Domenico, il Barbablu di Soncino (7)
Amava certamente le donne, Domenico Brambilla, ma in un modo del tutto particolare. Le amava talmente tanto da volerle tutte per sé, senza sentir ragioni. Anche a costo di ucciderle. Per questo, quando a 43 anni compare davanti alla Corte d'Assise di Cremona la mattina del 1 aprile 1948 con l'accusa di omicidio premeditato, tutti parlano di un nostrano monsieur Landru, il famoso serial killer francese condannato a morte il 22 febbraio 1922 per aver fatto sparire una decina di donne, lasciando come unica traccia un mucchietto di cenere nel camino del proprio villino di Gambais. Domenico, originario di Antegnate nel bergamasco, rischia l'ergastolo. E' accusato di aver ucciso il 6 maggio 1946, con un solo colpo di roncola sferrato alla gola, una ragazza di Soncino, la ventitreenne Pierina Borrini, che si era innamorata di lui. Poi un giorno la sventurata, sperando che il ragazzo che la stava corteggiando finisse finalmente per sposarla, aveva detto al Brambilla di volersi fidanzare. Lui, per tutta risposta, accecato dall'ira le aveva sferrato il colpo mortale. Era stato immediatamente arrestato.
Mentre è rinchiuso in carcere in attesa del processo, sfogliando le carte che lo riguardano si scopre il suo passato. Domenico Brambilla, pur non potendosi definire un uomo affascinante, è il classico tombeur de femmes. Da Antegnate, dove abitava nel 1935, si era trasferito a Milano, lasciando la moglie e due figli. Qui aveva conosciuto una giovane ragazza di vent'anni, una certa Bruna, domestica in un albergo, ed aveva intrecciato con lei una relazione. Ma la giovane, pur sentendosi attratta da quest'uomo, non disdegnava di ricevere altre attenzioni, cosi che un giorno commise l'imprudenza di farsi sorprendere dal Brambilla in atteggiamento inequivocabile con un altro. La poveretta non ebbe scampo, Domenìco estrasse un coltello e con un fendente la uccise.
Nel 1937 viene condannato dalla Corte d'Assise di Milano a 21 anni, con varie attenuanti. Il suo destino, in tempi normali, sarebbe segnato, ma arriva la guerra e Brambilla viene “sfollato” nel carcere di Parma dal quale, durante un bombardamento, riesce fortunosamente ad evadere fino a quando, nel 1944, viene catturato dai tedeschi che, scambiandolo per un detenuto politico, lo deportano in Germania, prima ai lavori forzati e poi nel lager di Mauthausen. Nell'agosto 1945, sopravvissuto al campo di concentramento, Brambilla riesce a tornare a Milano, dove conosce una ragazza, Anna Severi di 22 anni, la quale se ne innamora, corrisposta. Lei non sa, ovviamente, nulla del suo passato, così quando, stanca della relazione, gli dice che ha intenzione di lasciarlo, lui, adirato, la ingiuria e quando la ragazza gli risponde con due sonori ceffoni, Domenico estrae un affilato rasoio e la colpisce ripetutamente al viso e al collo, dandosi poi alla fuga.
Non viene rintracciato e si rifugia a Soncino in casa della sorella Maria, iniziando a frequentare i paesi vicini. Qui conosce un'altra ragazza, Pierina Borrini di 23 anni, che, manco a dirlo, se ne innamora. I genitori, però, sono assolutamente contrari a questa relazione in quanto la ragazza è già fidanzata e prossima alle nozze, ed insistono fino al punto di convincerla a troncare il rapporto con l'uomo. Pierina si reca all'ultimo appuntamento per comunicare a Domenico la sua decisione. I due si incontrano a Villacampagna, ma Brambilla ha con sé una roncola con la quale colpisce mortalmente la ragazza, poi si rifugia a casa della sorella, dove lo trovano i carabinieri che lo traggono in arresto.
