17 luglio 2021

Il mistero di Cà de' Bonavogli (8)

E' la mattina del 18 febbraio 1948, mercoledì, ed a Cremona è giorno di mercato. Giovanni Ferrari, 54 anni, che conduce un piccolo appezzamento di terreno a Cà de' Bonavogli, frazione di Derovere, si reca in città, sperando di concludere un acquisto di legna con qualche altro agricoltore. In previsione dell'affare si è munito di soldi: 50 mila lire infilate nel portafogli, ed altre 70 mila, in via precauzionale, chiuse in un pacchetto, che gli ha confezionato appositamente la sera prima la moglie Rosa Pellizzari, custodito nella tasca interna della giacca. Sono tempi brutti ed in giro è pieno di balordi, lo sa bene Giovanni, con tutto quel denaro addosso. Ma l'agricoltore non si fa vedere e Giovanni decide di tornarsene a casa con il suo piccolo gruzzolo intatto. E' ancora inverno e fa buio presto. In campagna si cena al calar del sole e verso le 18 marito e moglie, con il figlioletto di sei anni, stanno mettendosi a tavola, quando d'un tratto si sente qualcuno che chiama dalla strada. Va ad aprire il portone della cascina, ormai chiuso, un contadino, Giuseppe Davò di 58 anni, dipendente del Ferrari. Deve trattarsi di un viso noto, perchè Davò gli apre facendolo entrare senza avvertire i padroni di casa. Si tratta infatti di un ragazzo di vent'anni che fa il mediatore, Giovanni Bottari, di Santa Maria di Viadana, che sta tornando verso casa. Giovanni lo conosce bene, si è servito di lui per concludere alcuni affari e parecchie volte lo ha anche ospitato per la notte. E lo fa anche quella sera, lo invita a sedersi con loro a cena e poi, verso le 20, giunta l'ora di andare a dormire, insiste perchè si fermi: è tardi, da un pezzo è buio e la strada da fare è ancora tanta e poi in giro c'è pieno di gente di malaffare, pronta ad aggredire solo per qualche centesimo. Il giovane non si fa pregare e mentre il padrone di casa e Davò vanno nella stalla per dare un'ultima occhiata ai cavalli, se ne sta in cucina a conversare con Rosa dell'argomento appena iniziato: delitti per un nonnulla, rapine, ruberie di ogni genere che non risparmiano nessuno.

Dopo una mezz'ora i due uomini rientrano in casa e tutti si alzano per recarsi ai piani superiori, dove sono le camere da letto. Procedono in fila indiana: davanti è Davò, seguono Ferrari e poi Bottari, dietro è la moglie e chiude la fila il figlio. Dalla cucina si spostano in un'anticamera che funge anche da soggiorno dove si apre un andito, che immette alla rampa delle scale. Bottari lancia distrattamente un'occhiata alla sveglia posta sul caminetto su un lato dell'anticamera: “Sono le venti e trenta”, osserva, e Ferrari annuisce. Nulla lascia presagire quello che avviene un attimo dopo. Il giovane estrae una Beretta calibro 9 e la punta. Rosa trasalisce al rumore dello sparo, ma pensa che provenga dall'aia, e osserva con stupore il marito retrocedere fino in fondo alla cucina ed accasciarsi a terra. “Ti sei spaventato?”, gli chiede. Giovanni ha solo la forza di alzare un dito all'altezza delle labbra e sussurrare “Taci, Rosa” e solo in quel momento la donna si accorge che un rivolo di sangue sgorga dal petto del marito.

