Libero Accini, la giornata della memoria: gioia, condanna, dovere
La mattina del Giorno della Memoria 2025 mi sono trovato a vivere un’esperienza inusuale: la consegna da parte del Prefetto Roberto Bolognesi, nella Sala del Conservatorio di Mantova, delle Medaglie d’Onore del Presidente della Repubblica a un folto gruppo di mantovani in quanto IMI (Internati Militari Italiani) nei campi di internamento tedeschi dopo l’8 settembre 1943, coraggiosi militari che si rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò preferendo la prigionia, il lavoro coatto, la fame, in non pochi casi, la morte. Tra queste decine di internati un non-Imi, Libero Accini, un sopravvissuto dei campi di sterminio, nato a Piubega, un piccolo comune mantovano, divenuto più tardi cittadino di Isola Dovarese.
Entrando nella grande assai affollata del Conservatorio – autorità, famigliari, rappresentanti delle associazioni, studenti e insegnanti – Cristiano Iotta, il nipote di Libero invitato come famigliare insieme alla sorella Cesira, al quale doveva essere consegnata l’onorificenza, mi sussurra che aveva timore di emozionarsi troppo se fosse salito sul palco e mi prega di recarmi io dal Prefetto e dalla Sindaca di Piubega Maria Cristina Zinetti a ritirare la medaglia dello zio. Onorato e emozionato, sono salito sul palco: strette di mano, fotografie di rito. Sceso, l’amico di sempre Fausto Malinverno, uno dei custodi delle memorie di Accini, mi dice: “Ma non hai detto niente!”. “Il Prefetto non me l’ha chiesto”, fu la mia risposta, “anche perché il tempo era limitatissimo”. Cosa avrei potuto e dovuto dire? Lo trascrivo ora, con più calma e con più tempo, prendendo lo spunto da questa singola esperienza per considerazioni un poco più ampie.
Innanzitutto avrei potuto dire che da Libero Accini la memoria è stata onorata ad amplissimo spettro, narrando da giornalista/testimone i tre passaggi decisivi del periodo 1939-1945: il conflitto militare, la lotta di liberazione, la tragedia dei campi di sterminio nazisti. Nel testo La rotta della morte. Canale di Sicilia 1943-43, ricorda la sua visione delle operazioni della marina italiana nel Mediterraneo e nell'Atlantico, avendo vissuto, tra l’altro, tre naufragi. Senza retorica, in una prosa asciutta, descrive uomini e marinai delusi, non più confusi dalle promesse mirabolanti del Regime, ricchi di umanità, sempre disposti al dovere e a misurarsi in prima persona, solidali tra loro, anche col nemico stesso, se le condizioni operative lo permettevano.
In un secondo volume, Organizzazione Bianco. Missione speciale in Liguria 1944, narra della sua partecipazione alle Quattro Giornate di Napoli (27-30 settembre 1943) e successivamente della sua missione in Liguria, durante la quale ha contatti con personaggi ragguardevoli della lotta di Liberazione, come Paolo Emilio Taviani e Pietro Caleffi, il mantovano sopravvissuto autore di “Si fa presto a dire fame”. La sua decisione di partecipare alla lotta di liberazione non derivava da una scelta ideologica per inseguire il sogno di un mondo libero da ingiustizie e da violenze, che per lui è impossibile da realizzare, ma per guadagnare in prima persona il diritto di ognuno alla libertà.
Qui organizza una formazione partigiana fuori dai tradizionali schieramenti politici, l’Organizzazione Bianco. Tradito, è catturato dai fascisti e dai nazisti, torturato e infine mandato a morire. Inizia così quella trama di spaventose esperienze che lo portarono in diverse camere di tortura, da Genova a Verona, da Bolzano ai campi di sterminio di Dachau e Auschwitz. Il tutto narrato con grande sofferenza in L’uomo che ha visto il peggio. Questo è stato il suo modo di onorare il dovere della memoria come atto liberatorio per sé, ma anche come sofferenza nel ripresentificare tanti lutti e tanti orrori. Nell’ultima pagine della sua testimonianza più terribile intende richiamare il dolore, che può diventare ossessione sulla persistenza “eterna” delle memorie, delle tragedie, delle sofferenze devastanti: Un giorno avrò la forza di rialzarmi. Imparerò a camminare. Il sole si leva sulla terra. Fosforescenze. Fantasmi fosforescenti di impiccati, di gassati, di morti di fame, di torture. Nell'aria che tu e io respiriamo, c'è una parte dei miei fratelli uccisi. I miei fratelli uccisi sono là, sono dovunque. Tu non li vedi e ti guardano. Continueranno a guardarti finché vivrai.
Questa pagina si ricollega a Primo Levi, quando parlò della memoria non solo come un dovere ma anche come una condanna. I suoi testi sull’esperienza del lager nascono dall’urgenza di esprimere la propria angoscia per quanto vissuto, di trovarne un senso. Scrive Levi: Il bisogno di raccontare agli «altri», di fare gli «altri» partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari: il libro è stato scritto per soddisfare a questo bisogno; in primo luogo quindi a scopo di liberazione interiore. Ma, oltre alla “liberazione interiore”, la sua scrittura è finalizzata anche alla volontà di “obbligare al ricordo”, anzi quasi di “infliggere il ricordo ai lettori” di quanto è stato: Meditate che questo è stato: / vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / stando in casa andando per via, / coricandovi, alzandovi. / Ripetetele ai vostri figli. / O vi si sfaccia la casa, / la malattia vi impedisca, / i vostri nati torcano il viso da voi” (Poesia iniziale di Se questo è un uomo). Un bisogno quasi disperato di non essere sepolto nell’oblio, nel ricordo non solo degli eventi, ma anche dei vissuti. In queste parole Primo Levi, sempre così pacato e ostinatamente non giudicante nei confronti dei suoi aguzzini, diviene “cattivo” nei confronti di chi non volesse più ricordare le tragedie della shoah.
