25 agosto 2021

Tre colpi di pistola in via Fogarole (14)

Sono le 13,30 di giovedì 9 febbraio 1956. Una fredda giornata d'inverno. Da poco è caduta la prima neve e le strade sono ancora in parte impraticabili. Cremona all'ora di pranzo, come sempre, si è fermata. Via Fogarole è una stretta traversa acciottolata di via Aselli, casupole basse con gli intonaci cadenti, vecchi cortili coperti da muffa verdastra dove si affacciano malferme ringhiere nel microcosmo popolare della città vecchia, tra bordelli e gente che tira a campare, osterie malfamate e piccole botteghe, all'ombra del vecchio ospedale. In una di queste case fatiscenti, segnate dalla guerra recente, al numero 11 abita Maria Tabaglio, una giovane vedova di 42 anni, dopo che il marito era morto in Germania, dove era stato spedito a lavorare dalla Todt, durante un bombardamento negli ultimi giorni di guerra. Maria vive con la figlia quindicenne che, terminati gli studi elementari, frequenta un corso di cucito e ricamo che le suore di San Vincenzo hanno istituito nel loro monastero, vicino alla chiesa di Sant'Agata. Dall'8 luglio 1946, rimasta vedova, Maria lavora al Pastificio Combattenti, stimata dai dirigenti, che la considerano una donna tranquilla, affezionata al lavoro, gentile e servizievole. Una brava donna, insomma, dedita al lavoro, alla figlia ed alla casa. Ed è proprio la cura riservata al proprio ambiente domestico che ha trasformato quel tugurio in una dignitosa abitazione. Alla povera casa di via Fogarole si accede da una porta angusta, sopraelevata di un gradino dal piano della strada, che attraverso un corridoio stretto e buio lungo circa sei metri, immette in un cortiletto di pochi metri quadrati. Sulla parete di fronte è posto un vecchio acquatoio con una vasca in pietra e a sinistra, nascosto da una doppia anta di legno tarlato, vi è il pozzo, sormontato da un argano a cui è arrotolata una fune consunta. Nei pressi, un gabinetto. Sulla parete destra, invece, una piccola scala dai gradini malfermi conduce ai due piani superiori: al primo, percorso un piccolo pianerottolo, una porta consente di accedere al ballatoio su cui si aprono gli ingressi di due appartamenti. La prima porta che si incontra è quella di Maria Tabaglio. Vi abita da cinque anni, ma non ha mai dato molta confidenza ai vicini, vive una vita molto riservata e tutti la conoscono solo come “la signora Maria”. 

Ma con lei c'è anche un uomo: si chiama Paolo Lussignoli, ha 41 anni ed a Cremona lo conoscono un po' tutti perchè lavora all'Otsu, l'azienda che si occupa della raccolta dell'immondizia, e conduce appunto uno dei grandi autocarri che ogni giorno passano a raccogliere i bidoni casa per casa. A detta di tutti è un uomo tranquillo, è sposato con Adele Donelli, di 36 anni, è padre di tre figli ed abita con la famiglia in via San Savino, nella periferia della città. Le due famiglie sono amiche. Qualche tempo prima Maria Tabaglio era stata ammalata e la moglie di Lussignoli l'aveva assiduamente curata ed assistita fino alla completa guarigione. Da una quindicina di giorni Paolo si ferma a pranzo dalla Tabaglio, anziché tornare a san Savino. Lei prepara il cibo la sera prima ed a mezzogiorno si limita semplicemente a far bollire la pasta. Il piccolo appartamento è costituito solo da due stanzette, ma, a confronto con la fatiscenza dell'edificio, è una piccola reggia: lindo, pulito, arredato con mobili lucidissimi all'ultima moda, le pareti intonacate e ridipinte di fresco. Dal loggiato si entra nella cucina che funge anche da tinello, su un elegante mobiletto un grande ritratto del marito defunto Pietro Marazzi, poi vi è un tavolo con un vezzoso centrino di pizzo nel mezzo, un apparecchio radio, altri mobiletti ed un divano letto. Dopo la cucina, c'è la camera da letto, arredata con una certa eleganza, dove dormono madre e figlia.