Ma Davò, che nel gruppetto diretto al piano superiore precedeva Ferrari, intuisce che a sparare non possa essere stato altri che Bottari, ed allora, anziché proseguire, torna precipitosamente sui propri passi sino a raggiungere la cucina, vi entra, chiude la porta e vi si appoggia contro con tutto il proprio peso. Ma l'assassino lo incalza, gli è quasi addosso e riesce con forza ad aprire la porta, entra in cucina brandendo l'arma e la punta contro il figlio di Ferrari, che piange terrorizzato. A quel punto Davò tenta il tutto per tutto, colpisce violentemente il braccio di Bottari e gli urla: “Sei pazzo? Vuoi uccidere anche il bambino?”, sperando che il colpo, vibrato all'improvviso, colga di sorpresa il giovane facendogli cadere di mano la pistola. Ma Bottari non si lascia sorprendere e tenendo ben salda nella mano l'arma, la rivolge alla donna e le intima: “O mi dai il denaro che tieni in casa o ammazzo tutti”. La donna risponde di avere il denaro in camera e di essere disposta ad assecondarlo. Sale allora le scale, ma una volta entrata in camera, portandosi dietro il figlio, chiude l'uscio e lo spranga con un catenaccio, infila il figlio nel letto sotto le coperte, sperando, in questo modo, di salvarlo da eventuali altre violenze che avrebbe potuto compiere il giovane, poi si affaccia  alla finestra ed invoca disperatamente aiuto, senza che alcuno possa sentirla.

A questo punto i particolari della vicenda diventano confusi. Fino ad ora, infatti, abbiamo seguito passo passo il racconto fatto dalla donna, che da questo momento, però, chiusa nella camera con il figlio, non è in grado di sapere quanto in effetti stia accadendo nella casa, dove sono rimasti solo Giovanni Bottari e Giuseppe Davò. Non resta che tentare una ricostruzione. Bottari avrebbe nuovamente sparato dapprima contro Davò, che in effetti viene ritrovato cadavere, accasciato presso la scala con la fronte trapassata da un proiettile, mentre un'altra pallottola viene rinvenuta conficcata nel muro. Forse a spingere il giovane ad un nuovo delitto è la certezza di essere ormai spacciato? Non lo sapremo mai.

Di certo Bottari sale rapidamente la scala e bussa ripetutamente alla porta della camera, ordinando a Rosa di aprire. Tenta inutilmente di abbattere l'uscio, sparandovi contro anche un colpo di pistola poi, in preda all'ira, ridiscende precipitosamente in cucina e probabilmente inizia a frugare sul corpo di Ferrari alla ricerca di quel denaro che, dubita, sia ancora nascosto in qualche parte del vestito. Il condizionale è d'obbligo perchè la donna non è in grado di riferire altri particolari. Sul corpo dell'agricoltore vengono rinvenute due differenti ferite d'arma da fuoco. Il primo proiettile, sparato alle spalle, è penetrato dal torace ed è fuoriuscito dal petto. La seconda ferita, anch'essa mortale, sarebbe stata provocata da un proiettile sparato dalla direzione opposta, forse nel momento in cui Bottari cercava disperatamente sul cadavere di Ferrari il denaro che vi riteneva ancora nascosto. Ad ogni modo Rosa vede, dalla finestra della camera dove si è rinchiusa, il giovane che, dopo aver rinvenuto il portafoglio sul corpo della vittima, inforca una bicicletta e da solo si allontana in direzione di Cingia de' Botti.

Trascorrono alcune ore e cambia la scena. Verso l'una di notte un passante nota una sagoma scura, a ridosso del cippo stradale che indica il chilometro 22 della provinciale da Cremona a Casalmaggiore. Si avvicina e vede che è un uomo riverso in una pozza di sangue. L'uomo non è morto, respira ancora, ed allora il passante corre a cercare aiuto nelle cascine vicine ed insieme ad altri soccorritori, trasportano il ferito all'ospedale di Palvareto-San Giovanni in Croce. La sue condizioni appaiono subito gravi ed il ferito non riesce a fornire le sue generalità ai medici che lo interrogano: un proiettile gli ha perforato il capo da parte a parte nella regione temporale, ed è vivo per miracolo. Poi lentamente il polso riprende la frequenza normale ed al mattino l'uomo si è ripreso. Sul luogo dove è stato trovato, la notte precedente, viene rivenuta una pistola ed, accanto, il portafoglio di Giovanni Ferrari completamente vuoto.

