5 settembre 2021

47, morto che parla. Il delitto del Costarica (16)

Palmiro Bergamaschi era un commerciante molto noto in città, anche se conosciuto non con il suo vero nome, ma come “quello della natta”, dall'escrescenza che gli si era formata sul capo, in dialetto chiamata appunto “natta”. Molti anni prima aveva aperto una salumeria all'inizio di viale Po sulla destra, dove già era sorto un primo gruppo di case ma non vi era ancora alcun tipo di attività commerciale. Si era rivelato un buon affare ed i guadagni dovevano essere stati cospicui se Bergamaschi, qualche anno dopo, aveva ceduto la salumeria e rilevato la tabaccheria all'angolo fra via Armando Diaz (oggi Mercatello) e corso XX Settembre, una piccola bottega senza pretese e scarsa per offerta commerciale, che Bergamaschi in poco tempo era riuscito a trasformare aggiungendo al reparto tabacchi la drogheria ed un vasto assortimento di dolciumi. Trascorse qualche anno e Bergamaschi si lanciò in una nuova avventura e rilevò un negozio libero con sovrastante appartamento in corso Garibaldi 192. Avrebbe voluto aprire una salumeria, ma stavolta compì un passo falso, e d'altronde non poteva prevedere che a pochi passi di distanza avrebbe aperto un analogo negozio delle Cooperative. Tuttavia non si perse d'animo, ed ebbe un'idea. Vide che nella zona non vi era alcuna torrefazione di caffè, si mise d'accordo con alcuni importatori ed affidò ad alcuni tecnici il compito di ristrutturare completamente l'esercizio rendendolo più accogliente: insegna di marmo illuminata, pareti rivestite in pietra pregiata, pavimento palladiano, illuminazione all'ultima moda ed una saracinesca a larghe maglie di metallo che si avvolgevano negli spazi ricavati sui due lati dell'ingresso per proteggere la grande vetrina. Era “Il Costarica”, uno dei negozi più famosi di Cremona alla fine degli anni Cinquanta.

Se nell'arredare il nuovo esercizio Bergamaschi aveva dimostrato di essere attento alle ultime novità della moda, viceversa nell'abitazione sovrastante il tempo si era fermato all'Ottocento: dal negozio si passava al retrobottega e mediante una stretta scala interna con ripidi gradini si saliva ad un piccolo pianerottolo e con una seconda rampa si arrivava al secondo piano dove c'era la camera da letto, il bagno ed una piccola anticamera. Nella stagione invernale, però, per risparmiare combustibile, Bergamaschi, chiuso il negozio, si fermava al primo piano, dove l'unica stanza, utilizzata sia come salotto che camera da letto, era riscaldata da una stufa a metano. L'arredamento era in perfetto stile ottocentesco: un unico tavolo rotondo sorretto da un grande piede con due cassetti, un ètagére chiuso da cristalli pieno di pezzi in maiolica, alcuni di un certo valore, un buffet con sportelli e alzata, un grande specchio, una poltrona con alcune sedie in tappezzeria a strisce avorio ed azzurro, un divano letto dello stesso colore. In terra un grande tappeto persiano, appeso al soffitto un grande lampadario in vetro di Murano. Alle pareti alcune stampe, quadri, fotografie di famiglia. 

E' in questo ambiente raccolto ed ovattato che, la mattina del 4 marzo 1957, viene scoperto uno dei più efferati delitti mai compiuti fino ad allora in città, che richiama alla memoria il delitto della Tortorella di tanti anni prima.