Quella mattina, come ormai accade da anni, Maria alle 8 in punto varca l'ingresso del pastificio, lavora l'intera mattinata, scambia qualche parola con le colleghe, sorride a tutte, non lascia trapelare alcuna inquietudine ed alle 12,01 timbra il cartellino dell'uscita. Un quarto d'ora dopo è in casa ed inizia a preparare il pranzo, qualche minuto dopo rientra anche la figlia ed infine, alle 12,30, giunge anche Paolo Lussignoli. I tre si mettono a tavola, l'ospite da un lato e le due donne dall'altro. La conversazione si svolge nella massima tranquillità: Paolo parla del suo lavoro, ed accenna a qualche notizia letta sul giornale. I soliti discorsi di ogni giorno a tavola. Poi terminato il pranzo e sparecchiata la tavola, la figlia saluta i due ed esce di fretta per tornare al laboratorio delle Vincenzine. La scorge uscire, e scendere la piccola rampa di scale, la coinquilina che abita sullo stesso ballatoio. Poi, appena il tempo di rientrare in casa e l'atmosfera sospesa del mezzogiorno è lacerata dai colpi di pistola. Quanti? Due, o forse tre. La vicina non è in grado di dirlo. Provengono dall'appartamento della Tabaglio, dove lei si precipita. Prima bussa e poi apre la porta: Maria è stesa immobile sul divano, come se dormisse, vicino al tavolo, pallido in volto, Paolo si preme il petto con le mani insanguinate. Non fa in tempo a scorgerla, perchè compie un mezzo giro su se stesso prima di accasciarsi rovinosamente sul pavimento. La donna, in preda al panico, lancia alte grida ma nessuno l'ascolta. Allora scende in strada continuando ad urlare finchè la sente un passante, che accorre. Il giovane coinquilino che abita al piano terreno, dietro una delle due porte nel tenebroso androne, esce di corsa, corre nella casa vicina dove c'è un telefono e chiama l'Ospedale e la Questura, che a sua volta chiede l'intervento immediato di un'ambulanza, in sosta davanti all'Ospedale a non più di una cinquantina di metri di distanza. Arriva il dottor Spotti e, accertatosi che Lussignoli è ancora vivo, lo fa caricare sull'ambulanza, che riparte. Per Maria, invece, non c'è più nulla da fare: due bruciature e qualche goccia di sangue sull'abito all'altezza del cuore, il viso sereno abbandonato sul corpo e la pistola deposta sul petto. La morte deve essere stata istantanea. Dopo qualche minuto arriva l'auto della Questura con a bordo il commissario Luciani e il maresciallo Maneo, seguita dalla camionetta degli agenti della squadra mobile. Si analizza la scena del crimine: la donna giace sul divano con il braccio sinistro che pende verso terra ed il destro appoggiato sul petto. Fra le dita della mano aperta è deposta la pistola a sei colpi, ma l'indice, che normalmente si usa per premere il grilletto, è lontano. I due colpi che l'hanno uccisa sono stati sparati a bruciapelo. Si potrebbe pensare che la donna, sparando all'uomo, abbia in realtà esploso i colpi contro se stessa, ma anche la ferita riscontrata su Paolo ha le stesse caratteristiche: sulla sua uniforme color marrone da netturbino sono ben visibili le tracce della bruciatura, che potrebbe, dunque, far ritenere il contrario. Ma allora perchè la pistola è stata trovata sul corpo della Tabaglio? In via Aselli si diffonde subito la voce che ad uccidere sia stato l'uomo: la vicina, entrando in casa, avrebbe sorpreso Paolo nell'atto di deporre l'arma sul corpo della donna, prima di cadere riverso a terra, nell'estremo tentativo di simulare un'aggressione da parte di questa. Ma gli interrogatori effettuati dalla polizia dimostrano che si tratta di una voce totalmente infondata. 

Nella generale confusione qualcuno si ricorda di avvertire la figlia della defunta. Viene chiamata una suora delle Vincenzine, che giunge in via Fogarole con il classico abito azzurro ed il grande copricapo bianco ad ali, osserva la scena ed autorizza il laboratorio a lasciar uscire la ragazza, dicendole che la mamma sta male. La ragazza percorre trafelata il tratto di strada tra via Bembo e via Fogarole ma, quando imbocca il viottolo, nota subito la camionetta rossa della polizia con gli agenti in piedi davanti alla casa e la piccola folla che nel frattempo si è accalcata e, quando una conoscente si stacca dal gruppo per confortarla, lancia un urlo e cade svenuta tra le sue braccia. Giunge intanto sul posto anche il sostituto Procuratore della Repubblica Ciambi, che provvede ai primi accertamenti, mentre Faliva scatta le foto che gli vengono indicate dai funzionari di polizia. E' tutto in perfetto ordine, come se nulla fosse accaduto. Deve essere stata un'azione fulminea, non vi è stata alcuna colluttazione, né alcun alterco. Uno dei due ha sorpreso l'altro, e poi si è sparato. Vi è chi mormora che tra i due vi fosse qualcosa di più che una semplice amicizia, ma la figlia della donna, la quindicenne Luisa, lo esclude. Spiega che prima di allora, le visite di Lussignoli erano state rarissime, ed anche adesso che veniva a pranzo tutti i giorni, usciva o poco prima o poco dopo di lei. I vicini confermano: il fatto stesso che i due dovessero far rientro al lavoro alle 14 corrobora questa ipotesi.

