Come non cadere in un fosso
Il brano di Vangelo che la liturgia propone in questa ottava domenica del Tempo ordinario, ci fa ascoltare un’ulteriore parte del discorso della pianura che incontriamo nel capitolo 6 del Vangelo secondo Luca. Il testo che oggi commentiamo è chiaramente composto da una raccolta di detti che possono essere staccati l’uno dall’altro senza perdere il loro senso. È pur vero che il loro accostamento forma una unità, che ci chiede di provare a cogliere il loro significato attraverso uno sguardo complessivo.
Il brano si può suddividere in due parti: nella prima si parla dello sguardo che siamo chiamati ad avere verso il fratello, verso l’altro; nella seconda parte ci viene detto come dovrebbe essere il nostro sguardo verso noi stessi.
Molto spesso il nostro atteggiamento verso gli altri è quello di chi tende a considerarli meno di sé. L’altro è una persona cieca o quantomeno con problemi di vista, è sempre un “discepolo” rispetto a noi che per lui siamo un “maestro”, poiché ne sappiamo di più e abbiamo più diritto di parlare. Quante volte non ci è capitato di dire, parlando con qualcuno: “Aspetta, ti spiego io come stanno le cose”?
L’atteggiamento a cui Gesù ci spinge è invece molto diverso, insinuando l’idea che l’io che vuole guidare, correggere e sedersi in cattedra, potrebbe essere non meno miope, impedito, impreparato di colui a cui si rivolge. Nel nostro rapporto con gli altri, le parole di Gesù non negano l’importanza della correzione fraterna, ma ci invitano ad essere molto attenti ed umili quando la viviamo. Quando ero studente il mio professore di fisica diceva che un problema si può affrontare precipitosamente o con il “metodo del freno a mano”, per studiare la situazione e individuare la soluzione più corretta.
È la stessa cosa che ci dice Gesù. Prima di andare a dire ad un altro che la sua strada è sbagliata, siamo chiamati a valutare con attenzione se siamo sulla strada giusta; prima di correggere l’atteggiamento dell’altro, ci viene chiesto di provare ad esaminare se il nostro atteggiamento non sia più errato del suo; prima di ritenersi l’unico maestro, ci viene proposto di pensare se anche l’altro possa essere non meno preparato di noi, e non uno sciocco solo perché la pensa in modo diverso. Se non avessimo tra le mani il Vangelo da quasi duemila anni, direi che si tratta di suggerimenti assai utili quando ci si pone davanti ad un monitor con in mano una tastiera, pronti a sparare contro tutti coloro che hanno idee diverse dalle nostre. Gesù, con molto buon senso, con un pizzico di bon ton e con una saggezza divina, ci invita a riconoscere all’altro, contro cui vorremmo scagliarci, la medesima dignità di cui ci riteniamo in possesso con pieno diritto. In verità ci invita a fare un passo in più, assai sconvolgente per il modo di pensare di molti: forse l’altro ha più ragione di me. Per quanto fastidio ci possa dare questo pensiero, non raramente è vero. Tenere presenti questi consigli ci permetterebbe una convivenza molto più sana e pacificata: sia nelle relazioni in presenza, sia in quelle che si vivono attraverso la rete.
Non contento di aver infierito così pesantemente sull’ego dei suoi ascoltatori, Gesù alza la posta e dal piano della relazione con l’altro si sposta sul piano dell’identità personale, utilizzando l’immagine dell’albero e richiamandoci a considerare le parole che usiamo.
Chi di noi non si ritiene un “albero buono”, cioè un albero che merita il posto che occupa nel giardino, il diritto che il sole lo baci nei giorni sereni, che l’aria ne muova le fronde nei giorni ventosi, che l’acqua lo disseti in quelli piovosi? Ebbene non è esattamente così. Non è un diritto acquisito una volta per sempre il posto che si occupa nel giardino.
Il proprietario del terreno potrebbe anche decidere che l’albero vada sostituito, e il criterio per tale scelta dipende dai frutti che l’albero produce a chi lo coltiva e se ne prende cura. Anche in questo caso, le parole di Gesù invitano a non essere troppo presuntuosi della propria identità, chiedendosi piuttosto quali siano i frutti che stiamo producendo nella vita. Se si tratta di frutti buoni, appetibili, nutrienti, succosi e gustosi non ci sono motivi perché l’albero rischi di essere sradicato o abbattuto. Ma se i suoi frutti sono marci, non giungono a maturazione, hanno cattivo sapore, o l’albero è divenuto come una pianta infestante, valgono le parole del Battista: “Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà frutto viene tagliato e gettato nel fuoco” (Lc 3,9).
Anche la seconda immagine che viene utilizzata in questa seconda parte del brano di vangelo mi piace considerarla utile per un po’ di galateo digitale: che parole usiamo? che parole leggiamo? che immagini guardiamo e immettiamo in rete? C’è una pienezza del cuore, un cuore ricco, da cui esce il bene e che il bene cerca. C’è un cuore impoverito da cui esce il male e che il male cerca, per non sentirsi in colpa per le sue mancanze.
Tutto questo non è detto per spaventarci, ma per spingerci al bene e al meglio. Per il cristiano c’è una certezza: Gesù è la guida che ci vede bene, ascoltando e mettendo in pratica le sue parole, siamo sicuri di procedere per la strada giusta e non cadere in un fosso.
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