27 settembre 2021

Lo strano caso del sepolto in piedi (19)

E' la mattina del 22 marzo del 1947 quando i Carabinieri di Montodine, grazie probabilmente ad una “soffiata”, si recano in un campo della località Dosso Martino nel comune di Moscazzano muniti di una sonda a forma di freccia. Iniziano a perlustrare meticolosamente il terreno fino a quando la sonda estrae quello che si crede un elastico. Si scava fino a quando emerge il cadavere di un uomo, ormai quasi decomposto, sepolto in piedi. E' Federico Vanelli, misteriosamente scomparso senza lasciar alcuna traccia la sera di due anni prima, il 28 aprile 1945. Al momento della morte aveva 32 anni. I familiari non si erano mai rassegnati a quella perdita e per tutto questo tempo avevano insistito perchè il maresciallo Rotini non abbandonasse le indagini. E la loro tenacia viene premiata. I sospetti cadono sugli amici che erano con Federico la sera della scomparsa, che vengono fermati. Sono Giorgio Zanella, 27 anni, di Magenta; l'agricoltore Roberto Gipponi, 21 anni; il guardiacaccia Carlo Agardi di 21 anni e il contadino Daniele Brambini, 23 anni, tutti residenti a Moscazzano. Dopo un interrogatorio durato venti ore i quattro confessano il delitto e forniscono elementi per una ricostruzione sommaria dei fatti: erano tutti appartenenti a formazioni partigiane e quella sera, usciti da un'osteria, avevano deciso di recarsi a Dosso Martino dove, da informazioni ricevute, era stata vista una squadra di nazifascisti che avrebbero potuto attaccare, ed avevano convinto a seguirli anche Vanelli per partecipare all'azione. Giunti sul posto avevano mandato avanti Federico con la scusa di perlustrare il terreno ma, fatti pochi passi, lo avrebbero freddato con una scarica di mitra sparata da Carlo Agardi. Poi, una volta verificata la morte del compagno, avevano iniziato a scavare una fossa profonda un paio di metri e larga ottanta centimetri in cui avevano sepolto in piedi il corpo del Vanelli. Al termine dell'interrogatorio i quattro vengono arrestati: Agardi con l'accusa di essere materialmente l'autore del delitto, gli altri per esserne stati complici. I tre, con la legge in vigore, rischierebbero solo cinque anni di carcere.

All'arresto, però, è scampato un altro partecipante all'uccisione, che, secondo le ammissioni dei quattro, ne sarebbe stato anche il mandante: è l'ingegnere Filiberto Stramezzi, ventottenne di Moscazzano, titolare delle Acciaierie e Ferriere di Crema e compagno d'armi di Vanelli tra i partigiani. Sarebbe stato lui a organizzare il delitto per motivi di gelosia, inviando sul posto quella sera un suo amico fidato che avrebbe sparato in aria un colpo di mitra, per far credere alla vittima che stesse effettivamente partecipando ad un'azione punitiva. Compiuto il delitto i cinque si sarebbero accordati per non dire nulla e, subito dopo il ritrovamento del cadavere, Stramezzi si sarebbe dato alla fuga insieme alla giovane moglie, sposata quattro mesi prima. Dall'interrogatorio emergono altri particolari drammatici: dopo la prima scarica di mitra Vanelli sarebbe stato ancora in vita, e finito dai suoi compagni per ordine dello stesso Stramezzi, poi sotterrato in piedi e colpito al capo con una vanga per accertarne la morte. Il 6 maggio 1947 Stramezzi viene rintracciato a Roma grazie alle fotografie segnaletiche inviate da Crema, nel quartiere Parioli, dove abitano i genitori, e catturato dopo un maldestro tentativo di fuga. Gli agenti avevano seguito l'auto con a bordo il padre, che era disceso una volta arrivato in viale Parioli, si era guardato attorno con fare circospetto, poi era risalito e ripartito. Un quarto d'ora dopo l'auto era ricomparsa facendo scendere, stavolta, Filiberto Stramezzi e la moglie che, data un'occhiata in giro, era entrato in una trattoria per telefonare in paese e, proprio in quel momento, gli agenti avevano fatto irruzione con le pistole in pugno, lo avevano caricato su un'auto e portato via mentre la moglie sveniva. Nell'operazione era stato catturato anche il padre, sceso dall'auto per dar man forte al figlio.

Ma Stramezzi, sottoposto all'interrogatorio dal vicequestore romano Musco, respinge l'accusa di essere il mandante dell'omicidio, pur confermando di essere a conoscenza del delitto e dell'occultamento del cadavere di Vanelli fin dal primo momento, ma di aver taciuto perchè minacciato dai veri assassini. Tuttavia cade in numerose contraddizioni. 

