Il segreto dello studente modello (5)
Sono le 11 di sera del 29 gennaio 1939. Virgilio De Mercurio è un giovane studente ventiquattrenne, il classico bravo ragazzo, biondo, gentile, di carattere affabile. Dal cinema sta rientrando a casa della zia, Giuseppina Pelizzato, vedova del commerciante Girelli, che lo ospita in viale Regina Margherita, che poi diventerà via Fratelli Bandiera n.5, e poi ancora viale Po. Pina ha cinquantadue anni e conserva ancora molto di quella bellezza che ne ha fatta una delle donne più attraenti di Cremona. Virgilio apre la porta, di cui possiede la chiave, ma lo attende una sorpresa agghiacciante: l'appartamento è totalmente a soqquadro; carte, lettere, oggetti sono sparsi ovunque. Sulla tavola ancora apparecchiata i resti della cena. Solo la sua camera è stata risparmiata, ma è qui che giace a terra, con la gola tagliata, la zia Giuseppina. Virgilio si affaccia ad una finestra al pianerottolo ed urla a squarciagola in preda al terrore. Le sue grida squarciano la notte umida, accorre gente, viene chiamata la polizia. Sul posto giungono il capitano dei Carabinieri, il Capo di Gabinetto della Questura ed il maresciallo dei Carabinieri di Porta Po. Virgilio viene portato in caserma per essere interrogato. Ovviamente tutti i sospetti convergono su di lui: solo il ragazzo, infatti, poteva entrare in quella casa facendosi aprire dalla zia suonando il campanello con segnali convenzionali. L'assassino, inoltre, per colpire la donna una prima volta si era servito di un pezzo di rotaia che Virgilio utilizzava come fermacarte, e di cui conosceva l'esistenza e la posizione esatta in cui si trovava. Gli inquirenti gli contestano immediatamente tutte queste circostanze, aggiungendo il fatto di aver rinvenuto una frase irriverente nei confronti della vittima, scritta su un lembo della tovaglia. Il ragazzo cede di schianto e, alla presenza del Procuratore del Re Treglia e del questore Barbagallo e di altri funzionari, confessa il delitto. Dice di aver ucciso la zia al culmine di un litigio nato proprio da quella frase scritta sulla tovaglia, che faceva riferimento all'intenzione del ragazzo di sposare una certa Lavinia Girardi di Venezia, che la zia avversava, desiderando che il matrimonio si celebrasse solo dopo la conclusione degli studi e, di conseguenza, rinfacciandogli gli sforzi sopportati nell'averlo mantenuto ed educato fin da quando i genitori l'avevano abbandonato. Pina avrebbe poi pronunciato altre frasi che l'avrebbero ferito al punto da spingerlo, accecato dall'ira, a brandire il ferro di rotaia colpendola per poi finirla, quando era già morente, tagliandole la gola. Virgilio viene trasferito in carcere, senza aver fornito ulteriori particolari sul delitto. Il giorno dopo, però, fornisce una diversa versione, sostenendo di avere subito pressioni e di aver confessato l'omicidio solo perchè estenuato dalle accuse mosse da tutti nei suoi confronti.
Questa tesi viene sostenuta da De Mercurio anche nel corso della prima udienza del processo, celebrato in Corte d'Assise, presieduta dal grand ufficiale Zampelli, oltre un anno dopo, la mattina di lunedì 4 marzo 1940. Difeso dagli avvocati Brass di Venezia e Mario Stradivari di Cremona, Virgilio respinge ogni accusa: per lui la zia Pina era come una madre e non avrebbe avuto alcun motivo per progettarne l'uccisione. Ricostruisce poi gli avvenimenti di quella sera: era uscito di casa verso le venti per dare una lezione di inglese, poi si era recato al cinema presso il circolo Silvio Pellico di via Sicardo, diretto da don Luigi Brioni, vicario della Cattedrale, a cui lo legava una profonda amicizia. Ritornato a casa aveva trovato la porta aperta e, varcata la soglia dell'appartamento illuminato, aveva trovato la zia uccisa. Alla richiesta di precisazioni da parte del Presidente l'imputato risponde che quella sera aveva prolungato la lezione più del solito perchè gli piaceva, ogni tanto, studiare il carattere dei suoi allievi e le loro reazioni. Spiega poi che la relazione con Lavinia Girardi è una semplice conoscenza, puramente platonica, e quella frase sulla tovaglia, sarebbe stata scritta per puro passatempo, senza alcuna intenzione di provocare una reazione. Nel pomeriggio vengono sentiti altri testimoni. C'è la nonna materna, la signora Florian, madre di Pina, che descrive Virgilio come un ragazzo amorevole, incapace di compiere un crimine così efferato. “E' innocente” esclama sul punto di uscire dall'aula, destando la commozione dei presenti mentre saluta il nipote con un gesto affettuoso.