E' mattina quando la signora Anna Camozzi, che ha un negozio di prestinato accanto al “Costarica”, esce per acquistare alcuni casalinghi al negozio “Piatti volanti” al numero 196 di corso Garibaldi, e racconta al titolare Andrea Bertoli di aver notato ancora abbassate le saracinesche della torrefazione. Un fatto insolito che non può sfuggire all'attenzione dei vicini, in quanto Palmiro Bergamaschi è un uomo estremamente metodico: si alza ogni mattina alle 7 e prima delle 8 è già al caffè Tati, quasi di fronte al suo negozio, poi si reca all'edicola di piazza San Luca per acquistare il giornale ed entro le 8,10 apre regolarmente la saracinesca della torrefazione. Ma quella mattina non l'ha fatto. Anna Camozzi ne parla anche alla fruttivendola Anna Sandria e tutti e tre decidono di uscire in strada dove nel frattempo, davanti alla saracinesca chiusa, si è assiepata una piccola folla di clienti allarmati in attesa e di passanti incuriositi. Ci si interroga sui motivi della chiusura, quando ecco transitare sul corso Ernesta Bergamaschi Molinari, sorella di Palmiro e di tredici anni più anziana, l'unica che può fornire una spiegazione: si reca ogni giorno a casa del fratello scapolo sia per tenere in ordine l'appartamento che per preparagli il pasto di mezzogiorno ed è lei a far regolarmente la spesa ogni mattina. Dalla piccola folla qualcuno la richiama invitandola ad affrettarsi ed Ernesta, preoccupata da quell'assembramento, allunga il passo e, col fiato ancora grosso, domanda cosa sia accaduto. Le chiedono se ha notizia del fratello, se, magari, Palmiro sia partito senza lasciar detto nulla. E' lunedì ed Ernesta dice di non veder Palmiro dal sabato precedente, ma di non essere informata su una sua decisione di assentarsi. Osserva attentamente la saracinesca e nota che non è chiusa, ma solo accostata, ed è sparito un supporto snodabile in metallo destinato ad ospitare un lucchetto di rinforzo alla serratura, che il fratello aveva acquistato qualche giorno prima dicendo, in questo modo, di sentirsi più tranquillo. Parole che ora risultano profetiche. 

Qualcuno, sgomento, nota ora che qualche maglia della saracinesca è imbratta da un liquido che sembra essere sangue, ed altre macchie rossastre vengono rintracciate sui vetri e sulla maniglia della porta. L'ansia aumenta, mescolandosi alla curiosità morbosa del piccolo gruppo raccolto attorno ad Ernesta che, scostata la saracinesca ed aperta la porta vetrata, entra con altri curiosi nel negozio: il pavimento è cosparso di numerose impronte rossastre ed altre gocce purpuree lo macchiano in diversi punti. In preda all'angoscia Ernesta sale ansimante i gradini, chiazzati di rosso, della piccola rampa di scale che porta alla camera del primo piano e, ancora prima di varcare la soglia, lancia un urlo agghiacciante: Palmiro giace seminudo sul lettino con un grosso coltello conficcato nella testa. E' coperto di sangue ed il corpo è ricoperto solo da una maglietta e dalle calze, adagiato sul fianco sinistro con il capo e le gambe protesi di fuori. Nella stanza è tutto sottosopra: i cassetti sono rovesciati sul tavolo, sul tappeto, ammonticchiati per terra, tutt'intorno scatole di biscotti, libri, bottiglie rovesciate, un piatto con avanzi di carciofi, due tazzine da caffè e un bicchiere disposti su un vassoio d'argento, alcuni indumenti sparsi. 

Qualcuno esce in strada e telefona alla polizia. Pochi minuti dopo giungono gli agenti della squadra mobile con il comandante Gagliardi e il maresciallo Maneo, arriva anche il sostituto procuratore della Repubblica Ciambi accompagnato da un cancelliere per i rilievi di rito ed i primi interrogatori dei testimoni. Le indagini proseguono tutto il giorno, ma resta un enigma. Quanti sono stati gli assassini? Infatti quella notte, per compiere l'omicidio, sono stati usati diversi coltelli, ognuno differente dall'altro: tre di questi sono deposti sul tavolo rotondo, due con la lama ed il manico macchiati di sangue, ed il terzo invece perfettamente pulito. Un altro, di grandi dimensioni, è conficcato nel cranio della vittima. I coltelli vengono riconosciuti dalla sorella come appartenenti alla dotazione domestica. Si tratta di capire come si siano svolti i fatti: i tre assassini si sarebbero avventati sul Bergamaschi utilizzando le stesse armi trovate in casa? Oppure gli aggressori erano due e lo stesso Bergamaschi, a sua volta, avrebbe tentato di difendersi con un coltello? Oppure la lotta sarebbe avvenuta tra l'assassino ed il Bergamaschi che, a sua volta, l'avrebbe ferito, come dimostrerebbero le tracce di sangue sulle scale e nel negozio? E come, e a che ora, gli assassini si sarebbero introdotti nell'abitazione del Bergamaschi?

