2 agosto 2021

Il delitto a San Quirico e il bandito poeta (11)

E' da poco finita la guerra. E' la sera del 24 ottobre 1945 e la famiglia Tegagni sta cenando riunita intorno al tavolo della cucina nella loro cascina in via San Quirico. Ci sono Arturo Tegagni, l'anziano padre Innocente, la moglie Alba Carletti e la figlia Renata. Manca solo l'altro figlio Sergio, meccanico presso la Cooperativa Partigiana Trasporti, che dovrebbe arrivare tra poco. Fuori cade una leggera pioggia. Il cascinale è avvolto dall'oscurità e dal silenzio, quando ad un tratto la porta si spalanca di colpo, come spinta da una folata di vento, e nella cucina irrompono tre uomini mascherati ed armati di grosse pistole che, sotto la minaccia delle armi, obbligano i quattro,  atterriti, a sedersi su un divano accostato alla parete.

Dicono di essere dei fascisti alla ricerca di armi, ed iniziano a rovistare dappertutto. In effetti, già nel maggio precedente il Comando militare della Caserma del diavolo aveva inviato l'ex partigiano Attilio Toninelli a verificare nella cascina la presenza di materiale di provenienza tedesca. Poi, mentre uno dei tre esce dalla cucina e si dirige verso l'ingresso dell'aia per fare da palo, un altro tiene a bada la famiglia sotto il tiro di due pistole ed il terzo obbliga Arturo a fargli strada verso il piano superiore alla ricerca di denaro.

In quel momento arriva Sergio che si imbatte nel bandito posto di guardia all'ingresso ed ingaggia con lui un furioso corpo a corpo, che mette in allarme gli altri due rapinatori, da almeno tre quarti d'ora impegnati a rovistare in casa. I due si precipitano fuori ma, per proteggersi la fuga, uno di essi, quello che aveva tenuto la famiglia seduta sul divano sotto la minaccia delle armi, si volta verso l'uscio di casa sparandovi contro vari colpi. Viene colpito Arturo, che muore poco dopo. Le indagini della Questura, guidate dal dottor Festa, si indirizzano in tutte le direzioni, vengono interrogate e fermate varie persone, ma non emerge alcun dato utile, nemmeno le impronte lasciate dai tre, cancellate dalla pioggia.

Passano quindici giorni senza alcuna novità, i tre sembrano svaniti nel nulla. Fino a quando un giorno, nei campi intorno alla cascina dei Tegagni viene rinvenuto un cappellaccio logoro e smunto, perso forse da qualche ladro notturno di legna, come i tanti che girano di notte nelle campagne intorno alla città. Ma la vedova di Arturo, alla quale viene mostrato il cappello, lo riconosce: appartiene proprio a quel rapinatore che li aveva tenuti inchiodati al divano quella sera puntandogli contro le pistole. Anzi Alba e la figlia, forse presagendo qualcosa, quella sera avevano cercato di imprimersi bene nella memoria tutti i particolari possibili che avessero potuto in futuro portare ad una eventuale identificazione dei banditi.

Le due donne ricordano che il loro aguzzino indossava un maglione grigio rovesciato bordato da una fettuccia verde, scarpe del tipo carrarmato, un pastrano impermeabile e, nei fori del cappuccio nero che indossava per nascondere il volto, avevano potuto notare due occhi arrossati e lacrimanti. La famiglia Tegagni consegna il cappello alla Questura, convincendo gli agenti che quel copricapo vecchio e sgualcito era sicuramente appartenuto al bandito. Ma come rintracciare il proprietario solo sulla base di un cappello logoro e quasi irriconoscibile trovato in un campo?

Ci vuole un mese e mezzo di complicate e minuziose ricerche, ed alla fine il proprietario del cappello salta fuori: nella sua abitazione viene trovato il maglione grigio bordato di fettucce verdi e le scarpe descritte dalla vedova Tegagni. Il misterioso personaggio viene fermato il 25 gennaio 1946 e sottoposto ad un confronto con altri cinque o sei uomini scelti casualmente e viene riconosciuto dalla madre e dalla figlia proprio per quegli occhi arrossati e lacrimanti, affetti da congiuntivite cronica e nell'inflessione della voce. L'indiziato si chiama Alfredo Turini ha 40 anni ed abita in città, ma continua a professarsi innocente, anche se un'ombra grava pesantemente su di lui: quindici giorni l'omicidio di Tegagni, sua madre si era suicidata gettandosi nel Po. Gli investigatori pensano per il rimorso di avere un figlio assassino.