Nel frattempo le condizioni di Paolo, ricoverato all'ospedale, permangono gravi, al punto che i sanitari escludono la possibilità di un intervento chirurgico per non aggravare il quadro clinico. E' costantemente piantonato da un agente di polizia, incaricato di trascrivere tutte le parole che il ricoverato dovesse pronunciare inconsciamente, che si spera possano servire a chiarire il sanguinoso episodio. Al suo capezzale è giunta anche la moglie, che non si spiega l'accaduto, anche se è pronta a giurare che il marito sia la vittima e non l'autore dell'omicidio. Esclude qualsiasi tipo di relazione tra i due che non fosse quella nota, e non sa spiegare la provenienza della pistola, di cui non vi è traccia né in una casa né nell'altra. Alle 16 un furgone mortuario giunge in via Fogarole, vi viene caricata la salma di Maria chiusa in una disadorna bara di legno chiaro.

“Maria, perchè l'hai fatto?”, sono le prime parole che pronuncia Paolo all'indomani quando, verso le 11, si ridesta dal coma. Dalle 13,40 del giorno prima non aveva più ripreso conoscenza. Durante la notte si sono avvicendati ogni due ore gli agenti di polizia che lo piantonano, sperando di carpire dalle sue labbra qualche elemento che aiuti a comprendere l'accaduto. Ma Lussignoli giace pallidissimo nel suo letto con accanto la moglie. Adele era stata avvertita nel tardo pomeriggio da un cognato che, in modo sibillino, le aveva detto che al marito era accaduto qualcosa ed era meglio se si fosse recata subito all'ospedale. In un primo tempo la donna aveva pensato ad un incidente, causato dalla strade ghiacciate che il marito doveva percorrere con il pesante mezzo carico di rifiuti dell'Otsu. Aveva allora inforcato la bicicletta e, arrancando sul ghiaccio, si era diretta verso la città, distante circa quattro chilometri. Poi, giunta a Porta Venezia, aveva pensato che fosse meglio recarsi subito dall'amica in via Fogarole sia per avere notizie, che per depositarvi la bicicletta. Aveva visto un capannello davanti alla casa, ma nessuno aveva avuto il coraggio di dirle nulla. Si era così recata all'ospedale, dove un medico le aveva raccontato la verità. Così era venuta a sapere della tragedia che aveva coinvolto il marito e l'amica.

Alle prime parole pronunciate dal ferito, il piantone la invita ad uscire dalla stanza, secondo gli ordini che ha ricevuto, per ascoltare ogni eventuale rivelazione del ricoverato. Ma le parole sono sempre le stesse: “Maria, non dovevi farlo”.  Dopo un poco, però, Paolo comincia a riprendere conoscenza: sbatte gli occhi un paio di volte, chiede da bere, si guarda attorno stupito. Intanto la notizia del risveglio si diffonde in un baleno. All'ospedale arrivano a bordo di una camionetta il sostituto Procuratore della Repubblica Ciambi, il commissario Luciani, il maresciallo Maneo e tutti gli altri. Un medico assiste all'interrogatorio di Lussignoli tastandogli in continuazione il polso. 