Il questore Barbagallo conferma invece la confessione del giovane, ripetuta anche davanti al Procuratore del Re Treglia ed aggiunge che Virgilio fu interrogato per poche ore e fumò anche tranquillamente una sigaretta. Non solo, De Mercurio pregò anche di continuare le indagini. Il commissario Maselli e il Capo di gabinetto del Questore Pastore, confermano quanto detto in precedenza aggiungendo solo che il disordine in cui si trovava l'appartamento sembrava inscenato ad arte. Interviene anche il medico curante dottor Gatti di Venezia che, interrogato sulle condizioni psichiche del ragazzo, spiega che è psichicamente disarmonico, la sua madre è isterica e stravagante ed i nonni pazzi.
Sembrerebbe un processo semplice, dall'esito scontato, ed invece le cose si complicano. Intelligente e studioso, assente ed apatico, incline alle osservazioni psicologiche, ma infantile nelle aspirazioni nel divertimento: il ritratto di Virgilio fornito dai numerosi testimoni è decisamente sconcertante. Una coinquilina lo dipinge come un ragazzo tranquillo e studioso, e, aggiungendo che la zia era una donna sola e paurosa, fa insorgere il dubbio nella corte che la vittima non avrebbe mai accolto in casa nessuno tranne il nipote- Il suo compagno di studi Carlo Furlan aggiunge che non solo Virgilio è un buon amico e compagno, ma addirittura, prima di partire per Milano, la mattina alle cinque andava a far visita al fratello ammalato. Tuttavia ha sempre le mani scosse da tremiti nervosi. Contribuisce alla definizione di una personalità contorta ed infantile anche il fatto che quando la gatta della vicina, Lina Fara, mette al mondo i suoi cuccioli, Virgilio chieda il permesso di baciarli uno ad uno. Ma di contrasti con la zia nemmeno l'ombra. Particolari insignificanti acquistano ora un risvolto sinistro: il fatto di rispondere a monosillabi, di incontrare a Milano la figlia del cavalier Pedroni e poi, tornato a Cremona, chiedere di nuovo notizie di questa al padre. “Un giorno – racconta Pedroni - entrò chiedendo l'ora e quando gli fu detta, osservò che l'orologio dei vigili era indietro di qualche minuto”. Una stranezza, certo, ma anche in questo caso nessuno screzio tra zia e nipote. Un'altra mania di De Mercurio sarebbe quella di raccogliere fiammiferi usati, riferisce appunto l'insegnante Adele Pedroni, nata da quando lei, scherzando, gli aveva raccontato che vendeva la cenere delle sigarette. Anche l'altra zia, Giulia Pelizzato, sottolinea la storia dei fiammiferi spenti, raccontando che un giorno Virgilio gliene aveva portati tre in regalo e, avendo notato che la zia, dopo aver usato i fiammiferi, li gettava in una scatola, lui aveva aggiunto i suoi alla raccolta. De Mercurio legge anche giornalini per bambini, ma non ha alcuna paura del sangue, forse a causa dei suoi studi.