Bergamaschi, pur essendo facoltoso, non teneva in casa denaro contante, se non quello necessario alla normale amministrazione, ed ogni giorno incaricava la propria commessa Luisa D'Auria di depositare gli incassi del negozio in banca. La commessa prestava servizio ogni giorno dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 19,30 interveniva in aiuto la nipote Elsa Molinari. I versamenti, però, non venivano effettuati il sabato perchè gli sportelli bancari chiudevano a mezzogiorno, ed è dunque possibile che la vittima potesse avere in casa una certa somma della quale l'assassino, che probabilmente Bergamaschi conosceva, era al corrente. Tra i parenti che vengono sentiti c'è anche il fratello residente in via Ghinaglia, chiamato “Giotto” per la sua professione di imbianchino, la cui figlia ha sposato un certo Gianprimo Manara, operaio della Stipel di Crema. Un matrimonio inizialmente inviso al Bergamaschi, che successivamente sarebbe invece diventato grande amico del Manara, al punto da trascorrere le domeniche insieme, come era avvenuto anche il giorno precedente la scoperta dell'omicidio. Bergamaschi quella domenica aveva bevuto un caffè col Manara, si era recato a casa di quest'ultimo per il pranzo, poi insieme erano andanti al Supercinema e finito lo spettacolo, verso le 18,30, erano andati a casa del Bergamaschi restandovi fino alle 20, per poi uscire nuovamente recandosi al Politeama e rientrare nell'appartamento di corso Garibaldi verso le 22,30 per cenare con un tazza di brodo e dei carciofi. Verso le 23,30, come di consueto, il Bergamaschi aveva accompagnato fino all'angolo tra via Ghinaglia e piazza Risorgimento il marito della nipote, per poi tornare a casa propria, come aveva testimoniato un addetto alle filovie che lo aveva riconosciuto e salutato.

A questo punto inizia il mistero. Andrea Bertoli, proprietario dei “Piatti volanti” afferma di essere stato svegliato verso le 3 di notte dal suono del campanello vicino alla propria casa, ma di aver pensato allo scherzo di qualche ragazzo, e, dopo un po' di tempo, di essersi riaddormentato senza aver udito altri rumori. Era forse l'assassino che, credendo di suonare il campanello di Bergamaschi, accortosi dell'errore, era poi passato alla casa vicina? Di certo la vittima conosceva il suo assassino al punto tale da avergli aperto la saracinesca o, forse, di avergli lanciato le chiavi per farlo, ed averlo accolto in casa praticamente svestito. Ed inizia a circolare un sospetto: “Tutti sono concordi nel dipingere il Bergamaschi come un galantuomo esemplare – osserva il cronista de “La Provincia” - come una persona dalla vita adamantina. Ma vi sono anche tante voci che circolano in molti ambienti; voci che prospettano la possibilità che questo uomo vivesse (per dirla con un termine di moda) una 'doppia vita'; e che celasse con somma cura i suoi affari intimi proprio per non suscitare pettegolezzi ed essere sempre circondato da un alone di rispettabilità. In ambienti equivoci del genere, molte e molte volte, in altre città ed in altri continenti, sono avvenuti turpi delitti; e i particolari di questo di corso Garibaldi, si inquadrerebbero perfettamente in questo ambiente. Che alla polizia siano pervenute voci del genere, pare accertato dal fatto che ieri sono state interrogate alcune persone, fra le altre, il cui sistema di vita è molto discusso non si può dire, naturalmente, con quale fondamento. Ma si deve subito aggiungere, che le molte voci che correvano ieri in città , sono completamente infondate e che nessuna persona, più o meno conosciuta, è stata neppure 'fermata'. Interrogatori, e basta. Interrogatori per tentare di giungere ad accertare quali compagnie il Bergamaschi effettivamente frequentasse; e, particolarmente – aggiunge il cronista – quali uomini di queste compagnie; e ciò nella speranza che, selezionando questi elementi, possa rimanere qualcosa di solido su cui appoggiarsi”.

