5 luglio 2021

L'affittacamere di piazza S. Agostino (6)

Quando la mattina del 10 febbraio 1947 venne convocato in Questura per la comunicazione di un arresto il giornalista de “La voce del Po”, questi rimase in effetti abbastanza deluso perchè sul tavolo c'erano solo alcune banconote di piccolo taglio sporche di un sangue divenuto ormai nerastro ed un verbale di tredici cartelle dattiloscritte. “Era forse un finale un po' povero -scrive – per un fatto di cronaca tanto sensazionale, per un delitto che tanto commosse e allarmò l'opinione pubblica”.

Torniamo indietro di qualche mese. Sono da poco passate le dieci della mattina del 1° dicembre 1946 quando Ebe Fiameni, cameriera in preda ad un forte shock, ed il fotografo Giacomo Velardita si presentano in Questura. Raccontano che pochi minuti prima, preoccupati del fatto che la porta dell'abitazione della propria padrona di casa, nonché affittacamere, Cesira Bernelli, era rimasta inspiegabilmente chiusa e la chiave per aprirla scomparsa, avevano chiesto al muratore Eugenio Balconi di salire con una scala a pioli fino alla finestra dell'appartamento. Ma dopo aver aperto le imposte e osservato l'interno, il muratore era precipitosamente disceso dicendo di aver visto l'affittacamere a terra, distesa in un lago di sangue. Viene immediatamente effettuato un sopralluogo dagli agenti di polizia che conferma il racconto dei due: forzata la porta e raggiunta la camera da letto, trovano il corpo della Bernelli disteso bocconi sul pavimento in una pozza di sangue, con una vasta ferita provocata da un taglio, che dalla nuca raggiunge l'orecchio sinistro. Intorno al cadavere qualche banconota da 10, 5, 2 e una lira per un totale di ottanta lire e, tranne una seggiola rovesciata, almeno in apparenza nessun segno di colluttazione. 

Ma con una perquisizione più accurata si scopre che nel letto di una camera vicina manca un lenzuolo ed una coperta rossa, seppur lavata di fresco, è macchiata di sangue. Altre macchie vengono rinvenute su altri oggetti: una tendina di tela, un tovagliolo ed un coltello da cucina che però, in seguito ad una perizia, viene escluso essere l'arma del delitto, in quanto il sangue che vi compare non è umano. Dopo alcuni giorni gli inquirenti ordinano di effettuare un'autopsia sul cadavere, da cui emerge che la Bernelli aveva ricevuti sei colpi alla testa con un corpo contundente che avevano leso in profondità la massa cerebrale. Verificati tutti gli elementi in possesso si decide di iniziare le indagini, partendo dagli ospiti e dagli inservienti della pensione: l'assassino, infatti, doveva avere avuto una certa dimestichezza sia con la vittima, che non aveva richiesto aiuto, sia con  l'ambiente, che ha dimostrato di conoscere nei minimi particolari. Vengono dunque interrogati tutti gli ospiti che quella notte avevano dormito nella pensione. 

La cameriera Ebe Fiameni riesce a dimostrare di avere un alibi di ferro. C'è poi un certo Bhela Levi, ebreo, che faceva parte di un gruppo di ebrei di nazionalità slava, tedesca e polacca alloggiati nelle camere al piano terreno, il quale dichiara di aver sentito tra le 21,30 e le 22 i lamenti di una donna, ma di non avervi dato peso. Il fotografo Giacomo Velardita dichiara di essersi trattenuto nell'appartamento della vittima sino alle 21,15 e di essersi cucinato qualcosa da mangiare insieme all'amico Vittorio Fuochi, uscito circa tre quarti d'ora prima di lui. C'è poi un altro ebreo, un certo Clein Mavro, che racconta di aver udito verso mezzanotte dei lamenti di donna e poi lo scrosciare d'acqua in un lavandino vicino alla propria camera, come se qualcuno riempisse un secchio. 

Viene ritenuta di grande importanza la testimonianza di un'amica della donna, Maddalena Cibolini, che durante pomeriggio si era intrattenuta con la Bernelli fino alle 21,30. La testimone sostiene che verso le 18,40 l'affittacamere aveva ricevuto la visita di uno strano tipo, alto ed avvolto in un lungo mantello nero, che le aveva consegnato una somma di denaro. Lo stesso personaggio sarebbe ritornato verso le 21,30, entrato nella sala da pranzo e consegnato alla donna altri soldi, parte dei quali in biglietti da 10, 5, 2 e una lira. La Cibolini, però, di quell'uomo non aveva potuto scorgere il volto, perchè, al momento di uscire, lui si era voltato dall'altra parte. Gli altri pensionati, tra cui un rabbino ed un tenente dei Carabinieri, dicono di non aver sentito nulla.