Si torna alla sera del delitto: Ferrarini, lo studente a cui dava lezioni, e i suoi genitori dichiarano che il giovane si era presentato a casa loro per la lezione di inglese tra le 20 e le 20 e cinque minuti, aveva bevuto il caffè ed era calmissimo. Un altro testimone, incontrato quella sera, racconta che Virgilio gli aveva detto che la zia non stava bene e non era uscita. Anche don Luigi Brioni ricorda lo stesso particolare ed aggiunge che Virgilio è un giovane intelligente, anche se un piccolo scherzo lo fa infuriare, lui che di solito è così quieto e tranquillo. Il sergente maggiore Luigi Santi, il primo che quella sera lo aveva avvicinato dopo essere stato richiamato dalle sue invocazioni d'aiuto, ricorda che Virgilio disse solo. “Venga a vedere cosa hanno fatto di mia zia”; senza mostrare alcun turbamento. Uno dei carabinieri della caserma di porta Po racconta che la prima preoccupazione del ragazzo interrogato, era stata sapere a quale età si diventa maggiorenni. Vi è anche però chi, come il segretario dei Gruppi Universitari Fascisti Mondini, descrive De Mercurio come un ragazzo attivo e volonteroso che gli ha fatto un'ottima impressione durante un confronto culturale. Passano e ripassano i testimoni. C'è chi sostiene che la vittima abbia detto un giorno “Il mio Virgilio è un santo” e chi sfodera il colpo di scena, come uno zio che, dopo aver parlato delle solite stramberie del nipote, presenta al presidente della corte un piccola chiave trovata, circa tre mesi dopo il delitto, sotto la fodera del divano nella stanza dove fu uccisa Giuseppina, a cui è legato con una cordicella un pezzetto di carta strappato ad un telegramma, sui cui la defunta aveva scritto di suo pugno “chiave dell'orto del signor Suraci”. Al momento del ritrovamento nella stanza erano presenti solo il testimone e la madre di Virgilio. Ma Suraci, che già aveva testimoniato in precedenza, chiamato una seconda volta da Milano dove risiede, chiarisce che un tempo aveva comperato un pezzo di terra da Giuseppina e, quando nel giugno 1936, aveva lasciato Cremona, aveva consegnato le chiavi dell'orto alla Pelizzato perchè, se lo avesse desiderato, raccogliesse la verdura.
Il capitolo che si apre dopo è decisamente più interessante. L'avvocato Stradivari propone che sia ascoltata una certa Teresa Gamba, la quale racconta che una sera tra ottobre e novembre 1938 nei pressi del Macello Pubblico di porta Po era rimasta sorpresa da un colloquio piuttosto animato tra una signora, riconosciuta poi come la Pelizzato, e uno sconosciuto dall'accento forse meridionale e, passandovi accanto, aveva sentito pronunciare con violenza la frase “ti voglio uccidere”. Aveva subito avvertito il vigile Lodi che, chiamato a deporre, conferma la circostanza.
Nel corso della terza udienza si cerca invano di chiarire l'ora esatta del decesso di Giuseppina. Stando al dottor Mondini il sangue della vittima, al momento del ritrovamento, non era ancora coagulato, e siccome l'anatomopatologo professore Cortese sostiene che la coagulazione del sangue avviene in una ventina di minuti, il delitto sarebbe di conseguenza avvenuto venti minuti prima dell'allarme lanciato dal nipote. Cortese dichiara anche che l'autopsia ha stabilito che la Pelizzoni aveva da poco iniziata la digestione, per cui tutta la questione torna in alto mare. In ogni caso è impossibile che l'assassino non si fosse sporcato di sangue. Ma il vestito di Virgilio, al momento del primo interrogatorio, era immacolato. L'imputato si sarebbe limitato ad osservare: “Io l'ho uccisa; cercate voi il motivo per cui non mi sia sporcato”, e la frase viene confermata da De Mercurio in udienza. Ma dal momento che quelle parole sarebbero state estorte solo sotto pressione, senza che i delitto sia stato commesso, la difesa contesta immediatamente quanto riportato in istruttoria.
Il giorno dopo il Pm Moy chiede che l'imputato venga ritenuto colpevole di omicidio volontario e condannato a ventidue anni di carcere, adducendo come prove che solo Virgilio e la zia potevano sapere dell'esistenza di quel pezzo di rotaia, che nel suo portafoglio era stata trovata la ricevuta della cassetta di sicurezza, che faceva testo la confessione già rilasciata ed infine che tutto il contegno dell'imputato dopo il delitto deponeva per la sua colpevolezza. La difesa gioca invece la carta della seminfermità mentale: Stradivari rileva che non si trova il movente del delitto, che è dubbia l'ora in cui è stato commesso e ricorda le minacce di morte subite dalla vedova Girelli, ed infine come tutte le stranezze e gli atteggiamenti infantili depongano per un'anormalità psichica. Anche l'altro avvocato, Alessandro Brass, nonostante abbia in mano un paio di elementi preziosi per stabilire la verità dei fatti, gioca la stessa carta della schizofrenia e megalomania infantile. Eppure le due circostante che cita nella sua arringa lasciano aperti altri dubbi: sono scomparsi due biglietti da visita con impronte digitali del probabile assassino e la porta di casa di Giuseppina, chiusa da un inquilino del palazzo, alle 20,15, è stata trovata aperta alle 21,30. Chi è entrato nell'appartamento in quel lasso di tempo? La domanda resta senza risposta, e dopo due ore di Camera di Consiglio, la Corte dispone che Virgilio De Mercurio sia sottoposto a perizia psichiatrica.
