14 giugno 2021

L'avvocato e il genovese tornato dal passato (3)

E’ il 24 marzo del 1919. Fa freddo in questo colpo di coda d’inverno. Sono le 21,30 quando l'avvocato Andrea Boschi esce dalla sua abitazione in via dei Tribunali per recarsi al caffè Roma. Lo fa tutte le sere, trascorre qualche ora al caffè, poi rientra. In strada non c’è nessuno, risuonano solo i suoi passi nella nebbia. Cammina dunque tranquillo in direzione della sede del Comune di Duemiglia, che è confinante al numero 2. Non si accorge di nulla, quando avverte un dolore lancinante alla schiena, che gli toglie il respiro. Non è riuscito a rendersi conto che qualcuno gli è piombato alle spalle, sferrandogli una coltellata nella zona lombare, prima di darsi alla fuga in bicicletta. L'avvocato lancia un grido, e cerca di dirigersi verso casa, mentre in suo soccorso arriva la guardia in servizio al Comune di Duemiglia, Umberto Lodi che, aiutato da un passante, trasporta l'avvocato nella propria abitazione, da dove nel frattempo sono usciti i familiari richiamati dalle grida dei soccorritori. A prestare le prime cure è la moglie Margherita Venturini, angosciata e smarrita. E’ una dama della Croce Rossa e, aiutata dalla guardia, riesce ad adagiare il marito sul letto. Vengono immediatamente chiamati il dottor Signori ed il professor Della Rosa che verificano le condizioni dell'aggredito e l'entità della ferita: si tratta di un taglio largo alcuni centimetri alla regione lombare sinistra, inferto da un coltello affilatissimo, ma tuttavia non profondo. I due medici verificano che i reni non sono stati toccati e, nonostante la gravità della ferita, mantengono un cauto ottimismo sulle eventuali complicazioni, riservandosi una visita successiva più approfondita. Stranamente i due medici chiamati al capezzale del ferito si accontentano di una visita superficiale e non ritengono necessario al momento accertarne la reale entità. Anche il giorno dopo, di fronte all'aggravarsi delle condizioni del ferito, diagnosticano un semplice choc nervoso. Verso la mezzanotte Boschi sembra riprendersi un poco, non manifestando sintomi particolari. Arrivano anche l'onorevole Ettore Sacchi, il prefetto e numerosi amici, ansiosi di avere notizie sulla salute del professionista. Tra di loro c'è anche il commissario Wenzel per raccogliere le prime informazioni ai fini dell'indagine. Si tratta ovviamente di capire la dinamica dell'aggressione e quale possa esserne il movente. Dalle prime informazioni raccolte sul luogo sembra che a colpire alle spalle l'avvocato sia stato un uomo di media statura vestito da militare, che, percorrendo in bicicletta la strada, avrebbe incrociato il Boschi che camminava lungo il marciapiede posto sul lato della propria abitazione. Difficile non riconoscerlo: Boschi, per ripararsi dal freddo pungente di quella sera, indossa un cappotto arancione con un collo di pelo grigio chiaro e porta occhiali con lenti spesse. Lasciatolo proseguire, l'uomo sarebbe sceso dalla bicicletta abbandonandola appoggiata al muro, avrebbe raggiunto silenziosamente la sua vittima sferrando il colpo e poi, una volta risalito sul proprio mezzo, si sarebbe dileguato velocemente approfittando del fatto che in quel tratto la strada è scarsamente illuminata. Due le ipotesi su cui poter indagare: una vendetta professionale, la più plausibile, dal momento che l'avvocato Boschi viene descritto come “buono, generoso, aperto, senza odi e senza rancori”. Oppure il gesto di un pazzo. Un'aggressione “veramente inesplicabile su cui si spera di far luce il più presto possibile, e che avrebbe potuto avere conseguenze ben peggiori se la vittima non avesse indossato un pesante cappotto che valse a ridurre l'effetto del colpo”. 

Passano un paio di giorni e l'avvocato Boschi attraversa fasi alterne, fino a quando una notte viene colto da spasmi e muore alle 8,30 di giovedì 27 marzo a 56 anni di età, per l'aggravarsi del quadro clinico. Ma, nonostante tutto, l'indagine per individuare l'assassino non decolla. I funerali avvengono in forma civile e senza fiori con un lungo corteo che da via Tribunali, attraverso via Ponchielli, via Cavallotti, corso Campi e corso Garibaldi giunge al cimitero, dove avviene la commemorazione funebre. Tra i discorsi dei convenuti, uno, in particolare, pronunciato dall'avvocato Carlo Ottolenghi di Milano, fa riferimento agli “ideali della libertà, uguaglianza e fratellanza umana” coltivati dal Boschi,  che ne lasciano intuire l'appartenenza massonica. Nascosto tra quanti seguono il feretro vi è anche, in borghese, il commissario Wenzel, accompagnato da un gruppo di guardie. La salma viene poi tumulata il giorno dopo nel cimitero di Casanova del Morbasco. 

