7 giugno 2021

Ester, la Tortorella di via dei Rustici (2)

Esterina Demicheli, detta “La tortorella”,  forse per il colore dei suoi capelli biondi, aveva allora poco più di quarant'anni, non era particolarmente avvenente, dalla corporatura formosa ed un viso accattivante con la bocca larga ed il naso all'insù. E' la notte di domenica 28 maggio 1916. Un urlo scuote il silenzio di via Polluce, poi il tonfo, come quello di un corpo che cade pesantemente sulla strada, seguito da un rapido correre di passi affrettati che si dirigono verso via Milazzo. Poi più nulla. Il cadavere insanguinato viene ritrovato la domenica mattina dalla cameriera Erminia Beltrami ai piedi della finestra della camera da letto, al piano superiore dell'abitazione, crivellato da una cinquantina di pugnalate, sferrate con inaudita violenza. La donna, rinvenuta seminuda, ha cercato di proteggersi coprendosi il viso con il braccio sinistro in un estremo tentativo di difesa.

La piccola casa, descritta dal cronista, esiste ancora oggi: “Tra via Milazzo e via dei Rustici, fra gli angoli formati dalla chiesa Evangelica e la facciata prospiciente alla caserma Lamarmora a sinistra del vicolo Polluce, è un piccolo fabbricato a due piani. Esso si compone di un cortiletto sul quale danno i ballatoi dei due piani superiori e una porta che immette nel piano terreno, composto di una camera da pranzo e dell'attigua cucina. A fianco della porta d'ingresso, a destra, è un sgabuzzino di sgombero, dal quale a mezzo di una ripida scaletta, si va nella cantina. La porta della scala che immette ai piani superiori, è a fianco di questo sgabuzzino: dalla cucina per una scaletta interna vi è il passaggio che conduce alla scala del caseggiato. Il secondo piano è disabitato. Al primo subito dopo una cameretta d'ingresso vi è a sinistra la camera da letto dell'assassinata e, di fronte all'ingresso, una camera senza mobili, che serve da spogliatoio, e dove non è che un baule vuoto. Le due camere del primo piano, che con quelle del piano terra sono le uniche abitate, hanno le finestre che danno su via dei Rustici, ma essa rimane sempre chiusa, servendo all'uopo quella del vicolo Polluce”. I mobili sono dozzinali, alle pareti è appesa qualche fotografia fra cui quella della sorella morta tempo addietro, un letto in ferro battuto, un lavabo smaltato bianco, due armadi, un cassettone. Nella casa, presa in affitto da una certa Annita, Esterina si era trasferita nel 1909, dopo la morte del padre Luigi e della sorella: era a pochi passi dalla caserma La Marmora, anche se, come riferivano i vicini, i soldati non erano tra i suoi clienti preferiti, perchè la Tortorella accoglieva solo “persone serie”.

Quella domenica mattina, verso le 11, Erminia Beltrami si era recata come al solito in vicolo Polluce per sbrigare le faccende domestiche, era entrata nel cortiletto dalla porta, collegata ad una corda che faceva suonare un campanello, era passata dalla sala da pranzo, poi in cucina ed infine era salita al primo piano. Aveva trovato la porta della camera da letto socchiusa, così come anche le imposte della finestra, ma, una volta entrata, aveva visto che Esterina non era a letto. C'era però sotto la finestra un corpo rannicchiato coperto da un asciugamano ed alcuni panni, da cui spuntavano le gambe. Pensando ad uno scherzo della Tortorella le aveva toccate, ma subito si era ritratta lanciando un urlo: quelle gambe erano rigide e fredde e le coltri che coprivano il corpo erano, in realtà, intrise di sangue. Erminia, in preda al terrore, si era precipitata in strada gridando e, nel silenzio della domenica mattina, le sue urla agghiaccianti erano risuonate richiamando subito una gran folla. Arrivano il Sostituto Procuratore del Re presso il tribunale, avvocato Lanzetta, il Giudice istruttore Bongiovanni, il cancellerie Botti, il delegato Trotti, il maresciallo dei Carabinieri di via Aselli ed il maresciallo di Ps Romanato. La gente è talmente accalcata, che la piccola via viene chiusa e viene posto un piantone di vigilanza. 

