi nei suoi film: “Và a dà vìa ‘l cüül”

Si potrebbe scriverne a lungo e più profondamente come hanno felicemente fatto gli esperti che ho nominato. A me è bastato "tirar fuori" le parole che ogni tanto si affacciano alla memoria, ricordandomi quei meravigliosi tempi di una giovinezza felice.

Nella foto di Faliva il mercato di frutta e verdura di piazza Cavour (cremona 1955). Foto di Giuseppe Faliva

 

Gian Paloschi


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