28 luglio 2021

Due sacrestani e un calice avvelenato (10)

Quando, la mattina del 27 luglio 1948, si presentarono per essere giudicati in Tribunale i cinque arrestati durante i tafferugli scoppiati in piazza Roma il 14 luglio, nel corso della manifestazione indetta dal Pci per protestare contro l'attentato a Palmiro Togliatti, il numeroso pubblico accorso in aula notò che tra gli imputati c'era un viso noto. Un uomo che, qualche anno prima, aveva riempito le cronache al punto da richiamare a Cremona reporter di tutte le testate, conquistandosi titoli a prima pagina sui principali giornali del mondo. Le sue fotografie, con quelle dell'altare di Sant'Agostino, apparse sui quotidiani ed i rotocalchi pubblicati dall'America all'Australia, lo avevano consegnato alla celebrità come un divo del cinema, nonostante all'epoca dei fatti fosse stato solo un umile ed oscuro sacrestano. Quando quella mattina  Giuseppe Torresani, netturbino alla Snum, entrò in aula per essere giudicato con l'accusa di aver provocato lesioni ad un agente nel corso dei tafferugli, in quanto già pregiudicato venne condannato ad undici mesi di reclusione. In realtà Torresani era uscito solo pochi giorni prima dal carcere, dove aveva dovuto scontare una condanna a quattordici anni, in parte condonati, per uno degli episodi più clamorosi degli ultimi anni.

Torniamo dunque indietro a tredici anni prima. E' il 2 agosto 1935. Monsignor Erminio Stuani, canonico onorario della Cattedrale e parroco emerito di Sant'Agostino, come ogni mattina celebra la messa nella sua chiesa. Sono quasi le 7,30 quando, al momento della Consacrazione, il sacerdote solleva il calice pronunciando la formula solenne di rito "Prendete e bevetene tutti questo è il mio sangue offerto in sacrificio per voi". Passa qualche istante, i fedeli chinano il capo, predisponendosi alla Comunione, ed il celebrante accosta il calice alla bocca bevendone il contenuto tutto d'un fiato. Senza dire una parola, monsignor Stuani sbianca in volto e si accascia, sentendosi contrarre le viscere in preda a spasmi lancinanti, ed un rivolo di sangue gli esce dalla bocca. I pochi fedeli si alzano precipitosamente e corrono verso l'altare, dove il sacrestano Giovanni Baiocchi è accanto al prete, che a terra si contorce dal dolore. Insieme lo sollevano e lo trasportano di peso in casa, viene subito chiamato il medico curante dottor Reggiani, che presta i primi soccorsi. La Questura, allertata, manda sul posto un funzionario ed alcuni agenti che sequestrano la bottiglia, contenente il vino per la messa, versato nella piccola ampolla utilizzata durante la celebrazione, sturata il giorno prima e conservata in uno stipo chiuso a chiave in sacrestia. Viene analizzato il contenuto e si accerta la presenza di una notevole quantità di acido, forse muriatico. In serata il sacerdote, le cui condizioni appaiono gravi, viene visitato dal vescovo Giovanni Cazzani. Riporta ustioni alla bocca e al palato anche il vicario, don Vittorio Cominetti, che ha voluto appena assaggiare il vino contenuto nella bottiglia, per verificarvi la presenza del veleno, prima che fosse sequestrata. Le successive analisi rivelano che il vino contiene acido solforico, che ha provocato profonde ulcere alla bocca, all'esofago ed allo stomaco del sacerdote, e causato violente emorragie. Le sue condizioni permangono gravi, mentre la Questura, oltre ai due sacrestani già fermati a scopo precauzionale, opera un altro fermo. 