Inizia subito la perquisizione in casa, ma, nonostante vengano rinvenuti aperti un cassetto del comò vicino alla porta di ingresso ed un cassettone al piano superiore, apparentemente nulla è stato asportato dall'appartamento. Scarse tracce di colluttazione anche nella camera da letto dove Esterina è stata rivenuta, solo un vaso rovesciato vicino al lavabo e l'asciugamano di spugna gettato sul cadavere. L'assassino deve aver frugato in cerca di qualcosa, come dimostra il cassetto aperto ed il suo contenuto gettato alla rinfusa, ma la collana d'oro con rubini e gli anelli che vi erano contenuti, erano già stati venduti da tempo. E, nella fuga, non si è accorto neppure di quel manicotto posto sotto il cappotto appeso al tubo della stufa sull'ingresso, dove Esterina teneva nascosta la borsetta con i soldi, sessanta lire, ed altri oggetti d'oro. Il letto della camera è intatto, anche se è presente un incavo dove qualcuno si è sdraiato. Il cadavere della Tortorella giace piegato sul lato destro in una pozza di sangue rappreso sotto la finestra, con le gambe raccolte, il braccio destro piegato ad angolo sotto il tronco ed il sinistro che copre il viso ripiegato sul collo. La parte inferiore del corpo è nuda, se si escludono le calze nere e le scarpette ugualmente nere con alti tacchi. L'esame sul cadavere effettuato dai medici legali Ferrazzi e Cappello rivela che la sventurata è stata uccisa circa otto, nove prima del ritrovamento, cioè verso l'una o le due della notte precedente. Esterina, oltre alle varie ferite, presenta anche lividi ed un morso sul collo, ma, particolare curioso, indossa ancora la collana di perle e gli orecchini che è solita portare abitualmente. 

Tra i primi accorsi nella casa di via Polluce vi è un giovane tipografo diciannovenne, Ezio Michelotti, a Cremona per svolgere il servizio militare, probabilmente l'ultimo ad aver visto Esterina ancora viva. Racconta al Procuratore del Re ed al Giudice istruttore di essersi intrattenuto con la donna tra le 5 e le 8 di sera del sabato: “Aveva a lungo chiacchierato con la donna con la quale cenò. Mangiarono dei maccheroni al sugo e delle cotolette, ma la Demicheli, che disse di essere un po' indisposta, non mangiò quasi nulla, rifiutando la pasta ed accontentandosi di una cotoletta. Poco dopo la cena, il Michelotti, salutata la Demicheli, andò a cercare alcuni amici e non tornò dalla donna che non doveva rivedere che immersa nel proprio sangue, freddo cadavere”. Michelotti afferma poi di avere incontrato verso le 21 alcune guardie di Ps, una delle quali avrebbe salutato la comitiva, che si sarebbe intrattenuta fino a notte inoltrata in un'osteria. L'attendibilità dell'alibi viene confermata dalle testimonianze di altri avventori del locale. D'altronde la professione di Ester è nota a tutti, anche se esercitata con grande discrezione: il via vai di clienti selezionati in via dei Rustici è abbastanza sostenuto, ma la Tortorella è conosciuta come persona, se non moralmente irreprensibile, certo estremamente riservata. L'indagine si presenta difficile, tant'è che si parla subito di “mistero”. 

Unici testimoni del delitto sono una vicina, Erminia Lotti, di 22 anni, residente al numero 13 di via Milazzo, che, verso l'una di notte, sente il rumore di una colluttazione e la voce di Esterina che grida “No, no! Dio, miga! Miga!” e poi il tonfo di un corpo che cade. Un altro testimone è la sentinella di guardia all'ingresso principale della caserma La Marmora che, dopo la colluttazione, avverte distintamente il rumore di una porta aperta e subito richiusa e dei passi frettolosi, forse di un uomo, lungo via Milazzo, di cui informa il maresciallo, rientrato in caserma poco dopo.

Non viene ritrovata neppure l'arma del delitto, un coltello corto dalla lama larga ed affilata, che il cronista suggerisce del tipo di quelli “che servono ai soldati per tagliare la pagnotta”. Viene invece ritrovata in casa una lettera diretta al cognato di Genova che la Tortorella aveva iniziato a scrivere la sera del venerdì, dove, parlando della sua precaria condizione economica, racconta dell'intenzione di raggiungerlo in quella città per tentare la fortuna. In realtà il cognato, vedovo della sorella, avrebbe voluto sposarla, ma lei si era rifiutata di farlo per restare libera.