Il suo racconto è agghiacciante: “Fra me e la Tabaglio vi era del tenero – rivela Paolo – io non ero proprio innamorato, ma lei sì. Tanto che da un po' di tempo a questa parte, insisteva affinchè io abbandonassi la famiglia e mi trasferissi per sempre nella sua casa. Non volli, naturalmente accontentarla. Ieri l'altro, dopo la colazione, quando la Luisa era uscita per andare al laboratorio delle suore di San Vincenzo, la Tabaglio si è alzata dicendo che andava in camera da letto per prender lo scaldino e riempirlo di braci. Alla sera quando sarebbe tornata dal lavoro, avrebbe trovato il letto caldo”. Nelle foto scattate il giorno prima lo scaldino, in effetti, era ancora ben visibile a sinistra della porta che conduce alla camera da letto, nell'angolo formato con la credenza dove poggia il ritratto del marito defunto in Germania. Paolo prosegue stentatamente il suo racconto: “La Maria, infatti, andò in camera da letto, vi restò qualche secondo, rientrò tenendo in mano lo scaldino, si chinò per deporlo per terra. Quando si alzò, stringeva tra le mani la rivoltella. Mi venne vicino e, mentre io non mi ero ancora riscosso dallo stupore, sentii uno spasimo acuto al petto ed udii il rumore di uno sparo. La vista mi si annebbiava, tentavo di reggermi. Vidi la Maria adagiarsi sul divano, udii altri colpi. Non ricordo più niente altro”.

Tutto diventa immediatamente chiaro, ma il commissario Luciani non è convinto che le cose siano andate così come Paolo ha raccontato. Per cinque o sei volte, durante la giornata, viene ripetutamente raggiunto da agenti e magistrati, ma, anziché rispondere, cade in improvvisi torpori restando assopito per delle mezzore e chiedendo da bere al risveglio. Il medico lo assiste in continuazione in questi brevi interrogatori, senza che il ferito aggiunga altri particolari alla prima versione che ha offerto. L'interrogativo più pressante riguarda la provenienza della pistola. La polizia è convinta che l'arma appartenga a Paolo, anche se le impronte digitali sull'impugnatura sono state cancellate da tutte le altre mani che, nel frattempo, si sono scambiate la pistola senza preoccuparsi troppo della perdita di una prova che avrebbe potuto risultare schiacciante.

Adele, nel frattempo, porta il peso del tradimento che il marito ha confessato. Si è accasciata su una panca e piange in silenzio con lo sguardo fisso al muro di fronte. Sgomento e incredulità regnano anche in via San Savino 3, dove abita la famiglia Lussignoli: tutti conoscono Paolo ed anche la Tabaglio, perchè prima di trasferirsi a Cremona aveva abitato anche lei a San Savino. E tutti sanno che le due famiglie sono amiche almeno da una ventina d'anni. Un'amicizia senza alcuna ombra, che non aveva mai dato luogo a fraintendimenti od ambiguità. Nessuno avrebbe mai potuto pensare che tra i due esistesse una relazione. 

Adele è convinta che sia stata Maria a voler uccidere Paolo, e non solo per una questione affettiva. Nei rari momenti in cui Lussignoli si risveglia dal suo torpore, tra le labbra rinsecchite, con un fil di voce sussurra: “E' stata lei a spararmi”. L'agente di Ps prende freneticamente appunti, cogliendo ogni sillaba: “Ecco che cosa ci si guadagna a fare del bene”, e poi, dopo un lungo silenzio, “perchè non si decide a venire a trovarmi?”. Ed un grido angosciato: “Non sono stato io...non sono stato io...”, seguito dalla solita domanda, “Che cosa ho fatto?...Ho fatto sempre del bene...Perchè mi ha sparato?...”

Eppure un movente ci deve essere, a meno che uno dei due non sia pazzo. E poi la questione della pistola. Di chi è? Si verifica che la rivoltella a tamburo è una Velo-Dog da 5,7 mm. acquistata da Lussignoli nel luglio dell'anno precedente nell'armeria Galli di via XX Settembre 61. Paolo è conosciuto dall'armaiolo come un appassionato cacciatore, in possesso di regolare licenza, ma che necessità aveva ad acquistare una pistola, e dove l'ha tenuta nascosta per tutto questo tempo? “In casa no di certo – si affretta a chiarire la moglie senza ombra di esitazione – io l'avrei vista!”.

Si obietta che la donna non può essersi uccisa perchè, già ferita dal primo colpo, non avrebbe potuto spararsi una seconda volta, dal momento che, trattandosi di una pistola a tamburo, premere il grilletto avrebbe richiesto un certo sforzo. Se l'uomo, invece, avesse avuto sicuramente l'intenzione di suicidarsi, perchè avrebbe deposto l'arma in mano alla vittima, anziché spararsi un altro colpo? I dubbi restano. 

