Io c'ero quel 24 giugno 1965, quando i Beatles arrivarono in concerto a Milano: i ricordi di una ragazzina che partecipò all'esibizione dei 'bravi ragazzi trasgressivi'
C’era un solaio, nella casa di Lodi dove mia sorella Nuvola era andata ad abitare con Carlo. Si erano sposati da più di un anno, ed ora aspettavano un figlio. In realtà aspettavano una figlia, ma allora non si sapeva in anticipo. Per me e Serena, l’altra mia sorella, era stata una piccola rivoluzione, poiché non era facile che i nostri genitori ci lasciassero uscire di casa, se non per andare a scuola, possibilmente percorrendo sempre lo stesso tragitto. Invece il viaggio a Lodi in corriera era consentito. Gli amici del fratello minore di Carlo, Joseph, formavano una compagnia di giovani affidabili.
Quell’estate del 1965 avevano da poco concluso la seconda Liceo classico al Verri, e Serena, che aveva la loro stessa età ed era avanti un anno, la terza a Crema. Io la quarta Ginnasio. Avevamo preso l’abitudine di riunirci in quel solaio dove, come carbonari, una sera avevamo organizzato un Simposio. Io non sapevo nulla di simposi ma loro l’avevano studiato, e anche se Joseph era astemio ci eravamo agghindati con bianchi lenzuoli, proprio come fanno oggi i liceali per recitare durante la notte del Liceo classico, ma loro molto più attenti ai particolari e agli accessori, noi minimalisti. Ci eravamo accomodati su cuscini, non per discutere di filosofia: per cantare. I nostri amici avevano chitarre e batteria, e s’erano perfino concessi il lusso di incidere un disco. Il loro complessino si chiamava “I Systems”, e riproduceva la formazione dei Beatles, ma il loro nome aveva non poco inquietato la mia compagna di banco, poiché proprio allora in matematica stavamo studiando i sistemi, e la cosa non ci piaceva. Con l’accompagnamento di quei ragazzi, Serena ed io cantavamo le canzoni di Françoise Hardy, Hugues Aufray, Richard Anthony, Jacques Brel. In francese, perché era la lingua che si studiava a scuola, ma anche perché nostro padre ci aveva portato in vacanza in Spagna, nell’estate del 1960, sull’onda dei romanzi di Hemingway, che l’anno successivo avrebbe messo fine alle proprie estati pericolose nonché alla propria vita. In Spagna tutti i giovani turisti erano francesi più o meno imbranati con lo spagnolo. Le mie sorelle ed io facevamo da interpreti.
Ci mancava quell’inglese che nostro padre non aveva voluto insegnarci, forse per tenerci all’oscuro dei discorsi che intrecciava con qualunque essere umano dalla cui bocca uscissero due parole in inglese. Bevevano tanto, gli inglesi, e ridevano alle loro stesse battute. Tutto sommato non ci dispiaceva che lui, impegnato in quelle riunioni chiassose, restasse un po’ distratto dai nostri incontri con gli amici. Eppure ci mancava l’inglese per le canzoni. Per fortuna i nostri amici di Lodi l’avevano studiato a scuola, fino alla quinta ginnasio, come usava allora. Così, con l’aiuto di Joseph avevamo trascritto le parole delle canzoni dei Beatles. Niente di paragonabile a ciò che sta dietro al disco “Chiedi chi erano i Beatles” degli Stadio (1984), o all’omonimo libro di Diego Amodio (2024), e tanto meno al “Chiedimi chi erano i Beatles” di Pierluigi Bersani (2025), dove i Beatles diventano occasione di dialogo politico, sociale e generazionale. No: per noi era solo bella musica di bei ragazzi, da capire e cantare nei nostri incontri carbonari.
Quei quattro erano i classici bravi ragazzi trasgressivi. Mio padre se n’era accorto fin da quando era riuscito a procurarsi, non so come, il loro primo disco “Love me do” (1962). Alcuni miei coetanei ricordano di averla ascoltata in anteprima a casa nostra. E poi soprattutto “Please please me” (1963), entrata da protagonista nella festa di Capodanno 1963/64. Sì, perché la nostra era una famiglia che amava la musica: mio padre suonava il piano saltellando sui tasti con le sue dita asciutte, per riprodurre il ritmo del Boogie-Woogie. Mia madre suonava musica classica, e quando, su nostra richiesta, si cimentava nelle canzonette, le rendeva tutte sdolcinatamente melodiche. Dunque i bravi ragazzi trasgressivi avevano libero accesso nelle nostre vite, forse perché i miei non si erano resi conto di quanto la trasgressione venisse amplificata per l’appunto dall’essere i Fab Four “ragazzi perbene”. Che il loro primo ed unico concerto a Milano si tenesse in giacca e cravatta, infatti, non faceva che aumentare la capacità di immedesimazione dei figli di “famiglie perbene”. Il che oggi fa sorridere, ma anche le successive manifestazioni del Sessantotto, come testimoniato da numerose fotografie, si sarebbero tenute in giacca e cravatta, prima che l’eskimo diventasse un’omologante divisa dei contestatori (docenti universitari compresi).