Emergono, però, altri particolari interessanti. All'indomani della Liberazione Stramezzi aveva offerto un pranzo in un locale all'aperto di Moscazzano a Giorgio Zanella, comandante di una brigata partigiana di cui era vicecomandante Federico Vanelli, a sua volta descritto come un giovane valoroso che si era distinto in varie azioni di guerra, ma inviso a Stramezzi, suo compagno d'infanzia, sia per vecchie ruggini familiari, sia perchè invidioso della popolarità che Vanelli si era conquistato agli occhi della popolazione nella difesa di Moscazzano dai tedeschi,. Ma c'è di più:il giorno prima di essere ucciso, Vanelli aveva salvato la vita allo stesso padre di Stramezzi, catturato dai partigiani.

Nel frattempo due fratelli del Vanelli denunciano a loro volta un certo Giuseppe Seresini che, a più riprese, si era fatto consegnare circa 80 mila lire con la promessa di scoprire l'autore dell'omicidio di Federico. Nella ricerca del suo corpo, unico elemento utile per poter mettere alle strette i quattro,  sospettati fin dall'inizio di essere gli autori del delitto, si ricorre anche al paranormale. Un amico informa i parenti del giovane di aver sognato di inciampare in un piede del cadavere, sepolto nella località Dosso Martino. Il sogno diventa collettivo: altre persone dicono di aver avuto la stessa visione ed un'anziana ne fornisce una descrizione così particolare da poter circoscrivere un'area di cento metri. Non contenta, una cognata del povero Vanelli fornisce una sua fotografia ad un medium, che chiede una mappa dei luoghi ad occidente di Moscazzano e poi, caduto in trance, indica il luogo esatto dell'omicidio e la prima lettera, una A, del nome dell'assassino. I familiari raccontano la cosa ai Carabinieri che iniziano a sondare la zona con crivello ed una lunga asta a forma di freccia. L'estenuante ricerca avviene per varie notti, scelte tra quelle senza luna, per non destare alcun sospetto. Poi, una notte, all'improvviso la trivella affonda nelle zolle senza trovare alcuna resistenza ed il terreno improvvisamente cede. Viene spinta a forza in profondità l'asta a forma di freccia, che viene ritratta con infilzati un pezzo di bretella e un frammento della camicia indossata dalla vittima. E' la notte del 6 dicembre 1946, ma i Carabinieri decidono di non procedere al fermo degli indiziati in attesa di raccogliere ulteriori elementi per assicurare tutti alla giustizia, senza il rischio di una fuga. Poi la neve copre ogni cosa e bisogna attendere il marzo 1947, quando i quattro vengono fermati e rinchiusi nel carcere di Crema.

Passano alcune settimane e Stramezzi viene scarcerato la sera del 25 luglio 1947 dietro richiesta degli avvocati Mazza e Sbrisà e su proposta del Pubblico ministero, in quanto venuti meno gli indizi sufficienti a trattenerlo in carcere. I quattro imputati, per i quali il Procuratore generale ha richiesto l'applicazione dell'amnistia, su richiesta dell'accusa vengono invece rinviati a giudizio, in quanto viene accertato che la salma di Federico Vanelli è stata depredata di non meno di diecimila lire, di un anello d'oro con pietra e di una pistola. 