Il 13 febbraio la Procura spicca un mandato di cattura nei confronti di Lussignoli, imputato di omicidio volontario, e vengono impedite le visite in ospedale. Due le motivazioni che hanno indotto la magistratura a procedere: il fatto di aver accertato che l'arma, acquistata sette mesi prima, era di sua esclusiva proprietà, ed i risultati dell'autopsia effettuata sul corpo di Maria Tabaglio, che portano a concludere che le due ferite d'arma da fuoco riscontrate sul corpo siano state tali da ledere in modo irreparabile organi di fondamentale importanza. Il primo proiettile avrebbe ucciso la donna e, di conseguenza, il secondo colpo, anch'esso mortale, non avrebbe potuto essere sparato dalla stessa, ma da Lussignoli, che, evidentemente, avrebbe sparato anche il primo. Sembra poi certo che i colpi che hanno ucciso la donna siano stati indirizzati dall'alto verso il basso, mentre una direzione opposta avrebbe l'unico colpo sparato verso l'uomo. In entrambi i casi sarebbero stati sparati a bruciapelo od a brevissima distanza. Peraltro si fa strada tra gli inquirenti il dubbio che Paolo sia un abile simulatore, in quanto sembra che, in un momento di lucidità, abbia detto alla moglie: “Non dire niente di niente. Se ti interrogano dì che non sai nulla” e le frasi uscite a mezza bocca nel delirio siano in realtà studiate ad arte per trarre in inganno i poliziotti. Una di queste, “Perchè non viene a trovarmi?”, ripetuta a bella posta in continuazione, vorrebbe far credere che l'imputato non sarebbe al corrente della morte della Tabaglio, cosa contraddetta dalla deposizione verbalizzata della principale testimone secondo la quale, prima della famosa frase “Ci siamo sparati”, Lussignoli, alla sua domanda, avrebbe risposto “Maria è morta...”. Resta poi da chiarire la sequenza degli spari: due in rapida successione, sparati contro la Tabaglio, ed uno dopo qualche secondo, sparato da Paolo contro se stesso.

Paolo Lussignoli guarisce, viene dimesso dall'Ospedale e tradotto direttamente in carcere. Il 22 novembre 1957, a conclusione di un'istruttoria durata oltre nove mesi, il procuratore Fulvio Righi firma la richiesta di rinvio a giudizio per omicidio e corruzione di minorenne. Il movente del delitto consisterebbe infatti nelle presunte attenzione riservate alla figlia quindicenne di Maria, e la conseguente decisione della madre di difenderne l'onore. Paolo, invece, nega tutto e accusa la donna.