Quando l'uomo rinviene definitivamente, pronuncia però una frase che lascia allibiti i medici che lo curano: “Perchè non accendete la luce? E' troppo buio!”: il proiettile ha leso entrambi i nervi ottici ed il paziente è diventato cieco. Scattano le indagini, condotte dai carabinieri di Casalmaggiore, sul luogo del delitto a Cà de' Bonavogli si recano anche il giudice istruttore Acotto e il sostituto Procuratore della Repubblica Gemelli. Nelle tasche di Ferrari vengono trovate le 70 mila lire nascoste nel pacchetto preparato dalla moglie, che il suo assassino, nella fretta, non è riuscito a recuperare. I magistrati si recano poi all'ospedale di Palvareto per interrogare il misterioso ferito che, ormai è chiaro a tutti nonostante non abbia fornito ancora le proprie generalità, non è altri che Giovanni Bottari. Dal suo letto non sa, o non vuole, spiegare se abbia tentato di uccidersi, oppure se, a sua volta, sia stato vittima di un tentato omicidio ma poi, pressato dalle domande, ammette di aver avuto un complice nella tragica serata di due giorni prima: si chiama Luigi Zaffanella, ha vent'anni, ed è a lui che avrebbe consegnato metà della somma rapinata ai Ferrari. Agli inquirenti non resta che appurare se Zaffanella esista veramente, oppure se si tratti di un nuovo depistaggio.

D'altronde le alternative non sono molte: o Bottari ha tentato di uccidersi, sapendo di essere ricercato e di non poter sfuggire al proprio destino, ipotesi però molto improbabile; oppure è stato ferito e poi derubato dal suo complice, o ancora è stato aggredito da un altro bandito casualmente di passaggio sulla strada di Cingia de' Botti. Di certo c'è solo il fatto che il colpo con cui è stato ferito Bottari è partito dalla stessa arma, la Beretta calibro 9, con cui sono stati uccisi Ferrari e Davò, la cui canna ha un'imperfezione che imprime una traccia inequivocabile lungo il proiettile. Bottari, inoltre, ha spiegato di aver avuto con sé quella sera otto proiettili, e i conti tornano: due sarebbero stati sparati contro Giovanni Ferrari, altri due contro Davò, uno contro l'uscio della camera da letto dove si era rifugiata Rosa Pellizzari, uno contro lui stesso, uno era rimasto nel caricatore ed infine, l'ottavo viene ritrovato nelle sue tasche.

Mentre viene interrogato nella camera dell'ospedale, entrano per effettuare il riconoscimento Rosa ed una sua nipote, una donna sui trentacinque anni. Mentre la vedova si limita semplicemente a qualche parola di rimprovero, la nipote si scaglia invece su Bottari, gli sputa in faccia, gli graffia il volto, lo percuote, trattenuta a stento dai Carabinieri che cercano di strappare l'infermo alla sua furia cieca. Bottari, dal canto suo, non può rendersi pienamente conto di quanto sta accadendo e continua a ripetere ossessionato: “Cosa succede? Cosa mi fanno? E perchè non accendete la luce? Non vedete com'è buio?”. In uno sprazzo di lucidità il giovane ammette di aver ucciso il Ferrari, ma di aver sparato per difendersi da lui. L'unica implacabile accusatrice resta la donna che, però, non ha assistito direttamente all'intero evolversi della vicenda. Restano dubbi anche sulla sua versione dei fatti accaduti quella sera: infatti, sembra impossibile che, procedendo uno dietro l'altro verso le camere, la donna, che era alle spalle di Bottari, non l'abbia visto sparare al marito che lo precedeva. Ma terminato l'interrogatorio ed usciti i magistrati dalla camera dell'ospedale, dopo poco tempo le condizioni del ferito iniziano a peggiorare: si accascia e cade in un profondo sonno, che i medici definiscono subito”preoccupante”.

