4 ottobre 2021

Una notte di mezza estate in via Oberdan (20)

La sera del 26 agosto 1946 dopo aver trascorso come al solito la serata al bar Olimpia, verso le 23 Alfredo Gerevini sta rincasando diretto alla propria abitazione in via Bembo quando, giunto all'altezza dell'incrocio tra via Oberdan e via Bembo, viene raggiunto da un ciclista che gli spara contro tre colpi di pistola di grosso calibro, uccidendolo. Alcuni passanti, accorsi sul posto richiamati dagli spari, dicono di aver scorto il ciclista in fuga, vestito con calzoni grigio chiari e giacca turchina. Vengono di conseguenza fermate numerose persone fino a quando l'attenzione cade su un certo Leonardo Dossena, sebbene a suo carico non sia emerso alcun indizio sostanziale di colpevolezza. Dossena, fattorino all'Anpi, qualche giorno dopo il fatto viene arrestato nonostante si sia professato fin da subito innocente, e, annunciato da titoli bene in evidenza sul giornale, l'11 dicembre del 1947 inizia il processo, con cinque testimoni a carico dell'accusa e ben trenta per la difesa. 

Il pubblico è quello delle grandi occasioni: si costituisce parte civile la vedova Rosa Pintoni, assistita dall'avvocato Gianfranco Groppali, pubblico ministero è Gemelli, mentre la difesa dell'imputato è affidata agli avvocati Ebbli e Capparone. Dossena siede tranquillo, anche se emozionato, in un angolo della gabbia. Interrogato, conferma tutte le deposizioni sottoscritte in Questura: non ha ucciso nessuno, non sa nulla del delitto, di cui ha letto i particolari solo sul giornale del 28 agosto dell'anno prima, non conosceva Gerevini e quella sera non era neppure dalle parti di via Palestro. Ad accusarlo è un ragazzo ventitreenne, Francesco Grioni, che, in un'interrogatorio reso ai Carabinieri il 29 agosto, aveva detto di averlo riconosciuto come il fattorino dell'Anpi, dove si era recato qualche tempo prima. Dossena conferma nell'udienza di aver posseduto una pistola “Beretta” di piccolo calibro e di averla permutata con un'altra di calibro 9 prolungato, poi venduta ad un agente di PS, dopo essere stato dimesso dal corpo e non aver avuto il rinnovo del porto d'armi. Spiega che nel corso di un confronto avvenuto nel cortile della caserma dei Carabinieri è caduto dalla bicicletta, dove lo avevano fatto salire, perchè indebolito, sia a causa del cattivo stato di salute precedente l'arresto, sia per il fatto che nei primi giorni di detenzione, non potendo mangiare, era stato nutrito con un sondino. Spiega anche di portare gli occhiali da cinque o sei mesi per riposare la vista, ma di non averli indossati al momento del confronto con il giudice istruttore. La versione è confermata da un certificato medico presentato dalla difesa in cui si certifica che l'imputato è affetto da congiuntivite.

Inizia la sfilata dei testimoni. Prima è la vedova dell'ucciso, che racconta di non sapere se il marito avesse qualche relazione extraconiugale, ma di non esserle sembrato turbato negli ultimi giorni, nonostante il suo carattere abitualmente chiuso. Tocca poi a Ludovico Gosi, l'ultimo ad aver visto Gerevini quella sera, che spiega di essere stato con la vittima prima al bar Giardino e poi di averlo accompagnato verso le 23 al bar Olimpia, prima di salutarlo. Aggiunge che in effetti vi fosse qualche somiglianza, almeno di struttura fisica, tra il morto e il fratello Antonio, che durante il fascismo aveva ricoperto alcune cariche. Sfila poi Antonio Buccellati, quella sera fermo con altri ragazzi all'angolo tra via Oberdan e corso Garibaldi, che con le loro testimonianze avevano portato Dossena in carcere. Racconta che, mentre stavano parlando tra di loro, avevano sentito tre colpi di pistola, pensando in un primo momento che si trattasse di castagnole, ma mezzo minuto dopo avevano visto un ciclista con giacca turchina, calzoni chiari, capo scoperto e pettinatura all'indietro sbucare lentamente da via Oberdan, mantenendo un comportamento eretto. Segue la deposizione più attesa, quella di Francesco Grioni che, messo a confronto con Dossena per effettuare il riconoscimento, sbotta: “Come faccio a riconoscerlo, dopo due anni?”. Il pubblico rumoreggia. L'avvocato di parte civile insiste: “Quando faceste il riconoscimento nella Caserma dei Carabinieri, non eravate sicuro che fosse lui?”. “In quella occasione anche i carabinieri hanno tirato l'acqua al loro mulino”, risponde Grioni provocando la reazione dell'avvocato Capparone che viene ridotto al silenzio. 