Dunque i Beatles arrivano a Milano il 24 giugno 1965. Elettrizzati come non mai, ci organizziamo per partecipare. Partiamo con la 2CV verde che in seguito avrebbe conosciuto molte avventure europee. Al volante Carlo, per ragioni di età unico con la patente. In cinque, per di più, in anni in cui non si parlava né di cinture di sicurezza né di sicurezza in generale. Purtroppo le mie sorelle non potevano venire: Nuvola, in dolce attesa, aveva il timore di essere schiacciata nella calca. Serena non osava sottrarre neppure un pomeriggio allo studio in preparazione della maturità. Allora quell’esame, non ancora riformato dalla legge Sullo (1969), teneva impegnati gli studenti per tutto il mese di luglio con i suoi scritti e gli orali che, sotto l’ipocrita dizione “riferimenti”, celavano la possibilità di essere interrogati in ogni materia sul completo programma del triennio. Il batterista dei System, poi, diede forfait perché in procinto di partire per Londra. Restavo sola ragazzina con gli altri amici. Con qualche trepidazione si parte alla volta del Vigorelli di Milano. Non immaginavo che il mio primo concerto milanese sarebbe diventato un mito o, come si dice scomodando la religiosità, un’icona della musica e addirittura della storia contemporanea. Pochi anni dopo, molti manuali scolastici avrebbero riportato in copertina i Beatles, in alternativa a Marylin Monroe. Ma mentre stai vivendo un evento “storico” non sempre te ne rendi conto. La mia preoccupazione non era primaria: non mi intimorivano le ragazzine isteriche che laggiù, sotto al palco, urlavano ed applaudivano ad ogni monosillabo o nota di Paul, George, John e Ringo. Più che altro ero perplessa nel percepire la tensione dei miei amici più grandi. Nei momenti di maggior baccano, quando tutti, anche noi sugli spalti, ci alzavamo in piedi per manifestare il nostro entusiastico “essere là”, loro mi prendevano per mano, e la loro rassicurazione si tramutava in ansia secondaria indotta. È proprio vero che quanto più sei piccolo tanto meno hai paura. Spesso mi capita di meravigliarmi dello stupore di alcuni adulti di fronte alla disinvoltura dei bambini ad esempio nell’esibirsi in pubblico. Sarà incoscienza, ma aiuta a crescere.
Ciò che allora stupì me quattordicenne fu invece il grande numero di spettatori, che alle 17 fu di “ben 7000 persone”. Alle 21, poi, quando già eravamo tornati a Lodi, mi venne spontaneo paragonare i ventimila dell’incontro serale con la popolazione di Crema, che allora contava meno di trentamila anime. Ridicolo. Eppure l’attenzione viene colpita da fattori diversi, e spesso la memoria travisa la realtà. Così quando rivedo quel concerto me lo rappresento in bianco e nero. Non ci sono colori in quel meraviglioso spettacolo, di cui conoscevo ogni nota, e di cui conservo una fotografia mentale simile a quei dagherrotipi dell’Otto/Novecento, più affascinanti delle perfette riproduzioni fotografiche rese possibili dalla tecnologia del Duemila, dal figurativo all’iper-realista. La magia di allora risiedeva indubbiamente nel nostro essere stati “risvegliati” dal sonno dogmatico di canzonette scipite, magari ben confezionate ma tutte uguali.
Il miracolo dei Beatles fu di scomparire presto, evitando la penosa messa in scena di stelle già cadute da un pezzo, che non illuminano più il nero universo con il bagliore di pochi istanti. La loro è una sfida a chi non si rassegna ad accettare il declino e il tramonto, che tutto sommato con le sue sfumature affocate potrebbe ancora stupire, ma solo noi stessi, non più gli altri, distratti da altri miti e altre avventure.
Allora niente cellulari e pochissime macchine fotografiche. Di conseguenza niente reperti archeologici per attestare la nostra presenza e la nostra gioiosa partecipazione, accaldati, a quell’evento unico, da contrassegnare con stelle, bollini e cuoricini nei riposti recessi di un virtuale bloc notes interiore. Joseph rievoca quella volta che, passando davanti al negozio di dischi al ritorno da scuola, ascoltò “Please please me”, ricavandone un’impressione di esaltante novità. Da allora – dice – è cambiato tutto, anche le aspettative rispetto a un concerto come quello dei Beatles. Lui infatti credeva di ritrovarsi a un “concerto” classico, dove tutti ascoltano in silenzio, mentre in quella manifestazione ai primordi dei moderni concerti si sentiva poco, l’amplificazione funzionava male, e molti urlavano. Però che emozione sentire dal vivo quel “Twist and shout”! Oggi, a parte Carlo che concluse la propria attività di attore scomparendo da questo mondo prima di sperimentare il disfacimento della vecchiaia, siamo tutti in pensione, i ragazzi come medici, le ragazze come insegnanti.
E qui mi fermo, perché la storia di "Sotto il segno dei pesci" è già stata scritta da Antonello Venditti.
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