I sospetti, dunque, si concentrano su questo misterioso individuo alto dal lungo mantello nero, che, a detta della testimone, si era intrattenuto con la vittima proprio in quel lasso di tempo a cui i periti avevano fatto risalire la morte della donna. Il presunto assassino viene individuato in un attore di una modesta compagnia teatrale che in quei giorni era alloggiata nella pensione, un certo Luigi Lazzari. Nella sua camera, condivisa con un altro attore della stessa compagnia, Avito Rossini, viene rinvenuta una coperta di lana grigia sporca di sangue con sei buchi. Tanto basta per arrestarlo, al termine di uno spettacolo che la compagnia aveva dato nel teatrino di Casalmorano. Lazzari viene interrogato e conferma di essersi recato dalla Bernelli verso le 19,40 e di averle consegnato l'importo per l'affitto della camera per otto giorni ma, anziché consegnarle l'intera cifra, pari a 640 lire, gliene aveva date solo 620 perchè non aveva altro denaro con sé. Era ritornato poi verso le 20 ed aveva consegnato altre 640 lire per conto del proprio compagno di camera. Evidentemente la sua deposizione non coincide con la testimonianza della Cibolini, che aveva dichiarato orari differenti. Ma gli inquirenti non gli credono perchè ritengono che l'attore menta per non sembrare l'ultima persona ad avere incontrato la vittima. Lazzari viene sottoposto ad un interrogatorio incalzante e a vari confronti nel corso dei quali si contraddice numerose volte “mentendo però – aggiunge il cronista – con abilità da buon attore che recita una parte difficile, in un altrettanto difficile dramma della sua vita. A questo punto le autorità inquirenti con gli elementi a loro disposizione potevano ricostruire il fatto”. Una ricostruzione, però, che fa acqua da tutte le parti. Vediamola. Verso le 21,30, dunque, Lazzari, descritto come “individuo isterico, deperito organicamente”, sarebbe rimasto solo con la Bernelli, consegnandole il denaro ma, approfittando del fatto che l'affittacamere si sarebbe voltata per riporre la somma in qualche ripostiglio, le avrebbe sferrato un violento colpo alla nuca con un coltello o un paio di forbici che avrebbe portato con sé. Dopo averle sottratto il proprio denaro insieme ad un altro gruzzolo che, con tutta probabilità, la Bernelli possedeva, sarebbe uscito recandosi al cinema con altri suoi due compagni di lavoro, Angelo Bettinelli e Maria Tiso. Sarebbe rientrato verso le 23,45 ed a quel punto avrebbe udito i lamenti della donna ferita e, in preda al terrore, sarebbe ritornato nell'appartamento con una coperta presa dal proprio letto, gliela avrebbe avvolta intorno al capo, colpendola ripetutamente con un oggetto pesante per quattro, cinque o sei volte. Poi, sempre in preda al panico, avrebbe tentato di lavare le coperte del letto e con un lenzuolo, poi fatto sparire, si sarebbe ripulito le scarpe, portandosi poi via la chiave dell'appartamento. Il giorno dopo, come se niente fosse, sarebbe partito per il suo lavoro in provincia. Di fronte a queste prove “che sembrano schiaccianti”, ovviamente l'imputato si rifiuta di confessare. “Il suo atteggiamento- racconta il cronista – negli interrogatori è stato freddo, assente, da persona rassegnata e vinta. Da attore, ha cercato di sviare le indagini, ma si è sempre contraddetto, confuso. Il motivo che l'ha spinto a togliere la vita ad una persona, è stato un po' di denaro, di quel denaro che per lui, in quel momento di smarrimento, rappresentava il pane e, forse la vita stessa. Nessuno saprà mai attraverso quale strada il disgraziato è giunto al delitto. Ora egli, tra le pareti di un carcere, attende una sentenza che comunque segnerà la fine della sua esistenza. Perchè egli non ha ucciso solo una donna. Ha ucciso anche se stesso”. Un giudizio senza appello, dunque. La storia, però, non finisce qui. Dopo undici mesi di carcere, necessari per giungere alla fine dell'istruttoria, Luigi Lazzari, assistito dall'avvocato Adelchi Mazza, venne rimesso in libertà la mattina del 20 novembre 1947, senza che a suo carico emergesse alcuna prova. Una decina di anni dopo il delitto dell'affittacamere verrà definitivamente annoverato tra i casi irrisolti.

 

Fabrizio Loffi


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