L'autopsia rivela che ad uccidere la donna sono state 51 coltellate, di cui una profonda una ventina di centimetri, inferte da un'arma ricollegabile alle baionette in uso nell'esercito. Ci si ricorda allora di un episodio raccontato dal giovane Michelotti nella sua deposizione: la sera del venerdì, secondo quanto gli aveva detto Esterina, addormentatasi alla finestra su via Polluce, sarebbe stata svegliata da un soldato che chiedeva di entrare. La stessa Demicheli avrebbe raccontato alla cameriera Erminia Beltrami che una sera, mentre stava sulla porta, le si era avvicinato un soldato a richiedere i suoi favori. Di fronte al rifiuto della donna, racconta il cronista “sarebbe nata una discussione piuttosto vivace, infine della quale il soldato l'avrebbe ripetutamente insultata con una parola volgare, specificatrice del mestiere esercitato dalla Demicheli, e avrebbe concluso con un: «me la pagherai, brutta...» andando via. Può essere questo, di cui parlava la Demicheli alla sua cameriera, lo stesso soldato da cui la Tortorella aveva raccontato al tipografo Michelotti, d'essere stata svegliata la notte, precedente al delitto, mentre s'era addormentata sul davanzale della finestra?”. Il soldato si sarebbe poi ripresentato, ricevendo un nuovo rifiuto.

Nel frattempo gli inquirenti setacciano la casa e sequestrano vari pacchetti di lettere ricevute dalla donna, verificano se da una finestra sempre aperta ed illuminata della La Marmora, posta di fronte a quella dove è stato trovato il cadavere di Esterina, si possa vedere quanto accade nell'altro appartamento. Ma non emerge nulla. Si viene solo a sapere dalla cameriera che un distinto signore con gli occhiali avrebbe lasciato nella serata del sabato dieci lire alla Demicheli, non più ritrovate.

E' a questo punto che entra in scena il personaggio chiave della vicenda. Si chiama Carlos Dominguez, detto “lo spagnolo” anche se nato a Caracas in Venezuela, ha venticinque anni, ed è ospitato nella caserma La Marmora. In realtà si fa chiamare Carlo del Vecchio, utilizzando il cognome del padre che non lo ha mai riconosciuto. Si è arruolato volontario a Napoli nel 1915 con un altro connazionale, Michele Jollenardo, ed assegnato alla caserma di Cremona. I sospetti su di lui iniziano ad addensarsi il giorno dopo l'omicidio, ma Dominguez ha ottenuto un permesso per recarsi al consolato spagnolo di Milano e bisogna attendere mercoledì 31 maggio per poterlo rivedere. Quando arriva in stazione è già stato predisposto un accurato servizio di pedinamento per cui, al suo rientro in caserma, trova ad attenderlo il delegato Tretti che prima lo interroga, poi lo fa accompagnare in carcere. Sembra che il militare sia caduto in numerose contraddizioni sulla serata del sabato precedente l'omicidio: prima avrebbe detto di essere rientrato in caserma e di aver dormito nella camerata, poi in un ripostiglio. Non ha dato spiegazioni sull'uso della sua baionetta e, nei giorni della sua trasferta milanese, avrebbe lasciato in caserma un paio di pantaloni macchiati di sangue. Un colpevole finalmente c'è e ce n'è abbastanza per chiedere il processo e dare risposte alla città che si interroga sull'efferato delitto. “Lo spagnolo” è però un tipo strano, parla malissimo l'italiano, ma nega risolutamente di aver ucciso lui la Tortorella, che conosce appena. Viene anche sottoposto a perizia psichiatrica, curata dal dottor Giorgio Pardo. Tuttavia gli indizi nei suoi confronti sono schiaccianti. 

La mattina del 17 agosto inizia in Corte d'Assise l'attesissimo processo presieduto dal colonnello Rasini, in un'aula gremita da una folla variopinta, dove spicca tutto il mondo della “leggera” cremonese. Stupisce l'atteggiamento dell'imputato, insolitamente tranquillo, che si limita a rispondere alle domande del presidente con grande naturalezza, come se la cosa non lo riguardasse. Ricostruisce i fatti di quella notte: spiega di essere andato in libera uscita a cenare con un compagno in una trattoria di corso Garibaldi, di essere rimasto senza soldi e di essere ritornato in caserma per farseli prestare dal furiere, di non averlo trovato, e di essere ricorso di conseguenza ad un compagno  da cui aveva ottenuto venti centesimi. Racconta di essere poi rientrato tra le 9 e dieci o le 9 e un quarto, di aver cercato di dormire nel ripostiglio del pane ma di averlo trovato chiuso e di essersi poi addormentato su un tavolaccio vicino alla latrina, di essersi poi svegliato ed aver raggiunto il ripostiglio dove i suoi compagni già dormivano. Al mattino era stato svegliato da un altro commilitone che voleva farsi far la barba, in quanto lui è, effettivamente, un barbiere. Solo il giorno dopo avrebbe appreso dai compagni dell'omicidio della Tortorella, forse per mano di un soldato romano. Alla domanda del presidente su dove sia finita la sua baionetta, lo “spagnolo” risponde candidamente di averla restituita con la giberna al commilitone che gliela aveva consegnata, prima di uscire per il servizio di ronda, la sera del giovedì, con il sottotenente Belloni. “Io non ho mai avuto relazione colla De Micheli – aggiunge - non l'ho mai avvicinata, e soltanto la conoscevo di vista. Era una donna frequentata da ufficiali e sottufficiali, e non era adatta ad un povero soldato che non poteva spendere molto danaro”. Anche l'acqua profumata che aveva acquistato proprio il giovedì, era per il suo lavoro di barbiere, non per un regalo alla Tortorella. E le macchie di sangue su quei pantaloni lasciati in caserma e sulle assicelle del letto erano dovute al fatto di essersi pulito un dito con cui si era graffiato un piccolo foruncolo.

