L’ora della signora Ida. Ricordi estivi di un bambino degli anni ‘60
Sì, noi bambini durante l’estate aspettavamo tutti l’ora della signora Ida. Negli anni ’60 nei cortili del nostro caseggiato la densità di popolazione infantile reggeva il confronto con quella di una favela di Rio. Da questa ex caserma napoleonica, in seguito alla successiva edificazione di un corpo intermedio, erano stati ritagliati un giardino, assolutamente ignorato da tutti quanti i bambini, e quattro cortili cementati, al contrario ambitissimi. I nostri due, su livelli leggermente differenti, erano divisi da un ingenuo muretto di nemmeno mezzo metro la cui dignità catastale veniva sistematicamente umiliata dallo sciame sismico estivo costituito da una quindicina di bambini vocianti e saltanti. Negli altri cortili i numeri erano inferiori, ma misurata in decibel la differenza era poco apprezzabile. Con l’aiuto dei Regolamenti dei cinque condomini esistenti, gli adulti, che pur dovevano sopravvivere, erano riusciti a blindare per bene gli orari di gioco nei cortili e quelli di assoluto divieto. Naturalmente c’erano sempre degli sgarri, soprattutto ad inizio stagione, che aprivano tra le famiglie la fase di lamentazioni e rivendicazioni, di consultazioni e contrattazioni, di precisazioni e assicurazioni e alla fine, ahinoi, quella delle punizioni. Ma dopo queste prime scosse di assestamento, l’estate scorreva quasi sempre liscia.
In quella fettuccia di cemento si svolgevano epiche sfide tra le formazioni dei due cortili. Quelle a calcio erano le più frequenti, rigorosamente per maschi, ma non ci facevamo mancare le varianti. Coi primi caldi di fine maggio si apriva infatti la stagione delle pistoline ad acqua in plastica. Fin oltre metà giugno le due bande si armavano fino ai denti dai tabaccai sul corso Garibaldi, investendovi le misuratissime paghette. Quello era il tempo dei duelli all’ultima goccia e dei vestiti inzuppati all’inverosimile con conseguenti sgridate solenni dei genitori; a casa mia per noi fratelli, in particolare, a rinforzare la comprensione della predica, si aggiungevano puntualmente quelli che mia nonna Paolina definiva “scüfiòt”. Li definiva e li amministrava con indiscutibile eloquenza. C’erano anche le battaglie con le cerbottane, armate con frecce ricavate da strisce di giornale arrotolate. Erano preferibilmente combattute durante gli orari del proibizionismo: da finestra a finestra, da balcone a balcone le rudimentali frecce ben sperleccate per saldare la carta, si incrociavano nello spazio aereo compreso tra i due condomini che fronteggiandosi delimitavano i nostri due cortili.
Ma tutto questo, per quanto divertente, entusiasmante e pure sfiancante, era contorno: il piatto forte dell’estate in cortile era senza dubbio la signora Ida. Viveva assieme con la sorella minore Ester a piano terra nel condomino dirimpettaio al nostro e raccontava le storie. Anzi, le fiabe, proprio quelle classicissime dei grandi maestri che, alla faccia delle chirurgiche e pedanti analisi morfologiche e funzionali di Propp e soci, per noi bambini, raccontate dalla signora Ida, erano semplicemente belle. “Signora Ida, ci racconta la storia oggi?”, urlavamo più volte e a più voci per farci sentire da lei. Il sì non era affatto scontato, perché le due sorelle lavoravano in casa. Con vernici lucidissime e dai colori bellissimi dipingevano a mano bamboline, pupazzetti, animaletti e quant’altro in “plastica dura”; se pertanto erano indietro coi tempi di consegna, si saltava irreparabilmente la storia. Ogni tanto avevamo accesso al loro laboratorio delle meraviglie dove sul pavimento scatole e scatoloni aperti mostravano gli oggetti ancora incolori, mentre su mensole e tavolini, eserciti schierati di questi oggetti alti non più di due o tre dita attendevano l’asciugatura dei loro splendenti colori. Le mani delle due non più giovani sorelle erano d’oro, a bocca aperta guardavamo la precisione e la rapidità con cui passavano i loro differenti pennellini di grandezza perfino micrometrica su corpi, volti, code, creste… Era l’incanto sostitutivo di quello della fiaba, per noi bambini una fiaba nella realtà.