Il processo in Corte d'Assise si tiene quattro anni dopo, la mattina del 27 febbraio 1950, in un'aula gremita e surriscaldata. Il pm Gemelli, non essendo presente il funzionario di ps Festa che si era occupato dell'indagine prima di essere trasferito a Udine, sostenuto dagli avvocati di parte civile, chiede che il procedimento venga rinviato o iscritto ad altro ruolo, ma la Corte decide di procedere con l'interrogatorio dell'imputato. 

Turini è un ometto piccolo e dal viso infossato. Prima che iniziasse l'udienza era apparso irrequieto ed aveva continuato a scambiare sorrisi e saluti con una parte del pubblico in aula, ora invece davanti al giudice assume un atteggiamento melodrammatico ed aggressivo. Nega ogni addebito e racconta le sofferenze subite nei quattro anni di carcere e di manicomio cui è stato sottoposto, ed a riprova di quanto sostiene inizia a declamare, tra la sorpresa generale, una serie di versi in cui descrive il proprio calvario giudiziario e professa la propria innocenza. E conclude: “In un giorno non lontano/(è certezza e non speranza)/ci darem tutti la mano/in mondiale fratellanza/ed andremo alla riscossa/canterem bandiera rossa”.

Ovviamente la declamazione dei versi coglie tutti di sorpresa tra l'imbarazzo della Corte e degli stessi avvocati della difesa, che non riescono a calmare l'improvvisato oratore. La moglie, che siede tra i testimoni, sviene ed è portata fuori dall'aula. Turini tenta la carta dell'infermità mentale, come dimostrebbe anche un album di disegni eseguiti dall'imputato durante la detenzione, che l'avvocato Groppali presenta alla Corte. Viene ripristinata la calma, ma alle domande del presidente Turini risponde ancora in versi ed in prosa, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Il tono è sempre aggressivo e mostra tutto lo sdegno dell'innocente condannato ingiustamente, potrebbe sembrare uno schizofrenico, ma le risposte che fornisce sono del tutto coerenti ed appropriate. La scena è tutta per lui che, da attore consumato, si rivolge direttamente al pubblico lanciando appelli e chiamandolo a testimone della propria innocenza. E sciorina altri versi: “Da quattr'anni in cella chiuso/non so più cosa pensare/ma faranno qui un abuso?/Vorran proprio condannare?/Mi aiutate, buona gente:/come voi, sono innocente!”. 

Turini tuttavia, tra un verso e l'altro, ammette di essere andato insieme ad altri sei suoi compari a rubare legna nei campi di Tegagni verso il Natale del 1945, di aver commesso altre volte reati di questo tipo, spinto dall'indigenza, ed afferma di aver perduto in quell'occasione il cappello che era stato poi ritrovato e costituisce oggi una delle principali prove a suo carico. Racconta anche che la sera del delitto si trovava insieme ad altri suoi amici, certi Molaschi e Scolari e quel cappello è diventata la sua ossessione. Ma lo racconta, tanto per cambiare, in rima: “Il cappello maledetto/fu la causa d'ogni male:/se diverso era l'aspetto/ non andavo all'ospedale./ L'ospedale, voglio dire,/ dove son rinchiusi i pazzi/che fan proprio divertire/con le smorfie, gli urli, i lazzi”. Al termine della deposizione Turini, stremato, chiede una sigaretta, che gli viene ovviamente negata.

Altri due testimoni, certi Calamari e Molardi, due dei sei che avevano partecipato alla spedizione notturna a caccia di legna, confermano che Turini. durante il ritorno, si era accorto di aver perso il cappello, ma di non essere in grado di ricordarsi se lo avesse effettivamente con sé quella sera. La testimonianza più attesa è quella della sorella di Turini. Sostiene di essere l'autrice di una lettera giunta alla Procura il 10 marzo 1949 in cui dichiarava che l'imputato aveva raccontato all'altra sorella Vera di ricordarsi esattamente di essersi trovato la sera del delitto in un'osteria con Molardi e Scolari, che lo avevano fatto bere, dopo di che se ne era andato a letto senza ricordarsi più di cosa avesse fatto quella sera. Definisce il fratello come una persona buona, generosa, amante degli scherzi e, prima dell'arresto, perfettamente sano di mente ed equilibrato e proprio per questo, dopo l'arresto, di essersi improvvisata “detective” perchè alcuni particolari l'avevano convinta della sua innocenza. Il fatto che, ad esempio, all'indomani del delitto, Turini si fosse lamentato che il suo cappotto era stato scambiato con uno simile ma in migliori condizioni, nelle cui tasche aveva trovato due bossoli di proiettili.

