31 maggio 2021

Maria, la cameriera dell'Aquila Nera (1)

Maria Mattarozzi era una bella ragazza ventiduenne di Cortetano, non molto alta ma formosa, dai lineamenti marcati ed il linguaggio un po' rude, che ne denunciava l'origine contadina. Da tre mesi, dopo la morte del padre, faceva la cameriera all'osteria dell'Aquila Nera che allora, cent'anni fa, era situata sul viale del Passeggio al numero 2, quasi di fronte all'ingresso del convento dei padri Barnabiti. L'osteria era piuttosto modesta: una grande sala con alcuni tavoli e parecchie sedie, una piccola credenza, il banco con una scansia carica di misure e, sulla parete di fondo, un caminetto, a fianco del quale si trovava una porta vetrata che immetteva in una piccola cucina male arredata. In fondo alla cucina un'altra porta conduceva in un cortiletto, al quale si poteva accedere direttamente dall'osteria attraverso un piccolo uscio; dal cortiletto una scala portava alle camere poste al piano di sopra, per consentire agli ospiti di entrare ed uscire anche durante gli orari di chiusura, attraverso un portone che dava direttamente sul viale. 

Era il mese di marzo del 1919 ed era ancora Carnevale, visto che la Pasqua quell'anno cadeva molto alta. Il Carnevale era un avvenimento importante, e quello era il primo in tempo di pace, dopo la fine della guerra qualche mese prima. La gente, nonostante le maschere fossero state ormai soppresse da tre anni, aveva voglia di tornare a divertirsi. Soprattutto lo desiderava con forza Maria, a cui pure in città le occasioni non mancavano, anche se, col suo rude carattere, era sempre riuscita fino ad allora a tenere lontano le attenzioni dei numerosi avventori un po' troppo intraprendenti. Al suo paese, quella sera, era stato organizzato un veglione, che per Maria rappresentava, oltre l'occasione per divertirsi un po', dimenticando per qualche ora il grigiore di quella incipiente primavera di dopoguerra, anche quella di incontrare i familiari e i vecchi amici. Per questo aveva chiesto alla proprietaria della locanda, la signora Irene Bonini Favalli, due giorni di permesso, che le erano stati accordati ad alcune condizioni: che prima della partenza avesse accudito a tutte le faccende che comportava la locanda, dalla pulizia delle camere al riordino delle stoviglie, alla preparazione della verdura che avrebbe dovuto essere cucinata per il pranzo di mezzogiorno. La locanda dell'Aquila Nera, infatti, era uno degli esercizi migliori della città: pulita, e frequentata da una clientela di un certo livello. Certo, non mancava mai qualche cliente che, quando Maria lo serviva al tavolo, cercava di allungare le mani, beccandosi le sue risposte che non lasciavano spazio ad alcuna speranza.

Dunque erano le 7,30 di quella mattina del 3 marzo, quando la signora Irene, ancora assopita, venne improvvisamente destata da uno strano rumore proveniente dall'osteria sottostante, che ricordava lo strepito di una lotta, inframmezzato da urla soffocate e lamenti, a cui aveva fatto seguito un altrettanto improvviso silenzio. Allarmata e impaurita la proprietaria si era alzata ma, anziché scendere precipitosamente le scale per rendersi conto personalmente di quanto era accaduto, si era attardata nel lavarsi e vestirsi di tutto punto, lasciando trascorrere, come poi riferì in seguito nel corso dell'interrogatorio, almeno un quarto d'ora. Quando finalmente si decise a scendere ed entrare nel locale si presentò ai suoi occhi una scena agghiacciante: la povera Maria Mattarozzi giaceva riversa nel camino, dove aveva già approntato la legna per accendere il fuoco e far bollire un paiolo d'acqua. In mezzo al locale stava in piedi un uomo di mezza età con la barba incolta, gli abiti dimessi ed uno sguardo allucinato e feroce, che nella mano sinistra stringeva un bottiglione di vino quasi pieno e con la destra brandiva un coltello da cucina che grondava sangue. Secondo la testimonianza della Favalli, impietrita dal terrore, lo sconosciuto avrebbe fatto un passo verso di lei e, levando minacciosamente il coltello, l'avrebbe minacciata dicendo: “Taci, se ti è cara la vita!”. E di fronte al suo silenzio terrorizzato, il misterioso assassino avrebbe fatto un altro passo verso di lei, levando il coltello ancora più in alto e ripetendo: “Una parola sola e sei morta!”. Poi, sempre fissandola negli occhi, con il coltello ed il bottiglione in mano, avrebbe iniziato a retrocedere verso l'ingresso, per poi varcare l'uscio e uscire sulla strada, scomparendo nel nulla.