Il delitto viene subito definito “torbido”. L'autopsia effettuata sul cadavere dal dottor De Jaco rivela che l'assassino si è accanito particolarmente sul volto della vittima, come colto da un raptus, altre ferite hanno interessato il petto, un fianco, la mano destra. Viene escluso che possa trattarsi di un cremonese, ma solo perchè “non si può ritenere che fra noi vi sia una persona così efferata, che commetta un simile delitto”, come è “assolutamente da escludere che persone che frequentanti gli ambienti ch'erano cari al Bergamaschi, celino assassini di tal fatta”. E' lo stesso cronista che, di fronte alla difficoltà incontrate nelle indagini dagli inquirenti cremonesi, candidamente afferma che “sin da ora non sarebbe da escludere che il delitto finisse col restare impunito”. Ci si lancia allora nell'ipotesi che ad attendere il Bergamaschi sotto casa al suo rientro la domenica sera vi fosse qualcuno venuto fuori, che lo aveva cercato durante l'intera giornata ed avesse deciso di aspettarlo, e che il campanello suonato nell'abitazione vicina fosse effettivamente lo scherzo di qualche ragazzo al punto da “pregarlo di volersi apertamente confessare: non gli capiterà proprio niente di male e avrà contribuito a chiarire un punto oscuro”. Ci si avventura in ricostruzioni fantastiche: gli assassini diventano due, poi tre. Si parla di un'auto con targa straniera in attesa che avrebbe ospitato l'assassino, o gli assassini, in fuga, di cui uno ferito in quanto il Bergamaschi avrebbe ingaggiato una lotta furiosa con i suoi assalitori. Lo stesso commerciante da facoltoso, risulta improvvisamente ridotto sul lastrico e costretto a ricorrere a cambiali nei pagamenti, nonostante i lauti guadagni fatti con la vendita dei precedenti negozi e con la torrefazione che, a detta dei bene informati, gli avrebbe reso anche centomila lire al giorno.

Dove sono finiti tutti quei soldi? La spiegazione, a lungo adombrata, diventa subito chiara e l'immagine di Bergamaschi va in pezzi: “Probabilmente nella vita del Bergamaschi vi era un mistero; probabilmente l'onorabilità che lo circondava non era che un involucro entro il quale amava rinchiudersi proprio per nascondere (ma ci riusciva assai relativamente) i particolari della sua vita intima. Un vita che può essere assai costosa, perchè intorno a queste persone pullulano una quantità di sfruttatori che vivono esclusivamente alle loro spalle. Sono degli sciagurati che speculano su certe tendenze, che vivono la loro vita oziosa ricattando e minacciando. Bergamaschi, ornai da anni doveva essere entrato nel giro di questi ricatti; e a persone di fiducia che anche recentemente gli chiedevano dove mai avesse investito il molto denaro che doveva avere, rispondeva evasivamente che aveva fatto dei prestiti. Ma Bergamaschi, non era un usuraio; era sicuramente un uomo buono e generoso, largo nel beneficiare; ma era anche la vittima di una losca genìa che lo teneva avvinto. Non prestiti faceva; ma, con ogni probabilità, pagava ricatti vessatori. Tanto gravi a ridurlo, lui, tranquillo commerciante dalla liquidità sicura, quasi sull'orlo della rovina”. 

Nel corso dell'interrogatorio Manara afferma di non aver visto durante l'ultima sosta in casa dello zio alcun coltello deposto sul tavolo e di avere trovato la stanza, come al solito, in disordine, con tanti oggetti accumulati sul tavolo e sul pavimento. Nel corso di un altro sopralluogo viene trovato in casa l'incasso della giornata, circa centomila lire. Per un momento si crede anche di aver trovato una traccia, quando viene rinvenuto un soprabito di lana grigia a spina di pesce ed alcune cravatte, che poi si rivelano essere proprietà della vittima. Viene interrogato anche un altro nipote, Luciano Bergamaschi, figlio del fratello “Giotto”, che non è in grado di fornire alcun aiuto nelle indagini. Si sente anche un altro frequentatore del commerciante, un rappresentante di coloniali con cui da due anni intratteneva un'amicizia. Nulla. Si viene a sapere che Bergamaschi faceva frequenti viaggi a Milano e Bologna e, proprio a conclusione della seconda giornata di indagini, si diffonde la notizia del fermo a Milano di un cremonese, amico intimo della vittima, che sarebbe stata vista in sua compagnia alcune ore prima del delitto. Ma è l'ennesimo bluff. Come tanti in questi giorni. Il cremonese, certo Giuseppe Maldotti, non è in grado di fornire alcun elemento utile alle indagini. Alla ricerca disperata di un colpevole si punta il dito anche contro i profughi alloggiati nell'ex caserma La Marmora, seguendo le tracce di un giovane che sarebbe scomparso dalla città proprio la giornata del delitto. Ma anche questa notizia viene smentita. Regna la rassegnazione. Non resta che tentare ancora su due fronti: capire se qualcuno sia ricorso a qualche ospedale o dottore per farsi curare una ferita da coltello alla mano, tentare di identificare le telefonate giunte al Bergamaschi da altre città. La Procura chiede allora i registri alla Stipel, perchè dai ripetuti interrogatori della commessa del negozio emerge che Bergamaschi aveva dato ordine di non rispondere al telefono e quando questo squillava, lui interrompeva qualsiasi cosa stesse facendo e correva a rispondere, dopo aver chiuso accuratamente la porta per non farsi ascoltare. 