L'aveva poi colpita l'atteggiamento tenuto in quell'occasione dalla cognata, con la quale ammette di non essere in buoni rapporti, e del fatto che lo Scolari frequentasse con una certa assiduità la casa del fratello intrattenendosi a lungo con la moglie, alla quale avrebbe anche offerto del denaro. Aveva allora deciso di mostrare alla vedova di Tegagni quell'uomo per vedere se non ravvisasse in lui qualche somiglianza col “tenente”. Ed effettivamente, dopo un paio di volte, la vedova Tegagni aveva riscontrato molte analogie con il capo dei rapinatori, ma poi non aveva voluto più occuparsi della cosa. Di conseguenza aveva proseguito nelle sue indagini, ostacolata spesso dalla cognata.

Nel corso dell'udienza successiva, però, non viene accolta la tesi della sorella “detective”: alla ripresa del dibattito Turini, a differenza della giornata precedente si dimostra particolarmente attento e vivace, e durante l'ennesima discussione tra le parti sul colore del cappello, esclama: “Ma questo cappello cambia sempre colore, diciamo che è la bandiera dei tre colori”. Ed alla vista del figlio Carletto, chiamato a testimoniare, preso da impeto lirico declama: “S'innalzi la bandiera di mio padre/, voi non lo avete mai aiutato/il cuore del povero innocente/io son qui per combattere/ per la bandiera rossa...”, ma non può proseguire perchè, stavolta, viene zittito. Tensione in aula quando parla la moglie di Turini e racconta di essere disgraziata perlomeno quanto la Tegagni, avendo dovuto vivere questi anni con otto bambini piccoli, di cui una andicappata, totalmente a suo carico con il marito in carcere. Ammette di aver ricevuto denaro dallo Scolari, senza aver alcun rapporto sentimentale, ma solo in considerazione del suo stato di indigenza. Spiega di non aver mai ostacolato la cognata nelle sue ricerche, ma al limite, di essersene disinteressata perchè impegnata con i bambini. Ritiene che il marito non abbia commesso l'omicidio di cui è accusato perchè “è un uomo che ha paura della sua ombra”.

Viene allora interrogato Giovanni Scolari il quale, pur ammettendo di conoscere Turini e di essere stato qualche volta a casa sua quando era in carcere, nega di aver dato denaro alla moglie, anzi afferma di avere con lei dei debiti per qualche centinaio di lire. Il presidente decide di mettere a confronto i due, tra cui scoppia una violento alterco con la Turini che lo accusa di essere capace di ogni delitto. Anche Carletto conferma che alla madre sono stati offerti soldi in vari biglietti da mille lire, puntualmente rifiutati. Viene messa a confronto anche la vedova Tegagni, che riconosce nelle caratteristiche fisiche dello Scolari molti punti di affinità con il “tenente”. Il presidente legge allora la perizia di uno specialista che dichiara Turini affetto da degenerazione psichica ereditaria.

Nell'udienza pomeridiana il pm va risolutamente all'attacco sostenendo la colpevolezza dell'imputato, spiegando che le incertezze e le contraddizioni emerse dai verbali dei carabinieri sarebbero dovute alla scarsa considerazione data ad alcune dichiarazioni delle parti lese e che quello della sorella del Turini è solo “un alibi mancato”, e pertanto chiede 24 anni di reclusione per omicidio aggravato. Sulla stessa lunghezza d'onda gli avvocati di parte civile Ebbli e Gnocchi, che chiedono un risarcimento simbolico di 10 lire.

Ma sono le arringhe degli avvocati della difesa Mazza e Groppali a far pendere la bilancia a favore di Turini, che viene infine assolto per  insufficienza di prove, mentre nell'aula scoppia il finimondo: la gente applaude e lo stesso imputato sviene teatralmente invocando la madre. Turini viene immediatamente scarcerato, non prima che gli vengano restituiti il cappellaccio ed il maglione, che tanti guai gli hanno causato. E l'omicidio di Arturo Tegagni, quattro anni dopo, viene definitivamente archiviato senza un colpevole.

 

Fabrizio Loffi


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