Ci volle oltre un minuto perchè la Favalli rìuscisse a riprendersi e precipitarsi a sua volta in strada urlando e chiedendo soccorso, ma ormai l'assassino aveva avuto tutto il tempo per dileguarsi. Alle sue richiese di aiuto giunse gente da tutto il quartiere di Porta Milano. Dopo qualche minuto arrivarono dalla stazione ferroviaria il titolare dell'ufficio di polizia ferroviaria Mario Perticara e l'agente Nolli che solo per caso si trovava lì nei pressi, venne chiamata in soccorso una vettura dove gli agenti caricarono la povera Maria svenuta, che aveva già perso molto sangue, per trasportarla all'ospedale. I sanitari, però, non poterono fare altro che riscontrare la presenza di venticinque coltellate che le erano state inferte, tuttavia cercarono di soccorrerla, ma senza alcuna speranza che si potesse salvare. E la poveretta, infatti, morì alle 15,30 dello stesso giorno. Subito il ricordo dei cremonesi andò ad un altro truce delitto avvenuto tre anni prima, quando in via Polluce era stata assassinata una prostituta chiamata la “Tortorella”. 

Secondo la ricostruzione effettuata dal delegato di Ps Orengo il misterioso assassino sarebbe entrato dal cortiletto, recandosi in cucina, dove si sarebbe intrattenuto a conversare con la ragazza, come dimostravano le due sedie poste una di fronte all'altra davanti al caminetto. Maria, dunque, avrebbe conosciuto il suo aggressore, descritto dalla Favalli come un uomo non molto alto, tarchiato, sulla cinquantina e vestito malamente.

Per il nuovo commissario Wenzel, giunto in città da pochi giorni in sostituzione del commissario Rebecchi trasferito altrove, non poteva presentarsi un'occasione migliore per dimostrare a tutti le proprie capacità investigative. Detto fatto si buttò a capofitto nelle indagini, estromettendo il funzionario delegato Orengo, che le aveva già iniziate mezz'ora dopo il fattaccio, e destando le antipatie degli altri poliziotti. In Questura Peralta e Santoro dicevano che anziché dipanare la matassa il commissario finiva per ingarbugliarla ulteriormente, mentre gli altri funzionari incaricati Marziano, Di Crescenzio e Facchini sostenevano che loro da soli sarebbero riusciti in breve tempo a scovare l'assassino. Ma non vi fu nulla da fare: Wenzel, sempre più incaponito, non lasciava che nessun altro dei suoi dipendenti si occupasse dell'indagine, volendo fare tutto da solo. E la faccenda si complicò ulteriormente quando si presentò inaspettatamente un testimone raccontando una versione dei fatti stupefacente. 

Wenzel era convinto che lo sconosciuto cinquantenne che aveva minacciato con il coltello la Favalli, non fosse in realtà l'assassino della povera Maria, ma un semplice avventore che, entrato nell'osteria senza vedere nessuno, si fosse servito da solo prendendo da un tavolo un bottiglione di vino quasi pieno. Presa la bottiglia si sarebbe avviato verso l'uscita sperando di farla franca, quando avrebbe incontrato la Favalli che, scambiandolo per un ladro, si sarebbe messa a gridare. Lo sconosciuto, spaventato, avrebbe quindi raccolto un coltello da un tavolo e con questo minacciato la Favalli che sarebbe fuggita spaventata. Non avrebbe potuto vedere il corpo di Maria riverso nel camino, in quanto nascosto da un angolo del muro e perchè, a quell'ora, il locale era ancora avvolto nell'oscurità.