Quando però dall’interno dell’appartamento giungeva il sospirato sì, iniziavano immediatamente le insistenti richieste di affrettare i tempi di attesa, anche se tutti sapevano che su questo la signora Ida era inflessibile: sarebbe uscita solo quando il sole avrebbe lasciato completamente il cortile, ossia quando l’ombra sarebbe giunta fin sul tetto, all’angolo estremo del cortile. E così, pur continuando a giocare, lanciavamo occhiate cariche di impazienza verso il lento avanzamento dell’ombra. “Guardate, manca poco!”, era l’incoraggiamento che ogni tanto si levava dal monitoraggio collettivo.
Ma al rumore del catenaccio della porta di casa, ogni belligeranza veniva accantonata, ogni vivacità si placava e il cortile si preparava a vivere, senza saperlo, senza volerlo, il suo momento di massima unità nella letizia del silenzio attraversato solo dalla pacata narrazione della signora Ida. L’anziana Ida usciva portandosi “la cadrega”, così diceva, e la collocava sotto il portico, dove il sole non aveva mai battuto e, come nelle scuole dell’antichità, solennemente sedeva, appunto, in “cathedra”. Noi selvatici, acquattati per terra a gambe incrociate, incuranti del cemento ancora caldo, assumevamo rapidamente la postura dell’ascolto con le mani sotto il mento a sorreggere la testa protesa verso parole di una pienezza annunciata e attesa. Ed eccoci, ignari del sole ormai finalmente dietro il tetto, ignari dei graffi e delle botte sulle gambe nude guadagnate in giornata, ignari del gran conforto in tutti gli adulti dei due condomini, eccoci ad ascoltare con attenzione, a domandare con titubanza il perché e il percome, a patire apprensione, a detestare il male e a gioire per il bene, a stupirci per l’inatteso, eccoci a intuire la promessa di una bontà della vita, eccoci ad assaporare la dolcezza del lieto fine. Questo è quanto succedeva all’ora della signora Ida.
Ma questo, per dirla tutta, succedeva in tanti altri “luoghi” (davvero degni di essere chiamati tali) di un villaggio solidale in cui tanti, a diverso titolo certamente, ma davvero tanti, si occupavano in semplicità e serietà della cura dei cuccioli. E queste figure di grandiosa normalità come Ida, tramandavano efficacemente in spontanea sintonia con le famiglie, senso e certezze, significati e criteri senza la tossicodipendenza dall’illusoria contronatura delle attuali fantasmagorie informatiche, delle ridicole pareti immersive interattive, del vacuo 4 punto nulla e di qualsiasi altra inconsistente fesseria che tanto affascina la presuntuosa rozzezza pedagogica della scuola di oggi. Come la disarmante sprovvedutezza dell’odierna famiglia.
Io non ho lasciato il mio caseggiato, vi abito ancora e ogni giorno attraverso il nostro vecchio cortile con i suoi fantasmi. L’altro giorno, rientrando da scuola nel tardo pomeriggio, mi sono sorpreso a lanciare di nuovo un’occhiata alla meridiana della nostra infanzia: per come era messa l’ombra, la signora Ida sarebbe potuta proprio uscire con la sua “cadrega” da un momento all’altro. Così, ad imitare ciò che lei ha fatto per una vita, m’è venuto di “dipingere” la sua ora con tutto ciò che nei nostri cortili la preparava, con quei meravigliosi e vivaci colori di allora, per me ancora lucenti. Più che mai.
Nella foto: la linea dell’ombra sta per scavalcare il tetto: “Guardate, manca poco!”
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti
Antonio La Russa
18 giugno 2023 06:06
Molto bello. Uno spaccato di vita reale negli anni 60 che fa molto riflettere , sopratutto sulla sensibilità e sul senso di condivisione prima della “rivoluzione informatica “”e dell’ avvento dei social………
Vittorio Fodeararo
18 giugno 2023 14:25
Nostalgia dell'ottavo giorno senza tempo. Grazie Maurizio
Guido R
19 giugno 2023 21:21
La forza delle parole e delle relazioni... grazie
Gianna boldrini
21 giugno 2023 12:28
Bellissimo racconto che potremmo fare anche noi del dopoguerra,ma la linea d'ombra che si abbassa al fatidico punto, dove la signora Ida sarebbe uscita, non ha prezzo, è pura poesia