Nel frattempo si tenta di ricostruire come sia avvenuto l'avvelenamento del vino. Uno dei due sacrestani della chiesa di Sant'Agostino era arrivato, come ogni mattina, verso le 5,30 e per prima cosa aveva estratto dallo stipo, dov'è conservata, la bottiglia del vino, che in parte aveva versato in due distinte ampolle che dovevano servire a due diverse messe da celebrarsi, come di consueto, più tardi. Lasciata dunque sul tavolo della sacrestia sia la bottiglia che le due ampolle, aveva aperto le porte ed iniziato a pulire la chiesa. Pochi istanti dopo era giunto il sacrestano della chiesa di S. Omobono, sussidiaria di Sant'Agostino, per prelevare dalla bottiglia il vino necessario alla celebrazione della messa in quella chiesa, travasandolo in un'altra ampolla che aveva appositamente portata con sé. Peraltro, al sacerdote che aveva in seguito celebrato la messa a sant'Omobono, al momento dell'Eucarestia non era accaduto nulla, segno evidente che il vino, al momento del prelevamento, non era stato ancora adulterato. La somministrazione dell'acido solforico, sia quello contenuto nella bottiglia, che quello nell'ampolla utilizzata da monsignor Stuani, sarebbe dunque avvenuta nell'arco temporale tra le 5,45 e le 6, ora in cui la bottiglia venne ritirata dal sacrestano di Sant'Agostino per essere riposta nuovamente nello stipo, e le due ampolle predisposte per le successive celebrazioni.

Mentre il parroco ricoverato nella propria abitazione riceve la visita di Farinacci, la polizia giudiziaria non sa che pesci pigliare, e percorre tutte le strade possibili per individuare l'attentatore, ben sapendo che, senza una pur sottile traccia, sia quasi impossibile individuare la mano avvelenatrice. Tuttavia esiste un precedente.

Nel 1909 in un'occasione analoga c'era mancato poco che venisse avvelenato un altro sacerdote nel santuario di Ripalta Arpina. Era il momento della Consacrazione ed il celebrante, mentre alzava il calice, si accorse che dal vino emanavano forti esalazioni di acido solforico. Aveva immediatamente sospeso la celebrazione e corso ad avvertire i carabinieri che avevano creduto di ravvisare il colpevole del gesto nell'arciprete. Si era infatti scoperto che tra quest'ultimo e l'altro sacerdote i rapporti si erano fatti particolarmente tesi per ragioni politiche, in quanto il prelato parteggiava per il deputato Guido Miglioli e l'altro per l'onorevole Pavia. Il sacerdote incriminato era stato a lungo trattenuto in carcere prima di essere rilasciato ma, dopo pochi giorni, era stato trovato morto all'interno di un confessionale.

Ad una settimana dall'attentato a monsignor Stuani, la polizia procede ad arrestare con la denuncia di lesioni colpose i due sacrestani: si tratta di Alfredo Spotti, di 51 anni, abitante in via Ruggero Manna, sacrestano di Sant'Agostino, e di Giuseppe Torresani, di 32 anni, abitante in via Oscasali, sacrestano di Sant'Omobono. In particolare a Torresani, che fin dal primo momento ha sempre negato di aver posseduto acido solforico, viene contestato il fatto che alcuni giorni prima dell'avvelenamento, aveva consegnato ad un suo conoscente una bottiglietta contenente proprio quel tipo di acido. Torresani. in effetti, ammette di aver posseduto da circa due anni una bottiglia da vino contenente acido solforico, ma da un paio di giorni quella bottiglia era scomparsa dal cortiletto vicino alla chiesa dove la conservava. La Questura giunge alla conclusione che la mattina del fatto Torresani aveva portato dalla chiesa di Sant'Omobono a quella di Sant'Agostino, cosa che faceva due volte alla settimana, una bottiglia che avrebbe poi dovuto riempire di vino. Ma, ancora assonnato, a causa dell'oscurità aveva confuso una bottiglia con l'altra e, anziché quella contenente il vino, aveva portato nella sacrestia di Sant'Agostino quella contenente l'acido solforico, e con questa aveva riempito l'ampolla vuota, che avrebbe dovuto essere utilizzata poi nella messa a Sant'Omobono. Ma qualche minuto più tardi, il sacrestano di Sant'Agostino, che a sua volta aveva posto sul tavolo della sacrestia una bottiglia contenente il vino, aveva trovato anche quella lasciata dal suo collega, con nel fondo, per un'altezza di circa cinque centimetri, del liquido che aveva scambiato per vino ed aveva deciso di rabboccare con l'altro preparando le due ampolle per la messa a sant'Agostino, senza supporre neppure lontanamente l'equivoco.