Vengono ascoltati gli amici di Leonardo. Uno di essi, Antonio Giussani, racconta che quella sera erano tutti in bicicletta, e dopo aver ascoltato un comizio di Giuseppe Speranzini, si erano recati in viale Po ma, giunti all'altezza del ponte sul Morbasco, avevano deciso di tornare indietro fermandosi a guardare i cartelloni del cinema Enic (l'attuale ex Tognazzi), si erano fermati un quarto d'ora in piazza Roma, per poi dirigersi in via Anguissola davanti al cinema Italia e proseguire su corso Campi fino ai cartelloni dell'arena Giardino in via Antico Rodano, per poi dirigersi fino al Supercinema in via Palestro, dove si erano fermati un'altra decina di minuti. A quel punto gli amici si erano dispersi tra la folla che usciva del cinema e Giussani aveva rivisto Dossena poco dopo in via Goito. Ma in una dichiarazione precedente aveva invece detto che Dossena si era allontanato da solo. Quale la verità? “Sconfesso recisamente la deposizione del 7 settembre- dice il giovane – Ho firmato sotto pressione dei carabinieri dopo un interrogatorio durato oltre due ore, e sotto la minaccia d'essere arrestato a mia volta”. Nuovo rumoreggiare nell'aula. A questo punto viene chiamato a deporre il maggiore dei Carabinieri Antonio Di Dato, il quale precisa che il verbale contestato era stato steso dopo le dichiarazioni di Giussani, che, per sua stessa ammissione, non dormiva da quattro giorni “per il gran pensiero”. Lo stesso Dossena, però, aveva già dichiarato precedentemente di non essere mai stato davanti al Supercinema. Non resta che sentire un altro del gruppo che aveva visto il ciclista sbucare da via Oberdan, ma Federico Massera dice solo che il suo amico Grioni la sera stessa gli aveva confidato di aver riconosciuto il fattorino dell'Anpi, ragion per cui gli amici, il giorno successivo, lo avevano sollecitato a presentarsi ai Carabinieri. Grioni, richiamato in aula, aggiunge che, qualche giorno dopo il fatto, si era recato all'Anpi per trovare conferma ai suoi sospetti e si era rafforzato nella sua convinzione.

Gli altri amici non sono in grado di fornire ulteriori elementi. Vengono ascoltati altri testimoni, ma non si approda a nulla. Manca un elemento che possa fare propendere per una ipotesi piuttosto che per quell'altra. E si decide di aggiornare l'udienza al giorno dopo. Sfilano otto soci della Cooperativa Martiri della Libertà di via XI Febbraio che dichiarano di aver visto Dossena quella sera verso le 23 assistere ad una gara di bocce e che l'imputato “è sempre stato un ottimo operaio (ha esercitato la professione di sellaio), che per arrotondare i proventi familiari si assoggettava a lunghe ore di lavoro serale, che durante il periodo cospirativo fu un fervoroso combattente per la Libertà”. Per l'accusa viene ascoltato il medico capo del Comune Danilo Boari, che era intervenuto, chiamato dai Carabinieri, al momento della famosa prova in bicicletta nel cortile della caserma e che, nel suo verbale, aveva parlato chiaramente di simulazione di un malore. La difesa chiede un incidente probatorio, ma la richiesta viene respinta. Nel frattempo aumenta il pubblico, che sente avvicinarsi il momento della sentenza. E' l'avvocato di parte civile Groppali che pronuncia per primo la sua arringa, concludendo che “purtroppo, oggi i valori morali sono tanto in ribasso che quello ch'è lo stesso principio fondamentale della civiltà, e cioè la santità della vita dell'uomo è pressochè obliato. Forse Dossena non è stato che una mano armata; forse egli s'è lasciato indurre al gesto feroce da letture di eventi analoghi avvenuti altrove”. Ma per la parte civile non vi è dubbio sulla sua colpevolezza. Da qui la richiesta alla Corte del pieno riconoscimento della sua responsabilità. Il difensore Capparone, invece, mette in discussione il riconoscimento del presunto assassino fatto dal Grioni e chiede la piena assoluzione.

L'ultima seduta si apre la mattina del 14 dicembre 1947 con la requisitoria del pubblico ministero Gemelli, che, dopo aver ricordato “che una delle libertà proclamate nel corso della guerra, era proprio la libertà dalla paura”, si chiede se “sono stati scevri dalla paura alcuni dei testimoni? O, piuttosto, non hanno modificato le loro primitive versioni perchè colti da qualche sentimento di timore?”, ritenendo dunque veritiere le prime deposizioni effettuate davanti ai Carabinieri. “Il dottor Gemelli – prosegue la cronaca del processo – ha minuziosamente esaminato le risultanze processuali, traendone illazioni a carico dell'imputato; ha affermato che la vita civile deve riprendere e che i cittadini debbono sentirsi sicuri di poter circolare liberamente ad ogni ora, senza che l'insidia sia alle loro spalle”. La richiesta del PM è di condannare Dossena a 24 anni di reclusione per omicidio volontario, escludendo solo l'aggravante della premeditazione. L'avvocato Capparone difende l'imputato, non individuando né le prove, né tantomeno il movente dell'eventuale delitto: “Ammesso il principio che il Dossena fosse colpevole, come poter escludere la complicità delle quattro persone che in quella tragica sera erano in sua compagnia? Ed escludendolo, come pensare che il Dossena si sia macchiato di tale delitto?” e chiede la sentenza di assoluzione piena. La Corte si ritira in camera di consiglio. Dopo quaranta minuti, ed un contrattempo dovuto all'improvvisa assenza del pubblico ministero, arriva il verdetto: “Dossena è assolto...”, il presidente non riesce a concludere la frase, interrotto dall'applauso del pubblico che grida “Viva la giustizia!”. Il presidente scampanella vivacemente per ottenere il silenzio ed aggiunge “..per insufficienza di prove”. Ma il pubblico, dopo un istante di disorientamento, grida “Per non aver commesso il fatto”, e “Cassazione!”. La Corte si ritira, gli amici si stringono intorno alla gabbia dove è richiuso Dossena, che ride. Dopo oltre un anno trascorso in carcere, l'incubo è finito. Il delitto Gerevini resta senza un colpevole, e il caso non verrà riaperto, nonostante Dossena, in un primo tempo, volesse ricorrere in appello per ottenere l'assoluzione con formula piena. Di fatto da quel momento le sue tracce si perdono e corre voce che, dopo il processo, sia emigrato in Cecoslovacchia.

 

Fabrizio Loffi


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