Il giorno seguente, venerdì 20 febbraio, le sue condizioni si aggravano ulteriormente e il paziente non riconosce neppure un familiare che ha chiesto di visitarlo. Approfittando di un raro momento di lucidità un giovane ufficiale dei carabinieri ricorre ad un nuovo espediente per estorcere al ferito il nome dell'eventuale complice di cui ha parlato: porta accanto al letto uno sconosciuto che si finge un suo amico accusato ingiustamente di complicità nell'omicidio e lo esorta a dire tutta la verità per scagionarlo dal sospetto, denunciando nel frattempo il complice che lo ha ferito e derubato. Ma Bottari risponde in modo evasivo, senza escludere né confermare l'esistenza di un complice e senza dire una parola sul suo ferimento. Evidentemente Bottari sa più di quanto voglia far credere, ma nessuno si spiega per quale motivo, pur sapendo di essere ormai condannato, si ostini a non raccontare come si siano svolti esattamente i fatti. Chi gli ha sparato e per quale motivo? E dove sono finite le 50 mila lire contenute nel portafoglio di Ferrari? Più tardi, pressato nuovamente dalle domande, conferma: “Ho diviso la somma presa al Ferrari. Poi non ricordo cosa mi sia accaduto”, prima di sprofondare nuovamente nel suo stato comatoso. Diventa sempre più difficile estorcergli qualche brandello di verità, Bottari sta peggiorando e non è possibile neppure effettuare un confronto con un altro uomo su cui si nutrono forti sospetti. Eppure c'è qualcosa di insondabile, qualcosa che non quadra ancora e non convince medici ed inquirenti.

Vi sono momenti in cui, ripresosi da crisi in cui respira a fatica e mormora frasi sconnesse, Bottari si agita, prorompe in urla e in minacce, oppure si mette a cantare a squarciagola canzonette di moda, senza che i carabinieri o il personale sanitario che lo assiste, riescano a farlo tacere. Per verificare le sue esatte capacità mentali si tenta anche un esperimento drammatico. Superata la crisi di agitazione in cui era sprofondato, Bottari una mattina appare lucidissimo. Allora il carabiniere di guardia, dopo avergli parlato del modo di usare le armi, gli poggia sulla mano destra una rivoltella scarica. Bottari, seppur cieco, impugna l'arma con aria indifferente, il carabiniere sposta la sedia su cui normalmente siede e fa alcuni passi lungo la stanza verso la porta, come se volesse uscire. Il ferito, credendo di non essere sorvegliato, con una mossa fulminea si avvicina l'arma alla tempia e schiaccia il grilletto, ma poi, comprendendo che è scarica, la lancia lontano da sè con un'imprecazione. Un gesto che suggerisce che dopo la tragica rapina vi fosse stato effettivamente un tentativo di suicidio e quindi nessun ferimento da parte di un eventuale complice.

Poco dopo Bottari riceve anche la visita di un parente che gli offre una sigaretta, “Vuoi una Nazionale o una Aurora?”, gli chiede. Il giovane indica l'Aurora ma, per verificare la sua sensibilità,  il parente gli infila in bocca già accesa la sigaretta dell'altra marca e, alla prima boccata di fumo, Bottari getta via la sigaretta indignato per lo scherzo. Nei momenti di lucidità il ferito continua ad essere interrogato sui suoi eventuali complici, ed ogni volta fornisce nomi di persone residenti nel suo paese che dovrebbero essere in possesso della somma sottratta al Ferrari quella sera. I carabinieri procedono ad una serie di fermi, ma ogni volta che si arriva ad un confronto, il risultato è negativo. O Bottari non sa, oppure non vuole raccontare tutta la verità.

Passano altri giorni e le condizioni del paziente si mantengono altalenanti fino a quando, l'11 marzo 1948, i medici annunciano che Bottari si è irrimediabilmente aggravato a causa di un ascesso cerebrale contro cui non hanno potuto fare nulla i milioni di unità di penicillina iniettati. Il 19 marzo alle 10,30 Giovanni Bottari muore, portando con sé il suo segreto.

Nella foto: Cà de' Bonavogli in una foto di don Luisito Bianchi

 

Fabrizio Loffi


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