Il 3 giugno 1957 inizia il processo in corte d'Assise: Lussignoli è difeso dagli avvocati Adelchi Mazza, suo compagno di prigionia in guerra, e Gianfranco Groppali, la parte civile è affidata a Lionello Tirindelli. Il processo si svolge a porte chiuse su richiesta del Pm Benassi nell'eventualità che dagli interrogatori possano emergere particolari scabrosi, poi alle 17,15 l'aula viene aperta al pubblico e si prosegue con l'interrogatorio della figlia Luisa Marazzi. La ragazza indossa un tailleur nero e porta al collo una collana d'oro con un medaglione. Il presidente Acotto chiede semplicemente se sia al corrente di dissidi tra la madre e Paolo, ma la ragazza nega l'eventualità. Chiede di essere interrogata Adele Donelli, moglie di Lussignoli, che mostra un'incrollabile fiducia nel marito: non sa nulla della pistola, costata 4000 lire ma mai pagata, conferma solo l'esistenza di un fucile da caccia tenuto nella sua custodia appesa all'attaccapanni, non si è mai preoccupata del fatto che il marito tornasse spesso a casa dopo le 22 perchè andava al bar a vedere la tv, non sa nulla di eventuali rapporti tra il marito e la figlia quindicenne della Tabaglio. L'avvocato Tirindelli le chiede come Lussignoli conoscesse Maria. “Sono stata io a farli conoscere. Lei veniva dal Dosimo e la conobbi prima ancora di sposarmi con mio marito, che proveniva da Livrasco. Fra noi donne, specialmente durante il periodo della guerra, ci consigliavamo e ci consolavamo a vicenda. Fu al ritorno dalla Germania ove era stato prigioniero, che io feci conoscere a mio marito la Tabaglio”. Poi la donna si allontana dal banco del presidente, senza incrociare gli occhi del marito, che invece la guarda a lungo. Il presidente legge un verbale della polizia da cui risulta che la pistola era stata comperata da Lussignoli il 30 novembre 1955 nell'armeria Galli in via XX Settembre e solo il 5 gennaio aveva comperato i proiettili. Viene poi fatta entrare la testimone principale del processo, quella attorno a cui ruota tutta la vicenda, Maria Portesani, la vicina della Tabaglio, quella che aveva udito gli spari e per prima era entrata nell'appartamento. Indossa un tailleur grigio ed è molto agitata. Racconta: “Il mio appartamento è al secondo piano della casa stessa ove, al primo piano, abitava la Tabaglio. Quel giorno, verso le 13, l'ho vista in cortile mentre, al rubinetto dell'acqua, era intenta a pulire il paiuolo della polenta. E' rimasta lì, davanti al rubinetto, una decina di minuti. Non posso determinare il tempo preciso perchè non avevo l'orologio, ma non debbo sbagliarmi di molto nella valutazione. Io, dalla mia finestra, la osservavo e dicevo tra me e me: «Come fa a restare tanto tempo in cortile, davanti all'acqua con il freddo che fa?». Perchè era una giornata rigidissima d'inverno. Poi è salita. Alcuni minuti più tardi, sono uscita anch'io perchè dovevo spazzare la mia loggetta e la rampa delle scale. Giunta sul pianerottolo del primo piano, m'imbattei nella Tabaglio che stava a sua volta per ridiscendere. Aveva in mano lo scaldino di ferro per lo scaldaletto ed andava a vuotarlo nel bidone delle immondizie che era in un angolo del cortile. Le ho detto: «Fa un gran freddo oggi»; e lei mi ha risposto: «Il tempo fa quello che vuole»”. La Tabaglio vuotava lo scaldino ogni giorno alla stessa ora. “Mentre io continuavo a spazzare, la Tabaglio è risalita. Ho spazzato tutto il lungo andito, poi sono rientrata. In quell'istante, ho sentito due colpi poi un tonfo che ha fatto rimbombare la casa. «Ma cosa fa quella gente?», mi sono chiesta: ero convinta che si trattasse di martellate. Sono salita a casa mia e mi sono accinta a ripulire la cucina economica. Avevo appena rimosso due o tre anelli della piastra, quando ho sentito un altro colpo. Stupita, sono rimasta col fiato sospeso; e intanto ho sentito la voce di un'altra inquilina che brontolava per il chiasso che veniva fatto. E subito dopo ho sentito una voce soffocata che diceva: «Mamma mia...aiuto...muoio...». Ho pensato che potesse essere mio figlio ch'era fuori per il suo lavoro di fornaio e che pochi giorni prima aveva sofferto per un imbarazzo provocato da un colpo di freddo. Sono scesa in fretta e furia, ma nell'atrio ho trovato una delle mie figlie che mi ha detto che non poteva essere suo fratello perchè non era ancora tornato dal lavoro.Mentre risalivo, ho sentito che dalla porta della Tabaglio veniva rimosso il catenaccio che l'assicurava. Subito dopo l'uscio si aprì e apparve il Lussignoli che si lamentava, e che si ritirò subito. Impressionatissima entrai, vidi la Tabaglio distesa sul divano e ansiosamente le domandai: «Maria, cos'è accaduto?»: Lussignoli era presso il divano, la mano destra appoggiata alla spalliera, quella sinistra al tavolo, il corpo proteso in avanti. Io, ripensando al fatto che la Tabaglio era stata per tanto tempo davanti alla fontana, pensai che fosse sofferente per un colpo di freddo. E allora non potei a meno di innervosirmi nel sentire Lussignoli che continuava a dire: «Aiuto...muoio...». Ma me lo diceva in un modo tale da farmi provare l'impressione che stesse proprio come stiamo tutti noi qui, adesso. E gli risposi: «Ma la pianti! Vada di là, mi faccia fare qualcosa per la Tabaglio!». Fu allora che Lussignoli mi disse: «Ci aiuti, Maria: ci siamo sparati; moriamo tutti e due!». Terrorizzata, guardai nuovamente la Tabaglio; e soltanto allora compresi ch'era morta e mi accorsi della rivoltella che aveva appoggiata sul petto. In quell'istante Lussignoli cadeva a terra; allora io, spaventata, mi precipitai per la strada urlando, per cercare soccorso”. Maria Portesani riconosce la foto che ritrae Maria, ormai morta, sul divano, conferma che Paolo era all'estremità del divano, quasi proteso verso il corpo della donna, prima di cadere riverso verso il fondo della stanza, sostiene che i primi due spari sarebbero avvenuti in sequenza e il terzo alcuni istanti dopo, preceduto da un tonfo, e seguito da grida di aiuto. La deposizione della Portesani viene confermata dalla seconda testimone, Osvalda Dorigo, entrata subito dopo nell'appartamento dove si è consumata la tragedia. Viene ascoltata anche la terza coinquilina dello stabile, Clorinda Tiveron, che al momento dei fatti non era in casa, ma era stata sollecitata dalla Portesani a chiamare la polizia. Il dottor Raffaele Spotti, il medico intervenuto a prestare soccorso a Lussignoli, chiamato dall'Ospedale, ricostruisce l'intervento sostenendo di aver dovuto slacciare i bottoni del cappotto, spostare la tuta e tagliare il pull-over per trovare una macchia di sangue che indicasse la ferita. E' un particolare importante, perchè è accertato che le bruciature del colpo sparato a bruciapelo si notano soltanto sulla camicia e non sugli altri indumenti,