Nell'udienza successiva una nuova sfilata di testimoni: la cameriera Erminia Rota, la fruttivendola Matilde Pedrazzani, la sarta Gesuina Ghisolfi, il soldato del 65° fanteria Raffaele Parisi, il maresciallo Michele Manca, il caporal maggiore Augusto Gennari, il tenente Achille Marini, il caporal furiere Azzio Benazzi. Non emerge nulla di rilevante, se non che le baionette perse erano state ritrovate, una nella stanza dell'ufficiale di picchetto, l'altra in quella dei soldati addetti alla contraerea. Una, però, sembra macchiata, forse di sangue. Il 19 agosto nuova udienza dove vengono chiamati a testimoniare, tra ammissioni e contraddizioni, altri militari: il capitano Mastrocinque, i soldati Antonio Guagliuni, Antonio Polimeni e Luigi Bellacicca, e di nuovo l'amico della Tortorella Ezio Michelotti. 

Si arriva alla mattina del 23 agosto quando, pregustando la condanna definitiva per omicidio, “la loggetta riservata è piena zeppa di ragazze del bel mondo cremonese, accorse, «quasi colombe dal desio chiamate» ad ammirare il presunto autore del più orrendo fra i fatti di sangue che la città nostra ricordi”. Vengono sentiti altri soldati, fra cui un amico del Dominguez, Michele Jallenardo, che conferma “che a Cremona il Dominguez frequentava donne di malaffare. Una delle quali se l'era fatta per amante. Non gli parlò mai della Demicheli, né gli consta altrimenti che con essa abbia avuto relazione”. A far pendere la bilancia decisamente a favore dell'imputato è la deposizione del perito sottotenente Renato Dolfini, a cui erano state affidate le analisi sulle macchie di sangue: “Dice il perito di avere riscontrato delle macchie piccolissime, molto in contrasto collo scempio che l'assassino fece del cadavere. Quelle sul letto, erano a forma palese di goccia, per cui è da escludersi che siano state prodotte dallo sfregamento di indumenti che potessero essere stati nascosti sotto il pagliericcio; quelle sui calzoni grigio-verdi erano così piccole da poter lasciar creder alla verità dell'asserto del Dominguez, il quale sempre disse di essersele prodotte asciugandosi un dito intriso di sangue derivato dalla rottura di un foruncolo”. Anche la piccolissima goccia di sangue trovata sulla punta dalla baionetta non era in alcun modo riconducibile al delitto.

Ed è indulgente anche il professor Giorgio Pardo, autore della perizia psichiatrica che, anzichè leggerne il contenuto, si limita ad osservare che “il Dominguez, individuo di carattere mite e un po' fanciullone, possiede le prerogative della sua razza al massimo grado e lo ha dimostrato ampiamente prima e durante il processo. Venuto in Italia per coprirsi di gloria e ritornarne carico al suo paese, risparmiandosi le palle nemiche; per la sua smania di falsare la verità, si è esposto leggermente ad un rischio ben più grave, quello di andare in galera. Egli non è un individuo psichicamente anormale; però lo studio della sua psiche induce il perito ad escludere che egli sia capace di un così grave delitto”. E così, quando all'indomani viene pronunciata, dopo mezzora di camera di consiglio, la sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto, il presidente del Tribunale Rasini, chiama a sé Carlo Del Vecchio, o Dominguez, come dir si svoglia e, ricordandogli una delle sue fanfaronate, bonariamente lo ammonisce: “Siate pure un gran caricaturista, ma siate per l'avvenire, anche meno...ballista”.

“Lo spagnolo” è morto in manicomio. Qualche giorno dopo il processo qualcuno giurò di averlo trovato carponi nella chiesa di San Sigismondo mentre tracciava con la lingua croci sul pavimento.

Fabrizio Loffi


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