La mattina in cui si tiene l'udienza in Corte d'Assise i cinque giudici popolari sfoggiano, la prima volta dopo tanti anni, la loro divisa con una fascia rossa a tracolla. L'imputato è tranquillissimo mentre il pm Gemelli snocciola la serie dei reati a cui si è aggiunta, nel frattempo, anche l'evasione dal carcere approfittando degli eventi bellici. Ma ci si accorge che nel banco della difesa non siede alcun avvocato ed il processo, dunque, non può iniziare. Nè Romita, né Pisapia, scelti dall’imputato, si sono presentati e, dunque, bisogna rintracciare al più presto un altro avvocato. L'ufficiale giudiziario inizia a percorrere su e giù i corridoi del palazzo fino a quando la scelta cade sull'avvocato Guarneri che, in tutta fretta, indossa la toga e si presenta in aula ma solo per invocare un incidente chiedendo il rinvio della causa, per avere il tempo materiale di studiare il caso, che indubbiamente è del tutto grave ed eccezionale. Chiede anche una perizia psichiatrica dell'imputato che, nonostante l'opposizione delle parti civili rappresentate dall'avvocato Foroni, viene concessa dopo una lunga riunione in Camera di Consiglio.
Brambilla viene inviato al manicomio di Castiglione delle Stiviere ed esaminato a lungo dal direttore dell'istituto Petrò, che conclude: “La facoltà di intendere e di volere nel Brambilla è grandemente diminuita, perciò egli merita le discriminanti consentite dalla legge. Però egli deve tuttora considerarsi individuo socialmente pericoloso”. Con questa perizia giudiziaria ci si presenta dunque alla nuova udienza. Nel frattempo Domenico Brambilla ha scritto una lettera al presidente del Tribunale in cui chiedeva di essere portato sul luogo dell'ultimo delitto e di essere immediatamente soppresso sul posto, perchè “chi uccide deve essere ucciso”.
Ci si ritrova dunque la mattina del 2 marzo. Domenico Brambilla “è un omettino alto poco più di un metro e mezzo, i capelli lisci, gli occhietti neri, acuti, mobilissimi, su un viso di un giallo cera, la fronte spaziosa – osserva il cronista – Deve soffrire per il freddo di questi giorni: è tutto chiuso in un soprabito scuro, con un collo di pelo di gatto, e in un maglione a chiusura lampo. E' in piedi, aggrappato alle sbarre della gabbia. Ha i pollici grossi e carnosi. I chirologi, dicono che sia la caratteristica peculiare dei predisposti all'omicidio”. Tra la folla sono numerose le ragazze, giunte incuriosite dal fatto di poter vedere, protette dalle sbarre, questo “Barbablu” nostrano in carne ed ossa di cui tutti parlano.
Mancano sette testimoni su dodici, comprese le due sorelle Borrini, Lucia e Maria, che si erano costituite parte civile. Il presidente Colace legge i capi di imputazione: omicidio aggravato dalla premeditazione, dai motivi futili ed abbietti, dalla latitanza. Domenico inizia a raccontare, fra le lacrime, la sua storia, inframezzando frasi in dialetto: “Non mi ricordo in che anno mi sono sposato ma ne sono già trascorsi molti. Con mia moglie non potevo andare d'accordo e l'ho dovuta lasciare. Erano nati due figli, ma non erano miei. Uno era figlio di mio padre; l'altro non so di chi. Però mi sono sempre interessato a loro, anche quando, per liberarmi da mia moglie, da Antegnate, nel bergamasco, mi sono trasferito a Milano ove appunto ho conosciuto la Bruna”. Poi, aggiunge “lei mi ha tradito e io sono stato condannato a 21 anni di reclusione”.
Racconta della detenzione a Parma, nel campo di Mauthausen, del successivo ritorno a Milano, dove conosce Anna Severi: “Non ho avuto nessuna relazione con lei. L'avevo conosciuta per mezzo di suo fratello ch'era mio amico. Un giorno stavo facendomi la barba, quando lei, non mi ricordo per cosa, mi prese a schiaffi. Dopo non ho saputo più niente di questo fatto”. Il presidente lo incalza chiedendo anche di una certa Lucrezia Taraschini conosciuta a Soncino, ma l'imputato spiega di averla semplicemente avvicinata un giorno. Poi racconta dell'ultima vittima, Pierina.
Gliela avevano presentata in un'osteria, e gli avevano detto che era una ragazza gentile e generosa. Poi per molti mesi non l'aveva più vista, fino a quando non si erano incontrati casualmente in osteria. Allora la scintilla si era accesa. “Più in lei che in me, perchè lei aveva proprio finito per innamorarsi. Io abitavo a Soncino, lei a Villacampagna. Un giorno insisteva perchè io andassi a trovarla. «Per che cosa?», le domandai, «Io non posso offrirti nulla». E lei mi rispose: «Vieni a trovarmi che ho io qualcosa da darti», però non mi fece mai nessun regalo”. Inizia la relazione, anche se Brambilla, vedendo che la ragazza gli si affeziona, teme per la propria tranquillità. “Tu sai cos'ho sulla coscienza – le dice – Pensaci due volte prima di innamorarti seriamente di me: E lei: «Non ci pensare. Io ti farò felice. Mia mamma non vuole, ma non importa niente. Andiamo a Milano. Ormai sono sulla bocca di tutti perchè il parroco ha parlato di me in chiesa»”.