Il processo in Corte d'Assise inizia due anni dopo, la mattina del 10 febbraio 1949: presidente Colace, Pubblico ministero Gemelli, gli avvocati di parte civile Bozzi in rappresentanza del padre Stefano Vanelli, Giuseppe Mazza e Nicolini per altri due fratelli dell'ucciso; Degli Occhi e Gnocchi in difesa di Zanella, Adelchi Mazza, Capparota e Groppali costituiti in collegio a difesa degli altri tre imputati. Durante il periodo intercorso tra l'arresto e la prima udienza sono emersi altri particolari. Innanzi tutto la circostanza in cui è avvenuto il delitto. Il 28 aprile 1945 Federico Vanelli aveva invitato a pranzo in un locale di Moscazzano i rappresentanti dei gruppi partigiani presenti in paese ed il parroco per festeggiare l'avvenuta liberazione, ma non si era presentato all'appuntamento. Agli amici aveva detto di non sentirsi bene, mentre il padre, nel corso del primo interrogatorio successivo alla denuncia di scomparsa, aveva confermato che Federico era astemio e non gradiva i pranzi. In quei giorni in paese erano state arrestate per reati politici molte persone, tra cui Arturo Fabbri, ufficiale delle Brigate nere e padre della ragazza con cui Vanelli si era da poco fidanzato, circostanza nota agli altri partigiani. Era pertanto affiorato il dubbio che Vanelli volesse proteggerne la fuga e, di conseguenza, da parte di Giorgio Zanella, uno degli imputati che comandava le squadre partigiane, era stato impartito l'ordine di aumentare la vigilanza sull'edificio delle scuole, dove erano rinchiusi i detenuti politici. Il parroco don Giuseppe Patrini aveva dichiarato che Vanelli si era in un primo tempo presentato al pranzo, si era giustificato, e poi era uscito, mentre tra gli astanti si era diffusa una certa agitazione e qualcuno aveva detto “apriamo gli occhi”, ed un altro “questa sera ce la fa” fino a quando tre di loro, Gipponi, Agardi e Brambini si erano alzati rapidamente e lo avevano seguito. Preoccupato, il parroco, dopo qualche minuto, aveva invitato Zanella e Stramezzi, presenti al pranzo, a seguire i tre. Questi nel frattempo si erano recati presso la scuola dove affermavano di aver visto Vanelli con una pistola in pugno e, convinti che volesse liberare Fabbri, con la scusa che in una località vicina stavano sparando, lo avrebbero convinto a seguirli nei campi dove Agardi lo avrebbe colpito con due raffiche di mitra nello stesso momento in cui trafelati stavano arrivano Zanella e Stramezzi gridando “fermatevi, fermatevi!”.

Durante il processo Agardi conferma di aver ricevuto dal comandante Zanella una disposizione generica a far uso delle armi contro chiunque avesse tentato di avvicinarsi ai prigionieri, di aver trovato Vanelli con la pistola in mano nei pressi delle scuole, di aver seguito Brambini nel punto in cui aveva detto che si stava sparando, di aver ricevuto da Gipponi il mitra e di aver falciato con due raffiche Vanelli. Sarebbero poi ritornati al pranzo e poi a casa, ma, temendo una ritorsione della famiglia di Vanelli, avevano deciso, su indicazione di Zanella, di seppellire il cadavere, distruggendo il portafoglio contenente 50 lire. Dell'esecuzione non era stato informato il Cln di Cremona, temendo la vendetta della famiglia. Brambini conferma in Corte d'Assise quanto detto da Agardi, aggiungendo il particolare che il corpo sarebbe stato seppellito circa tre ore e mezza dopo l'esecuzione e che i detenuti politici erano quattro, sorvegliati da due guardie. Giorgio Zanella racconta di essere stato inviato in missione a Moscazzano e di essere rimasto parecchio tempo nascosto presso una famiglia amica fino al giorno della liberazione, quando venne avvicinato da Vanelli che gli disse di essere appena uscito dal carcere di San Vittore e gli chiese di essere arruolato fra i volontari della libertà, nonostante l'opposizione di altri partigiani. Conferma di aver indicato di far uso delle armi qualora se ne fosse configurata la necessità e racconta che Vanelli, quando era entrato nella sala del banchetto, aveva proposto il cambio delle guardie alle carceri in quanto inadatte. “Ho pensato che non mirasse ad altro che a mettere delle guardie che facessero comodo a lui. Allora ho invitato i mie attuali coimputati a uscire ed ho detto loro: «Recatevi alle scuole, sorvegliate, usate le armi in caso di bisogno». Era un ordine generico; ma sono il primo ad ammettere che poteva essere ritenuto specifico. Io non ho detto di sparare sul Vanelli; loro hanno creduto di intuirlo. Non intendo in alcun modo sottrarmi alle mie responsabilità”. Emerge anche, secondo la testimonianza del maresciallo dei Carabinieri di Montodine Dante Rotini, che Gipponi quella sera avrebbe dovuto uccidere anche il fratello di Vanelli, Giovanni, maestro elementare, incontrato per caso lungo la strada, ma poi non l'avrebbe fatto.