 il che  induce l'accusa a ritenere che sia stato lo stesso Paolo a spararsi, dal momento che, se fosse stata a sparare la donna, sia il cappotto che la tuta sarebbero stati aperti, oppure sia l'uno che l'altra sarebbero stati trapassati dai proiettili.

Prosegue la sfilata dei testimoni, tra cui i sanitari che si sono alternati al capezzale del Lussignoli, senza che emergano particolari utili all'inchiesta. Emergono dal dibattito le personalità dei protagonisti: Paolo, definito da qualcuno “bonaccione” ma poco incline allo scherzo ed alla battuta, a tratti autoritario nei confronti dei colleghi; Maria, carattere chiuso e riservato, apprensiva nei confronti della figlia, casa, lavoro e poche conoscenze, men che meno maschili. Una vita irreprensibile. Ma... Racconta Rosa Mantelli, moglie di Mario Tabaglio, fratello di Maria: “Quando fummo a Dosimo parlammo a lungo e invitai la Luisa a dire tutto quello che sapeva: mi raccontò che un giorno era andata in gita a Como con altre ragazze. Era tornata più presto del previsto, salì le scale ma giunta sulla porta si fermò. La porta non ha nessun buco di serratura ma attraverso una fessura vide che la Tabaglio e il Lussignoli erano abbracciati. Allora bussò ed entrò. La mamma la rimproverò perchè non aveva la faccia allegra, ma la Luisa stette sempre zitta”. 

Il 6 giugno 1957 si arriva all'udienza decisiva, la quarta, che vede lo scontro tra l'avvocato di parte civile Lionello Tirindelli e il primo difensore di Lussignoli, Adelchi Mazza, due autentici leoni del foro. Tirindelli contesta innanzi tutto la versione offerta, ad un anno di distanza dal fatto, dal Lussignoli, che aveva lasciato intuire come la Tabaglio avesse avuto intenzione di suicidarsi. Conduce con foga la sua arringa: “«Io ho ricevuto, dice il Lussignoli, il primo colpo di pistola e successivamente la Tabaglio si è sparata». E' impossibile questa circostanza sia sul terreno della tecnica che su quello della storia. Il rilievo fatto dal dottor Luciani non ha importanza sulla posizione artefatta della pistola perchè neppure il prof. Canuto ne ha tenuto conto. La pistola era nella mano della Tabaglio in posizione di sicurezza. La Tabaglio dovrebbe essere una suicida destrorsa ma i periti hanno detto che la pistola era angolata da sinistra verso destra. Inoltre la perizia medico-legale esclude che il Lussignoli si sia esploso un colpo con la mano sinistra in quanto vi è impossibilità di attingere, in posizione normale, il cosiddetto transito del proiettile. Vi è l'altra possibilità che la Tabaglio avesse sparato mantenendo la pistola al contrario, con il calcio, cioè, rivolto verso l'esterno, ma cade ciò che è stato detto dal Lussignoli quando parlò della pistola. Sulla convergenza e sulla divergenza dei transiti ha parlato esaurientemente il perito Vidoni ma sulla natura dei colpi sparati vi sono state delle testimonianze attendibili che collimano con i risultati dei periti. E' interessante sapere quello che il Lussignoli ha detto in aula rettificando quanto aveva detto al Procuratore della Repubblica subito dopo il delitto. Lussignoli era seduto sul divano. In due secondi, perchè tale è il tempo calcolato dai periti, egli avrebbe fatto in tempo ad alzarsi, la Tabaglio a sedersi, a distendersi, a manovrare la pistola ed esplodere il colpo sul Lussignoli, poi gli altri due colpi che erano entrambi mortali. I periti affermano che sul corpo della Tabaglio fu trovata la presenza di conglomerati di sangue ma la circolazione sanguigna era normale e la pressione era precisa anche dopo il ricevimento del secondo colpo. E' vero che solo la Portesani è la principale accusatrice del Lussignoli, ma la sua versione è esatta. La seconda teste, la Boldrini, è una disgregata dalla paura: un bel momento non ha saputo connettere ciò che ha effettivamente udito con quello che ha ritenuto di aver udito“. Tirindelli, dunque, ricostruisce la scena: “Lussignoli ha affermato che la Tabaglio si era avvicinata con l'intenzione di abbracciarlo ma davanti al giudice istruttore aveva detto che, dopo aver portato lo scaldino in camera, era tornata indietro tenendo le mani dietro la schiena. Quelle mani, secondo lui, impugnavano la pistola. Crollata la questione dello scaldino (perchè lo scaldino si trovava in cucina posato in terra vicino alla porta della camera da letto) Lussignoli ha creduto bene di inventare l'abbraccio. Ma successivamente il Lussignoli disse che non si era accorto di niente e che il colpo gli era stato esploso all'improvviso. La donna avrebbe introdotta la mano nella tuta e, dopo aver fatto perno sulla sinistra, avrebbe sparato. E' una operazione troppo complicata per attribuirla ad una donna che non aveva mai visto una pistola e che ne ignorava persino l'uso. Al momento terminale, cioè alle 13,30, Lussignoli non sa come è stato colpito e cade in stato di incoscienza. Ma alla presenza della Portesani ha la forza cosciente di pronunciare la ben nota frase: «Ci siamo sparati, moriamo tutti e due». Queste sono le circostanze che possono pendere sulla causale ma non sulla ricostruzione del fatto”.