Cadono ad una ad una tutte le ipotesi e cambiano le ricostruzioni. Nessun assassino sarebbe rimasto ad attendere Bergamaschi sotto casa, ma sicuramente una persona nota alla vittima, giunto col preciso intento di ucciderlo, portando con sé anche l'arma del delitto, il grosso coltello. Che si sarebbe lavato anche le mani in bagno, e cambiato d'abito, prima di uscire e salire su un'auto pronta ad attenderlo, forse targata Parma.

Al terzo giorno di ricerche si brancola totalmente nel buio. Non si trova il colpevole, ma in compenso fanno affari d'oro le ricevitorie del lotto, al punto da essere costrette a nuovi rifornimenti di bollettari. Ed il dramma si trasforma in farsa. Si viene a sapere che Palmiro Bergamaschi era un appassionato “cabalista” e molti si rivolgevano a lui per avere numeri “buoni” da giocare in occasione di qualche sogno particolare. Ed i numeri da lui suggeriti uscivano regolarmente facendo realizzare grosse vincite. Ad esempio quella settimana, in sua memoria, vengono giocati due terni: 4, 51, 62 e 19, 20, 43. Il conto è presto fatto: 4 è il giorno del delitto, 51 l'età della vittima, 62 nella “smorfia” è il morto ammazzato. E la febbre non si placa. E' un'intera città che gioca: 15 mila giocate, con gli orecchi puntati alla radio in attesa dell'estrazione. E un ambo del “mago”, 51 e 62, esce davvero sulla ruota di Milano. La gente sembra impazzita, con buona pace del Bergamaschi: folla nelle ricevitorie e solo un piccolo, mesto corteo ad accompagnare il feretro dalla chiesa del Foppone al cimitero. Le indagini si spostano a Parma, intanto che la città festeggia: “Le case dei titolari delle Ricevitorie, sono state subito assediate da una piccola folla, ansiosa di sapere a quanto potevano ammontare le singole vincite. I ricevitori hanno dovuto far sfoggio di pazienza per accontentare tanti richiedenti. E' da notare che questa è la prima volta che a Cremona viene fatta una vincita collettiva di tanta vastità. Molti biglietti, non hanno totalizzato che 4000 lire; ma tanti e tanti altri, hanno realizzato vincite che vanno dalle 40 alle 80.000 lire. Ma si sa che vi sono persone che anno vinto 100.000 lire; ed altre che hanno avuto più fiducia nella sorte (si parla di due o tre) che hanno vinto mezzo milione. Un calcolo preciso non potrà essere fatto che domani; però i competenti dichiarano che il monte delle vincite nella sola nostra città ammonta ad almeno 60 milioni. Altre notevolissime vincite sono avvenute in altre città, in quanto il Corriere della Sera aveva pubblicato quei numeri accendendo le speranze di moltissimi giocatori”.

L'attenzione si sposta dalle indagini sul delitto, che proseguono infruttuose, alle curiosità cabalistiche: “Vi sono stati molti giocatori che, anziché giocare i terni proposti, hanno formato varie combinazioni con i numeri componenti, terni stessi. Molti appassionati, quindi, hanno puntato anche sulla combinazione 20, 51, 62, realizzando così dei terni di ingente entità. VI sono stati dei giocatori che sono andanti anche più in là, ed hanno puntato sulla quaterna, aggiungendo al 20 (il numero delle ferite) anche il 34, che, secondo la cabala, corrisponde a 'ferite alla testa'. Ebbene, i primi quattro numeri estratti per la ruota di Milano sono proprio quei quattro”- Nella ridda di ipotesi sull'assassino del commerciante, con le indagini che si spostano a Mantova e poi ancora in Veneto alla vana ricerca di un colpevole, una sola cosa è certa: i cremonesi, dimenticato Bergamaschi, per qualche settimana continuarono a giocare al lotto i suoi numeri.

 

Fabrizio Loffi


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