Il ragazzo viene inviato al Manicomio giudiziario di Reggio Emilia dove resta in osservazione sino a quando i medici giudicano che sia un individuo socialmente pericoloso e, al momento del fatto, abbia agito in stato di seminfermità mentale. Il 27 novembre 1940 Virgilio ricompare in aula per la seconda volta, respinge le accuse e conferma nuovamente la sua versione dei fatti: la confessione del delitto, poi ritrattata, fu estorta in un momento di “collasso morale”. Rispetto alle precedenti udienze aggiunge il particolare che la cena si svolgeva abitualmente alle 19 e quella sera, giunto a casa Ferrarini verso le 20, aveva comunicato che la lezione sarebbe durata due ore per verificare quale fosse la reazione del giovane allievo. Aggiunge che Suraci aveva chiesto alla zia 50 mila lire per costituire una società commerciale, ma non sa spiegare perchè nel suo portafogli ci fosse la ricevuta della cassetta di sicurezza della zia. In udienza compare anche Lavinia Gerardi: chiarisce solo che Virgilio le aveva dato qualche lezione, scrivendole poi lettere “di simpatia” alle quali lei non aveva mai risposto. Unica novità che emerge dalle testimonianze è il fatto che la radio della vittima fosse ancora accesa alle 19,15, stabilendo un probabile termine temporale per il delitto. Il presunto omicida viene sempre dipinto come un ragazzo mite e premuroso, affezionato alla zia, ingenuo ed infantile fino al punto di sfiorare la stupidità.
Di fatto l'esito del processo è scontato: di fronte alle richieste del procuratore generale Miglione che chiede una condanna a 24 anni di carcere. Dopo due ore di Camera di Consiglio, la Corte decide per una pena di sedici anni, riconoscendo la parziale infermità mentale, di cui due condonati, e ordina che all'espiazione faccia seguito un ricovero in casa di cura non inferiore ai tre anni. Virgilio accoglie la sentenza senza battere ciglio.
Fino all'8 settembre 1943 De Mercurio resta richiuso nel carcere di Capo d'Istria, poi, insieme a tutti i detenuti, viene deportato in Germania dai tedeschi. Virgilio conosce molto bene il tedesco ed il comandante del campo decide di trasferirlo in un ufficio affidandogli la direzione di un giornalino in italiano destinato ai deportati italiani. Terminata al guerra torna in Italia e si reca a Venezia, a casa della madre che vive in indigenza. Trova modo di aiutarla procacciandosi parecchie lezioni private tra gli studenti universitari e riesce a sbarcare decentemente il lunario, quando un giorno bussano alla sua porta i Carabinieri per portarlo in carcere. Dopo un breve transito nelle prigioni veneziane, viene trasferito alla casa di pena di Pianosa, presso Livorno. Tiene sempre una condotta esemplare cosicchè il direttore del carcere, accogliendo la sua domanda, dopo qualche mese di osservazione, decide di trasferirlo negli uffici amministrativi in qualità di “scrivanello”. E' qui che, nell'estate del 1949, lo raggiunge la richiesta per il pagamento delle spese processuali, mai saldate. 10 mila lire e 20 centesimi, che Virgilio, però, non può pagare. E si scopre, così, come ha vissuto negli ultimi dieci anni. Non ha mai provato alcun pentimento e sembra che neppure se ne renda conto. La sua coscienza è tranquilla. Rimpiange solo quella zia che gli aveva fatto da madre, per la quale, per qualche tempo, ha continuato a conservare i mozziconi delle sue sigarette fumate a metà.
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