Riassumendo i fatti il Procuratore Generale Benassi non ha dubbi e chiede che Paolo Lussignoli venga condannato a 21 anni per omicidio, un anno e mezzo per corruzione di minore e due mesi per porto abusivo d'arma da fuoco. Del tutto opposte, ovviamente, le tesi della difesa sostenute dall'avvocato Adelchi Mazza. La Tabaglio sarebbe venuta a conoscenze delle attenzioni riservate da Paolo alla giovane figlia. Quel pomeriggio del 9 febbraio Lussignoli si sarebbe appisolato sul divano, Maria sarebbe uscita in cortile per pulire il paiolo della polenta, sarebbe rientrata e poi nuovamente uscita per vuotare lo scaldino. Poi, una volta rientrata, si sarebbe avvicinata al Lussignoli sparandogli, Paolo si sarebbe alzato senza rendersi conto dell'accaduto e, sentendo una forte fitta al cuore sarebbe caduto a terra, dando tutto il tempo alla Tabaglio per distendersi sul divano, sparando altri due colpi. Lussignoli avrebbe poi tentato di raggiungere la porta mentre sopraggiungeva la Portesani, mormorando “ci siamo sparati, moriamo tutti e due”. La stessa tesi è sostenuta il giorno dopo, il 7 giugno 1957, dall'altro avvocato difensore Alessandro Groppali, che aggiunge il particolare della depressione cui sarebbe stata soggetta Maria Tabaglio, dopo una diagnosi negativa avuta nell'ottobre 1954, cui aveva fatto seguito un intervento chirurgico che, evidentemente, non l'aveva rassicurata sulle sue condizioni di salute. Un'angoscia aggravata dall'atteggiamento distaccato di Lussignoli, sempre più propenso a troncare la relazione con la donna, trasformatasi in ansia e gelosia nei confronti della figlia Luisa, che l'avrebbe spinta a maturare la decisione di uccidere di Paolo, per poi puntare l'arma contro se stessa. Groppali chiede l'assoluzione piena per il proprio assistito, al termine di un'arringa durata quasi quattro ore. Dopo sette ore di Camera di Consiglio la Corte pronuncia la sentenza di assoluzione per insufficienza di prove.

Nelle foto a scorrimento: il soggiorno dell'abitazione di Maria Tabaglio, la casa di via Fogarole 11

Fabrizio Loffi


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Enzo

26 agosto 2021 12:22

Questo racconto reale di cronaca nera mi ha teletrasportato nel tempo , ho avuto questa netta sensazione immerso in questa lettura di essere presente in loco . Complimenti.

Adelchi Mazza

8 aprile 2022 13:37

Mi è piaciuto molto lo stile del "racconto" di cronaca nera , in più l'avvocato citao Adelchi Mazza era mio nonno....