Il caso sembra risolto ed i due vengono rilasciati in libertà provvisoria ma, in preda al rimorso, Torresani confessa al proprio legale di essere lui, in realtà, l'autore dell'avvelenamento. Ed offre un'altra versione dei fatti. In qualità di sacrestano di Sant'Omobono guadagnava molto poco ed avrebbe voluto diventare scaccino della chiesa principale, ma come fare ad eliminare quell'altro che vi prestava servizio da oltre trent'anni, lodato e benvoluto da tutti? Ed ecco il suo diabolico piano: prendere la bottiglia con l'acido solforico e portarla a Sant'Agostino, dove l'avrebbe mescolata con il vino contenuto nell'altra bottiglia. Ma, secondo i suoi calcoli, come era avvento 26 anni prima, il sacerdote al momento dell'elevazione del calice si sarebbe dovuto accorgere dell'odore che emanava il vino, ed avrebbe di conseguenza licenziato il sacrestano, ritenuto colpevole per la sua negligenza, consentendogli in tal modo di essere assunto al suo posto. Torresani ripete la sua versione al magistrato e viene immediatamente arrestato con l'imputazione di tentato veneficio, con l'aggravante della premeditazione, della prestazione d'opera e della futilità del motivo. In realtà il sacrestano non era al corrente esattamente degli effetti che avrebbe comportato l'acido solforico se ingerito, e pensava si trattasse semplicemente di una sostanza dal cattivo odore, immediatamente avvertibile. Stranezze e malattie mentali, osservano gli inquirenti, non sono d'altronde mai mancate nella sua famiglia.

Nel frattempo le condizioni di salute di don Erminio Stuani migliorano e, dalla sua abitazione, può essere trasportato alla Casa di Cura San Camillo, dove il professor Grignani, primario di chirurgia nel reparto maschile dell'Ospedale maggiore, lo sottopone ad un delicato intervento chirurgico. Il 30 settembre, a quasi due mesi di distanza dall'avvelenamento, monsignor Stuani può celebrare di nuovo messa nella cappella della casa di cura, davanti ad alcuni degenti ed ai parrocchiani di Sant'Agostino. Poi parte alla volta di Colle Ameno, nei pressi di Ancona, per trascorrere la convalescenza nella villa delle Suore Canossiane, da dove farà ritorno solo agli inizi dicembre del 1935.

Il processo in Corte d'Assise nei confronti di Giuseppe Torresani, difeso dall'avvocato Chiappari, si tiene il 7 luglio 1936. Torresani viene condannato a 14 anni di reclusione e 3 anni di libertà vigilata, in considerazione della sua seminfermità mentale. Tornerà in aula dodici anni dopo per tutt'altro tipo di reato.

In conclusione, evidentemente le ampolle utilizzate durante la messa risultano un mezzo particolarmente gradito agli aspiranti avvelenatori, come è accaduto nel 2017 anche ad un altro sacerdote cremonese, don Marino Dalè, parroco di Gombito, San Latino, Formigara e Cornaleto che ha trovato dell'ammoniaca nell'ampolla destinata all'acqua con cui il celebrante si deterge le mani al termine della comunione. Qualcuno giura che si sia trattato di uno scherzo, ma non è stato certo uno scherzo quello che ha portato qualche anno fa in ospedale un altro prete, don Aristide Raimondi, parroco di un paese in provincia di Catania, per aver bevuto varechina dal calice. Ed un altro sacrestano, sempre di un paese vicino a Catania, nel 2000, aveva versato un pesticida nel calice del parroco della chiesa di santa Caterina di Pedana, per vendicarsi del fatto che il prete non gli aveva pagato una mensilità di stipendio.

 

Fabrizio Loffi


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