In lui si manifesta una oscillazione. Da un lato c’è l’esigenza di un discoro pacato, quello del testimone: “Devo confessare che davanti a certi visi non nuovi, a certe vecchie bugie, a certe figure in cerca di rispettabilità, a certe indulgenze, a certe connivenze, la tentazione dell’odio la provo, ed anche con una certa violenza: ma io non sono un fascista, io credo nella ragione e nella discussione come supremi strumenti di progresso, e perciò all’odio antepongo la giustizia. Proprio per questo motivo, nello scrivere questo libro, ho assunto deliberatamente il linguaggio pacato e sobrio del testimone, non quello lamentevole della vittima né quello irato del vendicatore: pensavo che la mia parola sarebbe stata tanto più credibile ed utile quanto più apparisse obiettiva e quanto meno suonasse appassionata; solo così il testimone in giudizio adempie la sua funzione, che è quella di preparare il terreno al giudice. I giudici siete voi”. (Appendice a “Se questo è un uomo”, 1976). Se si pensa alla pacatezza della sen. Liliana Segre si comprende come questa lezione di Primo Levi sia stata fatta propria anche da tanti altri testimoni dei campi di sterminio, purtroppo in via di estinzione, data l’età.
Dall’altro si affaccia un’altra urgenza, per contrastare una delle maledizioni del nostro tempo: il desiderio di oblio, il non pensare alle brutture del passato, il “lasciamo perdere queste cose”, il “ma siamo sicuri che ci siano state?”, “Il passato è passato. Pensiamo ad altro”. Qui si collocano le terribili parole di un sopravvissuto che finì per suicidarsi perseguitato da tanti ricordi, dal senso di colpa dell’essere ancora vivo. Se perdete la memoria di quanto da noi vissuto, scrive questo grande uomo e scrittore, per rendere più tranquilla la vostra esistenza: “vi si sfaccia la casa, / la malattia vi impedisca, / i vostri nati torcano il viso da voi”. Aveva ragione Primo Levi a lanciare questa invettiva? Ogni persona dovrebbe avere il coraggio di rispondere in cuor proprio a questo tragico interrogativo.
Un ulteriore momento di riflessioni di fronte al 27 gennaio diventato data ufficiale nella Giornata della memoria, riguarda la giusta distinzione tra memoria collettiva e ricordo individuale. Se a ciascuno di noi si ponesse la domanda su quale sia più importante, quasi sempre si sentirebbe rispondere: la memoria comunitaria, perché più generale, più sottoposta a verifiche, più valida in un confronto storiografico. E personalmente non mi sembra possibile dar torto a questo punto di vista. Ma c’è un però, un’obiezione che nasce dal di dentro.
La memoria generalizza, rischia di cancellare le individualità, le differenze, il valore delle singole esistenze, che sono sempre individuali. Lo esprime con grande chiarezza Edith Bruck, con parole che qui mi permetto di riassumere: “Perché devo essere vista, pensata, considerata nel mio essere “ebrea”, e non me stessa come individualità? Ognuno di noi è diverso, io non sono come gli altri appartenenti al mio popolo, e così lo sono ciascun italiano, tedesco, russo, palestinese, ebreo”. Perciò occorre valorizzare le differenze, che sono esaltate dall’essere portatori di ricordi individuali, i quali garantiscono la continuità della nostra identità nel tempo. Dei quali occorre conservare testimonianza, come delle memorie documentate, del resto.
Ad esempio questa straordinaria scrittrice come reagisce alla sua deportazione, rappresentata simbolicamente dal pane messo a lievitare in casa sua, che è rimasto là, inutile, perduto per sempre. Per lei perduto è anche “Colui che è”, che ha abbandonato il suo popolo, e quanti ancora lo pregano. “Mi chiedo da sempre e non ho ancora la risposta: a che servono le preghiere se non cambiano niente e nessuno, se Tu non puoi fare niente o non senti, non vedi o se sei l’invenzione di una mente superiore, inimmaginabile o sei Tu che hai inventato Te stesso?”. Un Dio a cui Edith scrive alla fine una lettera, che non avrà mai risposta. “Scrivo a Te, che non leggerai mai i miei scarabocchi, non risponderai mai alle mie domande, ai pensieri di una vita”.
Ma perché, si potrebbe rispondere, abbandonare il rapporto tra passato e futuro non rivalutando la “funzione redentrice dei ricordi” e l’alimento insostituibile della speranza come memoria del futuro? “Conoscersi, sapere sfuggire al fascino stregato del presente, alla distrazione e alla noncuranza dell’oggi, alla banale quotidianità della vita e recuperare il passato, che i ricordi fanno rivivere, dando un senso al trascorrere febbrile e fatale degli anni” (Eugenio Borgna).
Ecco che in ogni individuo, indipendentemente dalle condizioni personali e dai ruoli sociali rivestiti, le memorie collettive e i ricordi individuali si mescolano, si completano a vicenda. Ogni donna e ogni uomo, ogni individuo è una complessa mescolanza di tutto ciò. Che va riconosciuta e onorata. Rispettata e valorizzata. E noi dobbiamo dedicare la nostra esistenza, il suo senso, a fare sì che ogni persona possa esprimere se stessa verso sempre nuovi orizzonti di ricordi e di speranze. Ecco per me il significato della Giornata della memoria 2025, che avrei voluto dire davanti alla grande sala dell’Auditorium del Conservatorio di Mantova.
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commenti
Michele de Crecchio
28 gennaio 2025 23:53
Grazie, carissimo Carmine, di questo prezioso commento!