In città, frattanto, non si parlava d'altro mentre il commissario Wenzel, prestando fede al racconto della signora Favalli, cercava ostinatamente tracce di quell'uomo con il coltello che aveva ucciso la povera Maria sulla base dei connotati abbastanza precisi forniti dall'unica testimone. Cercava appunto di mettere insieme le tessere di quel puzzle quando venne a sapere che i periti, in realtà, avevano escluso che la giovane cameriera fosse stata uccisa a coltellate. Infatti già la guardia della polizia ferroviaria Perticara, il primo a giungere sul posto richiamato dalle grida della proprietaria, aveva spiegato che l'assassino aveva infierito sulla vittima con un ferro da stiro che, al momento del suo arrivo, giaceva ancora sul camino lordo di sangue. Ma Wenzel, forte della deposizione della Favalli, non prestò ascolto a nessuno, convinto che il ferro da stiro fosse stato semplicemente macchiato dal sangue schizzato sul camino, a causa delle ferite inferte col coltello dall'assassino. Il commissario non lo sapeva, ma nel frattempo vi era chi stava conducendo per proprio conto un'indagine parallela nel più assoluto riserbo. Era un nuovo agente di Pubblica Sicurezza giunto a Cremona in quei giorni, che non aveva ancora preso ufficialmente servizio e, dunque, del tutto sconosciuto. Infatti era consuetudine che una nuova guardia, appena arrivata in città, indossasse per farsi riconoscere la caratteristica divisa turchina con una doppia fila di bottoni d'argento ed un chepì con una nappina azzurra e che, così vestito, girasse per le vie ed i ritrovi della città, in modo tale che chiunque, riconoscendolo, potesse rivolgerglisi chiedendo aiuto. Ma, non avendo ancora iniziato le sue perlustrazioni in città, il giovane appena arrivato poteva passeggiare liberamente come chiunque altro, cosicchè, quando un paio di giorni dopo il delitto dell'Aquila Nera, gironzolando tra i bar ed i caffè per rendersi conto della topografia della zona, si sedette ad un tavolo di un'osteria fingendo di leggere un giornale, nessuno gli fece attenzione. Fu allora che, prestando ascolto a quanto due avventori stavano dicendo parlottando tra di loro, colse i particolari del racconto che uno dei due faceva all'altro sotto il vincolo del segreto. “Ma dunque – diceva uno – hai proprio visto? Raccontami qualcosa, dimmi quello che è stato...”Figurati – diceva l'altro – che ho visto uccidere la cameriera dell'Aquila Nera. Stamattina giravo per porta Milano, quando mi è venuta voglia di bere un bicchiere di vino bianco. L'osteria più vicina era 'L'aquila nera', era aperta e sono entrato. Ero entrato nell'osteria per bere un bicchiere di vino: c'era Maria, la domestica, seduta vicino al camino per accendere il fuoco, ed accanto a lei un uomo, un militare, che discuteva animatamente. Maria, le ho detto, dammi un quarto di vino bianco. Avevo appena finito la frase, quando il soldato ha estratto un coltello e vibrato un colpo alla testa della donna, poi l'ha afferrata per i capelli con la sinistra e con la destra continuava a colpirla mentre la cameriera gridava e cercava di difendersi, protendendo le mani. Per lo spavento sono rimasto senza parola, poi, dato che avevo avuto la fortuna di non essere visto dall'assassino, adagio adagio, senza far rumore, tornai sui miei passi e una volta raggiunto il Passeggio, mi allontanai più che in fretta”.

A questo punto l'agente si fece riconoscere e portò il testimone in Questura al cospetto del commissario Wenzel al quale ripetè, punto per punto, il suo racconto. Ma quando gli venne chiesto perchè non fosse intervenuto in difesa della donna, l'uomo rispose che aveva avuto troppa paura per farlo. Ed ancora quando gli chiesero come mai, una volta in strada, non avesse richiesto aiuto ai passanti per salvare la donna ed acciuffare l'assassino, il testimone non seppe cosa rispondere. Si limitò a dire che, una volta uscito in strada, si era fermato nei pressi ed aveva visto uscire il soldato, apparentemente tranquillo, come se non fosse accaduto nulla. Con ogni probabilità Wenzel non tenne in alcun conto la testimonianza, ritenendola frutto della fantasia di un mitomane, ed in contraddizione con quanto ormai accertato sull'arma del delitto, per cui rilasciò l'uomo.

I dubbi rimasero. C'è chi ritenne la presenza del testimone frutto della fantasia dello stesso commissario Wenzel per rendere ancor più intricata la faccenda, acquisendo di conseguenza ancor più prestigio personale per la difficoltà dell'indagine. Non venne neppure mai chiarita la fedeltà della testimonianza della proprietaria del locale sull'uomo armato di coltello. Si pensò addirittura che non fosse altro che un cliente occasionale il quale, vista la cameriera riversa sul camino in una pozza di sangue, si fosse spaventato al timore di far la fine del “fornaretto di Venezia” ed avesse intimidito la Favalli per fuggire senza dover dare troppe spiegazioni. Ma perchè fuggire con un bottiglione di vino in mano? Perchè pensare a rubare del vino in un simile frangente? E poi, il coltello. Che ci faceva lo sconosciuto con un coltello in mano grondante sangue se ad uccidere la povera cameriera era stato un ferro da stiro? Domande rimaste senza risposta, come l'identità dell'assassino. Una ventina di giorni dopo, infatti, il commissario Wenzel fu incaricato di un altro caso ed abbandonò l'inchiesta.

Cinque anni dopo, nel 1924, il dirigente della polizia giudiziaria Petruccelli volle riprendere in mano il caso, perchè gli era sorto un sospetto che voleva verificare. Ma anche in quell'occasione la sua attenzione venne distratta da un altro fatto di sangue e la pratica dell'Aquila Nera venne riconsegnata all'archivio dove, probabilmente, giace ancora oggi.

 

Fabrizio Loffi


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commenti


ada ferrari

2 giugno 2021 10:35

Più avvincente di Montalbano!