Sfilano altri testimoni: Stefano Vanelli, 81 anni, padre dell'ucciso, che porta un orecchino all'orecchio sinistro. Racconta di aver avuto dodici figli, di cui uno morto di malattia contratta nella prima guerra mondiale, un altro deportato in Germania, ed un terzo ucciso dopo essere uscito da un carcere politico. Arturo Fabbri, sentito subito dopo, racconta di essere stato un funzionario di un grande istituto assicurativo, sfollato a Moscazzano dall'Italia centrale dopo l'8 settembre ed arruolato nella Guarda Nazionale Repubblicana con mansioni solo burocratiche. Ricorda che il giorno della Liberazione Zanella e Vanelli erano andati a casa  sua per dirgli che non sarebbe stato eseguito un ordine di arresto a suo carico, dietro la promessa di non allontanarsi da casa. Afferma di non sapere di una relazione di sua figlia Carla con Federico Vanelli ma che, dopo quella visita, preoccupato per il fatto che sua figlia non era ancora tornata da Milano, si era recato dal conte Marazzi, anche lui reduce da Milano, per sapere se per caso l'avesse vista, poi, ritornando a casa,  aveva visto i partigiani che lo cercavano ed aveva mandato un'altra sua figlia a dire che era a loro disposizione. Spiega anche che la porta della prigione si chiudeva con una semplice serratura con la chiave inserita nella toppa dall'esterno. E racconta di aver avuto telefonicamente notizia dell'arresto di Vanelli, ma di non aver avuto alcun potere per evitarlo. Viene sentita anche Carla Fabbri e racconta come, in un primo tempo, venne sospettata della morte di Vanelli e trattenuta in camera di sicurezza per una settimana. Dice di aver conosciuto Zanella proprio in quell'occasione quando, ai carabinieri che la portavano via, avrebbe detto una frase del tipo “Ma non è stata lei” e di essere uscita con lui un paio di volte. Conferma di aver avuto una relazione sentimentale con Vanelli ma di non averlo visto da marzo. L'ex maresciallo dei carabinieri Giovanni Curzi spiega che il 25 luglio 1943 alcuni dei Vanelli avrebbero gettato nella concimaia il ritratto di Mussolini dovendo poi in varie occasioni fuggire per scampare alle irruzioni in cascina delle Brigate nere, tuttavia uno dei fratelli fu catturato e deportato in Germania, mentre Federico venne arrestato nell'aprile 1945 e tradotto in carcere a Milano a disposizione del federale Costa ed in seguito liberato dopo il 25 aprile. Racconta di aver subito nutrito sospetti sui quattro imputati e di aver cercato di convincerli a simulare un incidente, senza alcun risultato. Il vicesindaco Annibale Gritti spiega invece che le guardie da sostituire cui si riferiva Vanelli non erano quelle inviate alle scuole, ma bensì un ragazzo messo di guardia all'entrata dell'osteria dove si teneva il pranzo. Il ragazzo, Mario Gritti, formaggiaio ambulante di 25 anni, chiamato a testimoniare, si contraddice però più volte. E a questo punto, mentre i giudici si ritirano in camera di consiglio, nell'aula scoppia il finimondo. I Vanelli si scagliano contro gli avvocati della difesa, dietro cui si nasconde Gritti, dando origine ad una rissa con calci e pugni che coinvolge anche il pubblico presente nell'aula, fino a quando Carabinieri ed agenti di servizio riescono a spingere fuori la folla e chiudere l'aula. Quando torna la calma ed è possibile riprendere la seduta, gli avvocati di parte civile Bozzi e Nicolini chiedono per i quattro imputati una pena esemplare, in quando l'omicidio di Vanelli è stata una vera e propria esecuzione premeditata per liberarsi di un personaggio ritenuto, per vari motivi, scomodo. Il Procuratore generale Gemelli esclude categoricamente la possibilità di applicare l'amnistia, definisce la versione offerta dagli imputati “falsa, artificiosa, ridicola” e chiede le pene: 28 anni per Zanella, 25 per Gipponi, 26 per Agardi e 28 per Brambini, con quattro anni di condono per tutti ed il pagamento di una multa di 10.000 lire. Gli avvocati della difesa sostengono invece la tesi de delitto compiuto per fini politici, invocando l'amnistia. La mattina del 19 febbraio la Corte si ritira in camera di consiglio alle 13,30 e dopo un'ora arriva la sentenza: “Amnistia per tutti per il reato di omicidio; amnistia per il vilipendio di cadavere, reato per il quale doveva rispondere il solo Brambini; assoluzione per non aver commesso il fatto dal reato di furto. Quindi, ordine di scarcerazione immediata di tutti gli imputati”. In una lettera aperta inviata all'indomani al vecchio genitore, Stefano Vanelli, un anonimo che si firma “Candido” scriveva: “Ella sig. Stefano Vanelli, ha raggiunto un'età, in cui i pensieri prendono un'altra luce. Si volga, per un momento, a guardare i giovani. Dovranno anch'essi provare e soffrire quello che ha provato e sofferto lei? Come non desiderare ed anzi non volere che le nuove generazioni siano risparmiate dagli odi e dalle sventure delle generazioni al tramonto? Almeno aver sofferto per qualche cosa! Per i nostri figli, per i figli di tutti”. Per tutta risposta la famiglia Vanelli decise di lasciare per sempre Moscazzano.

 

Fabrizio Loffi


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