Per dare risposte all'emozione di tutta la città anche l'autorità giudiziaria inizia ad esercitare pressioni perchè venga individuato il colpevole del delitto e dalla Corte d'Appello di Brescia arriva anche un telegramma che raccomanda di accelerare il ritmo delle indagini. Di fronte alle sollecitazioni il commissario Wenzel commette, però, un errore: comunica al giornale la notizia, falsa, che per l'arresto dell'assassino, già individuato, è solo questione di ore. Ma trascorrono i giorni e non accade nulla, ed iniziano a circolare le voci più assurde: si dice che l'assassino non sia un soldato, ma una “dama del gran mondo” travestita per non farsi riconoscere, e si fanno varie ipotesi su chi possa essere la misteriosa donna con la conseguenza che, per associazione di idee, l'attenzione si fissa su tutte le donne che circolano in bicicletta, in realtà non moltissime, fino a quando non viene individuata una levatrice. Qualche anno dopo, alla morte di questa, si sussurra che la poveretta abbia confessato tutto al cappellano dell'ospedale. La leggenda metropolitana della donna assassina assunse una tale consistenza che ancora una ventina d'anni dopo se ne parlava. In realtà il commissario Wenzel aveva in mano elementi del tutto inconsistenti e sottovalutò anche quei pochi che avrebbero potuto condurre ad una pista: ad esempio il fatto che il misterioso assassino sarebbe stato appena intravisto da un passante mentre fuggiva verso via Ruggero Manna, o viale Po, dove sostava all'incirca da un'ora un'auto noleggiata a Piacenza, che ripartì a velocità sostenuta non appena vi era salito qualcuno proveniente dalla città.

L'avvocato Andrea Boschi aveva nel proprio studio anche un giovane praticante, che poi sarebbe stato nominato vice podestà, l'avvocato Adelchi Mazza che, tornato dal servizio militare nel maggio del 1919, volle riprendere le indagini dall'inizio. Ma, dopo anni di ricerche, il lavoro non approdò a nulla. Il delitto Boschi cadde nella dimenticanza e non se ne parlò più. Almeno ufficialmente, perchè in realtà le indagini proseguirono.

Rovistando tra le carte più recenti dell'avvocato scomparso, l'attenzione cadde su un processo per reato militare svoltosi presso il Tribunale di guerra di Cremona che aveva avuto un esito diverso da quello sperato dall'imputato, originario della Sardegna ma residente a Genova, che ne aveva attribuito la colpa al legale. Erano intercorsi una serie di incontri tra i due a Cremona, Firenze e Genova, ma si erano tutti conclusi in modo burrascoso con minacce di morte, alle quali Boschi non aveva dato alcun peso, tant'è vero che neppure in punto di morte, ma tuttavia lucidissimo, non ebbe mai alcun sospetto che potesse indirizzare le indagini. 

Tuttavia la pista battuta da questa inchiesta parallela, pur non portando prove assolute, iniziò a fornire alcuni indizi di una certa consistenza. Innanzi tutto vi furono un paio di persone, un noto psichiatra ed un agricoltore molto conosciuto, che fecero sapere confidenzialmente di essere in possesso di elementi tali da poter incriminare l'indiziato. Ma conoscendo il personaggio come un violento, e probabile mandante dell'omicidio, temevano di far la fine dell'avvocato Boschi e posero di conseguenza come condizione di parlare ma solo dopo l'eventuale arresto. Della cosa venne informata l'autorità giudiziaria che non potè intervenire, in quanto gli elementi forniti non avrebbero giustificato un mandato di cattura. Venne poi interessato l'onorevole Ettore Sacchi perchè venisse inviato a Genova un abile funzionario di PS che potesse raccogliere quegli elementi necessari all'inchiesta, ma la richiesta non ebbe risposta. 

Si pensò allora di coinvolgere nuovamente il commissario Umberto Wenzel, confidando nella sua cautela e nella necessaria discrezione. Wenzel tranquillizzò tutti: garantì che lui stesso in persona avrebbe assicurato l'assassino alla giustizia, poi fece un secondo, clamoroso errore. Quando gli arrivò un ordine di trasferimento a Gallipoli, che molti lessero come una punizione, anche se poi, come vedremo, la questione sarebbe stata risolta in  tutt'altro modo, Wenzel pensò di imbastire una grande operazione di polizia giudiziaria, una dei quelle che lo avevano reso famoso, convocando nel proprio studio il medico psichiatra, l'agricoltore ed altri al corrente del fatto, perchè fornissero la loro testimonianza. Ma, ovviamente, essi negarono tutto. Ed il fascicolo venne archiviato. Il presunto colpevole sarebbe scomparso a Genova molti anni dopo, intorno al 1945.

Fabrizio Loffi


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