Brambilla ammette che con quella donna si sentiva padrone del mondo. Sapeva che era fidanzata, ma anche che era stata in precedenza un po' vivace, e lei insisteva per andare a Milano a sposarsi, lui avrebbe preparato gli atti per le pubblicazioni. Poi accade l'irreparabile. Secondo il racconto di Brambilla, avrebbe convinto la ragazza a lavorare in filanda ed ogni mattina l'attendeva sulla strada e la sera ne aspettava l'uscita dallo stabilimento per riaccompagnarla a casa. Fino a quel 6 maggio 1946. Quel giorno a Villacampagna c'era la sagra e tanta gente in giro. Erano entrati in un'osteria dove erano rimasti a conversare una decina di minuti. Lei aveva ordinato un bicchierino di marsala, lui nulla, poi erano usciti ed imboccato una stradina secondaria. Racconta: “Ci siamo fermati a fare stupidaggini, poi, d'un tratto, lei mi disse: «E' venuto il mio fidanzato, ha detto che vuole sposarmi, tornerà fra due giorni per la risposta. Io fingo di stare con lui, invece andiamo insieme a Milano». Io le ho risposto: «Tu sei necessaria ormai alla mia vita». Qualche ora dopo i carabinieri sono venuti a prendermi a casa di mia sorella”.
Il presidente chiede di sapere come abbia ucciso la ragazza e Brambilla dice di non ricordarlo, di portare con sé una roncola perchè abituato a far legna ogni giorno. Il presidente chiede se è vero che pochi giorni prima le avesse inviato una lettera con la minaccia di ucciderla se l'avesse lasciato, lui nega, poi ammette di averla uccisa perchè “mi aveva dato del cretino, dell'imbecille, dell'ignorante...”. I testimoni non aggiungono molto alla vicenda: Giovanni Preda, uno dei carabinieri che l'avevano arrestato, racconta che Brambilla, una volta in caserma, avrebbe detto di aver ucciso “in un momento di follia, perchè lei non voleva più saperne di lui”, il maresciallo Domenico Zurlo, dice che al momento dell'irruzione nella casa della sorella “lui era nella sua camera. Stringeva ancora in mano la roncola insanguinata. Allora io gli puntai contro la rivoltella e gli ordinai di gettar per terra l'arma: temevo volesse servirsene contro noi. Lui obbedì subito, senza opporre nessuna resistenza”. La gente avrebbe voluto linciarlo.
All'indomani del processo, mentre attende la sentenza in carcere, Brambilla scrive una lettera al giornale “La Provincia” su concessione speciale della direzione. E' preoccupato del fatto che, in seguito alla cronaca del processo, qualcuno potrebbe essere indotto a mettere in discussione le sue qualità di conquistatore: “Ho seguito la cronaca del mio processo riferita dal vostro giornale – scrive – Ho notato che siete incorsi in errore quando avete riferito che probabilmente non uscirò più di prigione, dovendo scontare oltre la pena inflittami da questa Corte di Assise, altri 13 anni per una condanna passata. Ciò è assolutamente falso. Pregherei dunque codesta Direzione a voler rettificare la cosa e, nello stesso tempo, a smentire la voce che mi fu detto abbia a circolare, che il sottoscritto non sia un uomo normale, ma un essere invertito o peggio”.
La mattina di venerdì 8 aprile i carabinieri si presentano alla porta del carcere per condurre Domenico Brambilla a San Vittore e da lì alla casa per minorati fisici e psichici di Saluzzo, in quanto il Ministero di Grazia e Giustizia ha voluto tener conto della perizia giudiziaria che ne attesta la seminfermità mentale. E Brambilla può tirare un sospiro di sollievo: almeno non è finito a Portolongone, in compagnia di Antonio Humbatov e Guido Acerbi. E poi Saluzzo è sempre meglio di un penitenziario, ma di certo non è come a Castiglione delle Stiviere, dove in manicomio aveva potuto intrecciare una piccola avventura sentimentale. Un'altra ancora. Inguaribile Barbablu.
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